Principio nel passato espresso dalla regola generale iudex iuxta alligata et provata iudicare debet e del quale oggi si assumono due diverse nozioni. Si parla di principio dispositivo in senso sostanziale con riferimento alla disponibilità dell’oggetto del processo. Trova espressione, da un lato, nell’art. 2907 c.c. e nella previsione secondo cui la tutela giurisdizionale dei diritti è prestata «su domanda di parte e, quando la legge lo dispone, anche su istanza del pubblico ministero o d’ufficio» e, dall’altro lato, nell’art. 99 c.p.c., per il quale «chi vuol far valere un diritto in giudizio deve proporre domanda al giudice competente».
In base a tale principio, è nella disponibilità del titolare del diritto sostanziale – tranne le ipotesi eccezionali della tutela giurisdizionale d’ufficio o su richiesta del pubblico ministero – di chiedere oppure non chiedere la tutela giurisdizionale del proprio diritto violato. In passato si è ritenuto che tale disponibilità fosse correlata con la disponibilità del diritto soggettivo sul piano sostanziale. Ma la successiva analisi ha portato a ricondurne il fondamento nell’esigenza di salvaguardare la terzietà e imparzialità del giudice. Diretta conseguenza di questo principio è la regola della corrispondenza fra chiesto e pronunciato (art. 112 c.p.c.), intesa nel senso che spetta a chi propone la domanda giudiziale di determinare anche, in modo vincolante per il giudice, l’ambito dell’oggetto del processo.
Per principio dispositivo in senso processuale s’intende, invece, il principio per cui, come regola generale, solo alle parti spetta l’indicazione dei mezzi di prova a sostegno dei fatti allegati in giudizio (art. 115, co. 1, c.p.c.). Ciò non esclude che, per particolari esigenze concrete, il legislatore attenui la portata di un simile principio, riconoscendo in capo al giudice più o meno ampi poteri istruttori ufficiosi (per es., art. 61, 117, 118, 213, 240, 241, 257, 281 ter e 421 c.p.c.).