arte Movimento artistico di matrice romantica così denominato nel 1833 da A. Bianchini, che gli diede poi una precisa codificazione nel 1842, con Il purismo nelle arti. Il p. proponeva, analogamente al precedente movimento dei Nazareni, un ritorno all’arte d’ispirazione religiosa e la rivalutazione dell’arte del Trecento e del Quattrocento. Vi aderirono, tra gli altri, F. Overbeck, T. Minardi, P. Tenerani e lo scrittore d’arte P. Selvatico.
Il termine fu nuovamente usato nel 1918 per indicare un movimento artistico francese (purisme) il cui manifesto, Après le cubisme, fu pubblicato da A. Ozenfant e C.-E. Jeanneret (Le Corbusier). In posizione critica nei confronti del cubismo, contro le sue tendenze decorative, il p. si proponeva di indicarne un’interpretazione razionale, in risposta a un’esigenza di rigore e ordine in sintonia con il momento storico. Proponeva un’arte pura e rigorosa, assimilabile all’essenzialità della macchina, per la qualità intrinseca degli elementi plastici, la semplicità architettonica dell’oggetto rappresentato (objects-types), l’equilibrio strutturale della forma. Il movimento, breve e di significato limitato, fu di interesse e stimolo per la sua teoria (elaborata sulle riviste L’Élan, 1915, e L’Esprit nouveau, 1920-25). letteratura Atteggiamento e movimento critico-normativo a carattere tradizionale e conservativo assunto da letterati e grammatici nei confronti della propria lingua nazionale: le tesi e la prassi puristiche si fondano sul rifiuto dei prestiti e dei forestierismi e in genere dei neologismi, nonché, in base a un criterio classicistico d’imitazione, sull’assunzione di un modello ideale di lingua letteraria identificato nella lingua di uno o più scrittori, di una o più opere, di un determinato ambiente sociale-geografico in una data epoca.
In Italia i più importanti movimenti puristici sono rappresentati, dal Rinascimento a tutto l’Ottocento: dal fiorentinismo dell’Accademia della Crusca, che (accogliendo in generale i criteri già fissati da P. Bembo) identifica la lingua nazionale con la lingua usata dagli scrittori fiorentini o al più toscani, soprattutto da quelli del Trecento; dall’intransigente reazione a certa sciatteria linguistica dell’ultimo Settecento, reazione impersonata dall’abate A. Cesari, veronese, dall’abate M. Colombo, trevigiano, e dal marchese B. Puoti, napoletano, che propugnavano un anacronistico ritorno integrale all’uso, soprattutto lessicale, trecentesco (è questo il p. per antonomasia e in senso stretto); infine, dalle teorie e dalla prassi di A. Manzoni e dei manzoniani, che propongono e diffondono, specialmente con il prestigio dei Promessi sposi, l’ideale di una lingua nazionale fondata sull’uso fiorentino colto.