Sacro Romano Impero
Apoteosi e declino degli imperatori della cristianità
La notte di Natale dell’800 papa Leone III incoronò imperatore Carlomagno nella basilica di S. Pietro. Da quel gesto nacque il Sacro Romano Impero, entità politica singolarissima, destinata a durare oltre mille anni: fu nel 1806 infatti che, pressato da Napoleone, l’imperatore Francesco II d’Asburgo depose la corona del Sacro Romano Impero
Dopo la caduta dell’Impero Romano d’Occidente la città che ne era stata la capitale decadde rapidamente, ma il suo mito, il ricordo di ciò che Roma antica e il suo Impero erano stati sopravvissero a lungo. All’Urbe erano legati un’immagine di potenza e di grandezza e il ricordo di un dominio universale, amministrato da leggi comuni e rafforzatosi assimilando e non distruggendo coloro che non erano Romani. Quest’idea durò a lungo: Costantinopoli si proclamò seconda Roma, poi in Età moderna fu Mosca – dove si imponeva il potere imperiale degli zar – a proporsi come terza Roma.
Fu dal 4° secolo che Roma divenne davvero punto di riferimento per la cristianità. I vescovi della città, eredi della missione di Pietro e Paolo e nel ricordo dei tanti cristiani lì martirizzati, si trasformarono lentamente in papi (papa); essi rivendicarono, cioè, il compito di amministrare la Chiesa, che era ancora divisa in tante comunità distinte. Il loro crescente prestigio era dovuto a più elementi: anzitutto, nella lunga agonia dell’Impero avevano finito per svolgere compiti decisivi di supplenza politica e di assistenza ai cittadini; inoltre, operando nella capitale di un vasto dominio si erano anche impadroniti dell’essenza di una celebrata arte di governo (avevano per esempio disposto la costituzione di un archivio); soprattutto, però, i papi derivavano la loro autorità dal fatto di essere ospitati nella città che era stata capitale dell’Impero, in quella Roma che richiamava a tutti l’idea del potere universale.
Insidiati dai Longobardi, in lite con l’imperatore d’Oriente su vari temi – la questione delle immagini sacre, il modo di fronteggiare scismi ed eresie, ma soprattutto la pretesa alla supremazia dei sovrani di Bisanzio –, i pontefici dovettero cercare nuove alleanze. L’esigenza divenne pressante soprattutto quando nel 750 Ravenna, la capitale bizantina in Italia, cadde in mano longobarda. Fu così che il fondatore della dinastia carolingia, il franco Pipino il Breve, iniziò una stretta collaborazione col papato. Nel 754 e nel 756 scese in Italia e sconfisse i Longobardi che furono da lui obbligati a consegnare al papa le città – tra cui la stessa Ravenna – e altri territori che avevano fatto parte dei domini dell’Impero bizantino in Italia. Il papato acquisiva con ciò un dominio temporale in una situazione molto complessa. L’abbandono da parte dei Bizantini della Penisola italiana aveva creato un vuoto, che però i pontefici non si rivelarono disposti a colmare da soli. Progettando la restaurazione dell’Impero Romano, o di qualcosa a esso simile, i papi non ebbero insomma la volontà – o la forza – di farsi essi stessi imperatori. Il pontefice Leone III scelse per tale fine il figlio di Pipino, Carlomagno, che nel Natale dell’800, in una cerimonia in S. Pietro, fu incoronato quale supremo sovrano dell’Occidente.
I contemporanei furono profondamente impressionati dall’avvenimento, ma il progetto di «restaurazione dell’Impero Romano» – questa l’iscrizione apposta sui sigilli di Carlomagno – di fatto non si realizzò. L’imperatore si rivelò infatti tutt’altro che disposto a romanizzare il regno (ormai Impero) franco. Carlomagno voleva soprattutto estendere il dominio dei Franchi a tutto l’Occidente. Per di più – con un’azione tesa a uniformare riti, attività pastorale, organizzazione delle chiese e dei monasteri europei – invase con decisione il campo del papato, che non riuscì in quel tempo a opporre resistenza. Per quanto già alla morte di Carlomagno si fosse avviato un processo di frammentazione del dominio, solo alla fine del 9° secolo i pontefici cominciarono a riguadagnare un ruolo da protagonisti. Era quello un tempo oscuro per il papato, screditato e diventato strumento di fazioni romane in lotta.
Carlomagno, grazie all’investitura, governava sulla Francia, sull’Italia centrosettentrionale, sulla Germania e sulla Spagna settentrionale. I confini dell’Impero, ossia i territori sottoposti alla giurisdizione diretta del sovrano, sarebbero poi mutati in ogni epoca: l’imperatore Ottone I (metà del 10° secolo) avrebbe visto per esempio ridursi il territorio imperiale solo a Germania e Regno italico. Quel che però s’andò affermando, nel Medioevo, era che l’imperatore fosse il primo tra i sovrani perché titolare – sia pur teorico – della giurisdizione sull’intera cristianità.
Nella crisi irreversibile dell’Impero carolingio prese a brillare la stella di Ottone duca di Sassonia. Una volta sottomessa la Germania, egli s’accordò con il papa per ristabilire un saldo impero in Europa. Prima e dopo l’incoronazione in S. Pietro (962) garantì di rispettare le prerogative della Chiesa e di riconoscere valide tutte le donazioni fatte ai papi da precedenti imperatori e re. Poi i rapporti con papa Giovanni XII entrarono in crisi: Ottone I nel 963 attaccò Roma e cacciò il pontefice – la cui condotta personale non era proprio senza pecche –, che fu deposto e sostituito da un sinodo.
Ottone I e i suoi successori avrebbero continuato a condizionare pesantemente la vita della Chiesa di Roma. Influirono sulla scelta dei nuovi papi e, a partire dal 996 – con la nomina di Gregorio V –, iniziarono a imporre l’elezione di una serie di vescovi di Roma non italiani. Questi ultimi presero da allora l’abitudine di cambiare nome una volta eletti, assumendone uno nuovo scelto nella lista dei predecessori. Almeno nel nome, insomma, diventavano ‘romani’.
Il successore di Ottone I, Ottone II, morì nel 983 a Roma e fu sepolto in S. Pietro. Suo figlio Ottone III avviò un poderoso processo di rafforzamento dell’istituzione imperiale: spostò la sua residenza sul Palatino, dove avevano risieduto gli imperatori antichi, e si circondò di una corte sontuosa, costruita sul modello di quella bizantina. Ma i suoi progetti ambiziosi scatenarono l’ostilità della popolazione romana che nel 1001 lo costrinse ad abbandonare la città. Questa scena si sarebbe ripetuta più volte nel corso del Medioevo, fino al 14° secolo. I sovrani tedeschi, giunti a Roma con un seguito armato per farsi incoronare dal papa, vennero ogni volta in urto con l’aristocrazia cittadina e con il papa e costretti a far ritorno al di là delle Alpi.
In età ottoniana i vescovi, soprattutto in Germania, divennero vassalli imperiali e titolari della sovranità su rilevanti territori. Era l’imperatore ad arrogarsi il diritto di nomina dei vescovi che erano divenuti, come visto, anche principi dell’Impero. Tale diritto fu contestato da papa Gregorio VII (1073-85). Egli intendeva liberare la Chiesa dalle intromissioni del potere politico, in particolare proprio per quel che riguardava le nomine (investiture) dei vescovi, nelle quali l’imperatore non avrebbe più dovuto aver parte. La lotta per le investiture fu condotta senza esclusione di colpi. Celebre è la scomunica lanciata da Gregorio VII contro l’imperatore Enrico IV. Nel 1122, a Worms, si raggiunse un accordo che riconosceva parte delle ragioni dei papi, ma che conservava ai vescovi il ruolo di vassalli imperiali.
Il progetto papale di restaurare un Impero che proteggesse la Chiesa romana e ne divenisse docile strumento si era esaurito da subito, già dal tempo di Leone III e Carlomagno. I propositi dei primi imperatori tedeschi di conseguire il risultato opposto – ossia di asservire la Chiesa all’Impero – subì, dopo la lotta delle investiture, un colpo mortale che causò tra l’altro la contrapposizione in Germania tra le fazioni dei guelfi – filopapali – e dei ghibellini – antiromani.
Per tutto il Medioevo e, in parte, per la prima metà del Cinquecento, papato e Impero avrebbero continuato a contrapporsi, con intensità maggiore o minore, reclamando superiorità l’uno sull’altro, in qualità di sovrani e tutori della cristianità. Nessuno prevalse e ciò eliminò dalla scena europea il rischio di una piena identificazione del potere laico con quello religioso (come avveniva a Bisanzio o come poi si verificò per esempio in Russia). Stato e Chiesa marciarono insomma grazie a ciò in parallelo, pur convivendo litigiosamente.
Se Gregorio VII rivendicò ai soli papi il diritto di usare le insegne imperiali, Innocenzo III, agli inizi del Duecento, esaltò con forza la superiore potestà papale. Gli si era opposto l’imperatore Federico II di Svevia (della dinastia degli Hohenstaufen), protagonista, così come suo nonno Federico I Barbarossa, di un ambizioso progetto universalistico, che svanì con la sua morte.
Con Bonifacio VIII la rivendicazione papale della supremazia toccò il suo culmine. Solo il papa aveva pienezza di poteri: solo Dio poteva giudicare i pontefici, ma questi potevano giudicare gli altri sovrani. Bastò però un re di Francia – neppure un imperatore! –, Filippo IV il Bello, per far crollare le sue pretese.
L’Impero acquistò la qualifica di Sacro nel 12° secolo, durante le aspre fasi del confronto di Federico Barbarossa con la Chiesa romana. La definizione di Sacro Romano Impero della nazione germanica apparve ancora più tardi, nel corso del 15° secolo.
Per quel che riguarda le modalità di elezione dell’imperatore, la Bolla d’oro del 1356 dispose che a nominarlo dovessero essere sette principi, laici ed ecclesiastici, di Germania. Ridotto essenzialmente all’area tedesca, l’Impero era frammentato in più di 400 piccoli Stati: città con regime repubblicano, città imperiali, principati laici oppure ecclesiastici, e così via.
A partire dal 1438, con l’elezione di Alberto d’Asburgo, furono sempre esponenti di questa famiglia – che dominava sull’Austria, sulla Boemia e in seguito sull’Ungheria (asburgico, Impero) – a essere elevati sul trono imperiale.
Massimiliano I d’Asburgo (1459-1519) rivitalizzò l’antica istituzione imperiale. Istituì il Tribunale supremo dell’Impero, che fu organo di giurisdizione superiore, ma soprattutto, per mezzo di un’attenta strategia matrimoniale, pose le basi perché gli imperatori arrivassero a governare su un dominio immenso.
Di tale eredità si giovò Carlo V (1500-58), che cercò di valorizzare tutto ciò con un programma universalistico ambizioso, teso a trasformare l’imperatore nella guida indiscussa della cristianità. Furono però in molti a opporsi: i re di Francia e d’Inghilterra, ma anche i papi.
Paolo III, per esempio, ostacolò la guerra di Carlo V contro i protestanti tedeschi, perché anche questi gli sembravano utili a ostacolare i piani imperiali, e pure lo svolgimento del Concilio di Trento fu condizionato dal pregiudizio anti-imperiale del pontefice. Carlo V aveva unito la massima dignità della cristianità alla massima potenza. Dopo lotte estenuanti, stanco e deluso, abdicò, frammentando i suoi possessi (1555-56). Al figlio Filippo II venne assegnata la Spagna con le sue colonie e i possessi mediterranei; al fratello Ferdinando I toccò il titolo imperiale. Con ciò il Sacro Romano Impero Germanico tornò a essere soprattutto una realtà tedesca, sempre difficilissima da gestire.
Le strutture di potere imperiali erano molto fragili: non c’era un esercito comune, non un patrimonio imperiale se non i possessi ereditari degli Asburgo. Gli imperatori potevano solo governare cercando il consenso della Germania. Era nelle assemblee dei ceti (cioè dei cittadini divisi per classi sociali) e nella Dieta imperiale che le forze presenti nell’Impero potevano esprimersi.
Nobili, ecclesiastici, borghesi, talvolta contadini, divisi appunto per ceti, si esprimevano sui principali problemi, ma sarebbe sbagliato paragonare le assemblee locali o la Dieta imperiale a un parlamento di oggi. La tendenza di chi vi partecipava, e questo soprattutto per i ceti maggiori, era quella di rappresentare sé stessi e non il proprio territorio.
La competenza maggiore di queste assemblee era quella di approvare, su richiesta dell’imperatore, le tasse destinate a finanziarne la politica.
L’affermarsi della Riforma spaccò la Germania. Lo scontro religioso fu lungo e cruento, poi, con la Pace di Augusta, nel 1555, si arrivò a una cinica ed efficace formula di pacificazione. Il trattato riconosceva come irreversibile la spaccatura religiosa: le confessioni luterana e cattolica – non la calvinista né altre – venivano legittimate, ma in ogni Stato si sarebbe dovuta professare la fede del principe.
L’accordo ebbe grandi conseguenze per il destino dell’Impero. In una materia decisiva come quella religiosa, erano adesso i principi territoriali a disporre, mentre l’imperatore veniva messo da parte. Nei loro territori i principi vedevano, insomma, riconosciuto un diritto di sovranità superiore. L’Impero era un involucro ormai quasi vuoto.
La soluzione individuata ad Augusta legò indissolubilmente nei singoli territori la Chiesa e lo Stato. Il controllo sulla religione venne allora affidato al potere politico, che si servì delle proprie prerogative per trasformare il fatto religioso in strumento di controllo e di mantenimento del consenso.
La religione dello Stato doveva essere la religione del suddito, le Chiese erano di fatto incorporate nello Stato e nel suo sistema amministrativo e a esse i sovrani delegavano quelle funzioni (istruzione, assistenza) che non erano in grado di svolgere.
Gli storici hanno definito questo tempo età confessionale o del disciplinamento forzato.
Lo scontro religioso si riacutizzò in Boemia, che era dominio diretto degli Asburgo. Costoro non si mostravano più disposti a tollerare l’attività dei protestanti nei loro territori e una scintilla, nel 1618, generò uno scontro totale (la guerra dei Trent’anni) che coinvolse mezza Europa e divise nuovamente la Germania.
I trattati di Vestfalia del 1648 generarono però un’Europa e una Germania del tutto diverse. Nella pace, e nelle determinazioni a essa successive, fu anzitutto ridimensionato il ruolo dell’imperatore.
Agli Stati membri dell’Impero veniva riconosciuta ampia autonomia e piena libertà nei rapporti con gli altri Stati. Non soltanto: tutti gli atti imperiali dovevano essere approvati dalla Dieta. Anche le norme della pace di Augusta del 1555 vennero intanto attenuate: si legittimarono i calvinisti e si stabilì che se i sovrani avessero deciso di cambiare confessione religiosa la scelta non avrebbe dovuto coinvolgere anche i loro sudditi.
Con la soluzione individuata a Vestfalia l’Impero divenne anche formalmente una confederazione di Stati indipendenti. Alcuni di questi, la Prussia su tutti, diventarono grandi potenze politiche e militari, mentre gli imperatori d’Asburgo si impegnarono soprattutto per rafforzare i propri possessi dinastici austriaci e boemi. Nel corso del 18° secolo affrontarono ripetuti conflitti – guerre di successione spagnola, polacca, austriaca e guerra dei Sette anni –, costituirono un significativo dominio italiano e affrontarono un impegnativo processo riformatore che fece di tali possessi asburgici un modello da imitare.
In età napoleonica (Napoleone Bonaparte), con la pace di Presburgo del 1805 alcuni Stati tedeschi – tra cui la Baviera, il Baden, il Württemberg – costituirono la Confederazione renana sotto protezione francese. Era in sostanza la fine del Sacro Romano Impero e l’imperatore Francesco II aveva cominciato del resto dal 1804 a chiamarsi imperatore ereditario d’Austria.
Nel 1806, dopo che Napoleone aveva dichiarato di non riconoscere più l’esistenza del Sacro Romano Impero della nazione germanica, Francesco II depose per sempre quell’antica corona.