Teorie del cinema
Fin dalla sua prima apparizione, tra il marzo e il dicembre del 1895, il cinematografo sollecitò numerosi interventi. Vi furono presentazioni della nuova invenzione, previsioni sul suo possibile futuro, cronache, opinioni. Del cinema si iniziò a parlare subito: si continuerà a parlarne nell'arco di tutta la sua esistenza, affiancando a un mondo di immagini e di suoni fissati sulla pellicola, un significativo mondo di parole che descrivono, commentano, interpretano, condannano, progettano, giudicano. Questi discorsi non sono supplementi indebiti rispetto a quanto viene mostrato sullo schermo, né aggiunte senza valore. Al contrario, secondo la bella definizione di Christian Metz, costituiscono la "terza macchina" di cui il cinema si nutre: dopo la "macchina economico-industriale", che sostiene la produzione e la circolazione dei film, e dopo la "macchina psicologica", che ne regola la comprensione e il consumo, la "macchina discorsiva" è quella che mette in rilievo i modi d'essere e i modi di fare del cinema. I discorsi che ne accompagnano lo sviluppo e ne punteggiano così fittamente l'esistenza servono a stabilire gerarchie di valori, a istituire confronti con altri fenomeni, a capire quanto viene prodotto e consumato, a nutrire attese, a inquadrare novità. Rappresentano ciò che in qualche modo dà senso sociale al cinema.
È su questo sfondo che si possono analizzare le cosiddette teorie del cinema. Una teoria (del cinema) tende ad apparire come un insieme di assunti, più o meno organizzato, esplicito, vincolante, che serve da riferimento a un gruppo di studiosi per comprendere e spiegare in che cosa consiste il cinema stesso. La definizione, per quanto generica, consente di comprendere quale sia l'oggetto della teoria, in cosa consista la sua funzione e di descriverne lo statuto.
Per quanto concerne i contenuti del discorso teorico, essi possono largamente variare: tuttavia un tratto ricorrente, anche se non sempre chiaro, è la vocazione della teoria a farsi carico del cinema nella sua generalità, come dispositivo per la produzione e il consumo di pellicole, oppure come linguaggio specifico, o come peculiare forma d'arte, come medium tra i media o infine come insieme dei film, fatti e magari da fare; mentre l'attenzione alle singole opere, colte nella loro specificità, è lasciata piuttosto alla critica (v. critica cinematografica), cui spetta appunto di soppesare i risultati individuali. In altre parole, nel momento in cui se ne considera lo sviluppo su un piano storico, si può constatare come la teoria tenda a presentarsi come un discorso sul cinema nella sua globalità: anche quando il tema trattato è un frammento rispetto all'intero, l'orizzonte di riferimento è il fenomeno nel suo complesso.La funzione della teoria ha invece due fondamentali obiettivi. Da un lato la capacità di fissare un sapere definitivo riguardo il cinema, e cioè un insieme di conoscenze che trovano la loro espressione in un disegno più o meno coerente e convincente; dall'altro quella di fare di questo sapere un patrimonio comune, ossia qualcosa di condiviso da un gruppo più o meno ampio di studiosi, che trovano in una data 'immagine di cinema', un modello preciso di spiegazione o di interpretazione di un determinato fenomeno.
Per quanto riguarda lo statuto della teoria, talvolta si rimprovera alle diverse t. del c. di non avere i requisiti propri delle teorie scientifiche, e cioè di non essere dispositivi formali, basati su un numero ristretto di postulati, su un quadro concettuale ben definito e su modalità rigorose di assunzione dei contenuti empirici. L'accusa sarebbe giustificata se la stessa epistemologia contemporanea non avesse sfumato alcune sue definizioni: più che come una costruzione assiomatica, oggi una teoria scientifica è vista come una congettura con cui si cerca di cogliere il significato o il funzionamento di certi fenomeni (K. Popper), o meglio ancora come un modo di vedere condiviso da una comunità di scienziati e considerato efficace (T.S. Kuhn). Da questo punto di vista, anche le t. del c. hanno diritto a chiamarsi teorie: se lo sono soltanto qualche volta nel senso più ristretto del termine, lo sono tendenzialmente sempre nel senso più ampio. Esse infatti rivelano l'immagine del cinema che gli studiosi elaborano e propongono alla loro comunità e successivamente all'intera società; ma anche gli stili di riflessione che questi studiosi adottano, e che sono sintomatici delle modalità con cui il cinema viene accolto (o viene promosso) quale oggetto di discussione. In sintesi, consentono un continuo scambio tra storia del cinema e storia della cultura.Sulla base di queste premesse si traccerà qui una sintetica mappa delle t. del c., tenendo conto sia dei temi affrontati dai diversi studiosi, sia dei modi in cui è stata impostata e condotta la discussione, sempre facendo riferimento ai coevi sviluppi del cinema e al quadro più ampio del dibattito culturale, fermo restando che approfondimenti sul pensiero di singoli studiosi e su correnti e movimenti verranno sviluppati nei relativi, singoli lemmi. La storia delle t. del c., d'altra parte, non presenta un percorso lineare e progressivo: si seguiranno quindi percorsi d'un tratto interrotti e poi riemergenti, confini sfumati, zone sovrapposte, per offrire un orientamento, ma anche una possibilità di lettura.
Già durante i primi quindici anni di vita del cinema, furono numerosi gli interventi che lo riguardarono. Non mancarono riflessioni che cercavano di approfondire il fenomeno, per lo più mescolate con cronache, annunci, manuali di fotografia fissa e animata, manifesti pubblicitari, cataloghi di pellicole disponibili ecc. In questo senso si può parlare di teorie sommerse: con la sola eccezione forse di Bolesław Matuszewski (che appena tre anni dopo la nascita del cinematografo pubblicò a Parigi, nel 1898, due opuscoli con i quali intendeva definire i contorni e il possibile futuro dell'invenzione), la teoria non aveva ancora un suo spazio riconoscibile e autonomo.
Esaminando il gran numero e la varietà degli interventi, emerge con chiarezza che l'impegno maggiore era indirizzato a cercare di capire il senso del cinema, le ragioni del suo impetuoso successo, e i possibili usi verso cui poteva essere orientato. In tal senso risulta emblematica proprio la posizione di Matuszewski che in quel periodo si interrogava sulla natura della nuova forma epressiva, e riteneva i film straordinarie "fonti storiche" cui doveva essere riconosciuta la stessa dignità dei documenti tradizionali, individuava le grandi possibilità tecniche del cinema e rintracciava in questo insieme di motivi le ragioni del suo fascino. Si tratta di temi che ritornano anche in altri interventi, sia pur in contesti spesso meno netti. Per es., in una delle primissime cronache che danno conto della serata inaugurale del Café des Capucines, si può leggere: "Quando queste macchine saranno a disposizione di tutti, quando tutti potranno fotografare gli esseri a loro cari, non più nella forma immobile ma nel loro movimento, nella loro azione, nei loro gesti familiari, con la parola sulle labbra, la morte cesserà di essere assoluta" (in "La poste", 30 décembre 1895). E parallelamente, in un resoconto ospitato su una rivista scientifica, viene fatta la seguente osservazione: "Quando i colori giungeranno a dare a questo quadro l'unica cosa che ancora vi manca, lo schermo che riceverà tale superba proiezione sarà una vera finestra attraverso la quale si guarderà la stessa natura; un fonografo potrà aggiungervi il rumore proprio del movimento e donare la parola a personaggi che vivranno in questa natura artificiale; infine, per completare l'illusione, qualche essenza sintetica potrà dare il profumo caratteristico ai fiori che orneranno questi paesaggi futuri" (in "Revue scientifique et industrielle", 1898). Dunque l'attenzione ai motivi di richiamo del cinema, l'interesse per le sue capacità e le sue funzioni e le ipotesi sul suo sviluppo futuro si ritrovano in più pagine. A simili interessanti spunti si deve aggiungere inoltre l'importante tema della modernità, di cui il cinema veniva individuato da molti come l'emblema più chiaro, tema affrontato in vari interventi e che avrebbe riacquistato più avanti un notevole rilievo, in particolare nelle straordinarie pagine del romanzo di Luigi Pirandello Si gira…, uscito a puntate nel 1915 e poi pubblicato nel 1925 in una nuova edizione con il titolo Quaderni di Serafino Gubbio operatore. Significativa al proposito la posizione assunta da Maksim Gor′kij in un articolo del 1896 pubblicato, quindi, a ridosso dell'invenzione del cinematografo: sia pur con una forte connotazione negativa, il nuovo mezzo non viene posto sullo stesso piano delle arti tradizionali bensì di tutti quei meccanismi tipici dell'età moderna che hanno profondamente modificato le abitudini percettive dell'uomo. "I nostri nervi si logorano e si indeboliscono ogni giorno di più, ne perdiamo sempre più il controllo e sempre meno reagiscono alle 'semplici impressioni dell'essere' e con sempre maggiore avidità agognano nuove, penetranti, inusuali, appassionanti, strane impressioni. Il cinematografo gliele fornisce, e i nervi da un lato diventano più raffinati, dall'altro più ottusi".
Per quanto non ancora dotata di uno spazio riconosciuto, la teoria lavorava a mettere in luce ciò che il cinema era (un mezzo per far rivivere i morti o uno specchio del reale?), ciò che poteva diventare (fonte di documenti d'archivio oppure macchina per produrre rappresentazioni?), ma anche ciò di cui era il simbolo o comunque il sintomo (ritorno di bisogni ancestrali o manifesto del disagio della modernità?). Nelle teorie sommerse dei primi anni erano fondamentalmente in gioco la volontà di familiarizzarsi con la nuova invenzione e insieme la necessità di analizzare l'esperienza individuale e sociale cui essa dava luogo.
Come osservato acutamente da G. Grignaffini (1989), il 1907 fu un anno di svolta per la teoria del cinema. Un gruppo di interventi, diversi tra loro, ma egualmente significativi, suggeriscono che il cinema cominciò allora ad avere stabile cittadinanza nei discorsi 'colti'. Vi è infatti un riferimento al cinema in Évolution créatrice di Henri Bergson, mentre Edmondo De Amicis pubblicò, sempre in quell'anno, un racconto dal titolo Cinematografo cerebrale, costruito come un libero montaggio di immagini. Uno scritto di Georges Méliès, Les vues cinématographiques, traccia un ritratto della professione registica, propone una prima tipologia dei prodotti cinematografici e abbozza i lineamenti di una poetica del fantastico. La filosofia del cinematografo, un articolo di Giovanni Papini uscito il 18 maggio sul quotidiano "La Stampa", evidenzia alcune possibili linee di riflessione (la peculiarità della situazione in cui il film è fruito; le funzioni sociali svolte dal mezzo; l'idea che il cinema trasformi il mondo, compreso il suo pubblico, in uno spettacolo per 'divini spettatori' decisi, sopra le nostre teste, a divertirsi delle vicende umane), e insieme contiene un appello agli intellettuali a occuparsi seriamente della nuova invenzione. Attraverso questi e altri interventi il cinema iniziò quindi a ottenere una sua legittimità culturale. Il merito di aver aperto la strada a una riflessione compiuta e di spessore viene generalmente attribuito a Ricciotto Canudo. Barese trapiantato a Parigi, Canudo incarna bene la figura dell'intellettuale d'inizio secolo, che sperimenta, indaga e promuove aspetti delle più diverse discipline artistiche. Iniziò a interessarsi assai presto di cinema, con una serie di riflessioni che trovarono il loro momento di massimo successo in La naissance d'une sixième art, una sorta di 'manifesto' pubblicato nel 1911. Gli interventi dell'intellettuale italiano fissarono bene le grandi direttrici del dibattito: il confronto tra il cinema e le altre arti, l'idea di una sintesi dei diversi ambiti espressivi, il carattere moderno del nuovo mezzo e la necessità di trascendere la semplice riproduzione della realtà. In particolare, per Canudo il cinema rappresenta sia il punto di massimo sviluppo delle arti tradizionali sia al contempo l'emblema stesso dell'arte moderna, nata all'insegna dell'ideale wagneriano di 'opera d'arte totale'.
Questi temi ritornano, sia insieme sia singolarmente, in moltissimi contributi degli anni Dieci e Venti. La modernità del cinema, per es., fu un tratto fortemente sottolineato dalle avanguardie artistiche, prima tra tutte il Futurismo italiano. Il cinema veniva proposto dai futuristi come somma delle esperienze più avanzate perché in esso risultavano dominanti la macchina, il movimento, la rapidità, il sovrapporsi delle percezioni, l'automatismo delle reazioni, e quindi era l'ambito in cui avevano il predominio i tratti tipici della vita moderna.Tra i diversi temi affrontati, quello del confronto tra le arti era probabilmente il più frequentato. Di grande interesse fu il contributo offerto da Sebastiano Arturo Luciani. In una serie di scritti, a partire da Il cinematografo e l'arte (1913) sino a L'antiteatro. Il cinematografo come arte (1928), il suo testo più famoso, Luciani sviluppò una serie di confronti tra il nuovo mezzo e gli ambiti espressivi tradizionali, primo tra tutti il teatro, e approfondì i temi che a lui erano più cari: la distanza del cinema da ogni forma di rappresentazione realistica della realtà; il parallelismo con la musica inteso a far comprendere come il film possa aspirare a diventare una sorta di poema visivo in cui gioca un ruolo determinante il ritmo; il primato assegnato alla gestualità, cui si sarebbe associata più tardi un'attenzione particolare per il ruolo espressivo svolto dal paesaggio. A tutto ciò va aggiunta la valorizzazione della figura del regista come fonte di un'intenzionalità poetica, e un interesse per i concreti procedimenti impiegati dal film e per le concrete forme del linguaggio filmico.
Anche Vachel Lindsay, il cui The art of the moving picture (1915) ebbe una larga influenza sul dibattito intorno al cinema svoltosi in quegli anni negli Stati Uniti, parte dal confronto tra il cinema e le altre arti. L'idea che il nuovo mezzo sappia mettere in rilievo sia i valori plastico-figurativi (la composizione delle forme, la distribuzione della luce ecc.), sia i valori dinamico-cinetici (il movimento nelle inquadrature e nel passaggio da un'inquadratura all'altra) lo porta a individuare tre grandi modi d'essere del cinema: ossia 'scultura in movimento', 'pittura in movimento' e 'architettura in movimento'. Lindsay, tuttavia, non si limita a tracciare paragoni e tipologie: specie nella seconda parte della sua opera, va anche alla ricerca dei tratti peculiari del cinema (che egli identifica in una capacità di trasformare il ritmo del tempo e l'estensione dello spazio tradizionali), per individuare ciò che il nuovo mezzo apporta al campo estetico, senza essere tributario di forme precedenti.
In questa direzione vanno anche altri contributi. Basti accennare a quello dello psicologo Hugo Münsterberg, The photoplay. A psychological study. Apparso nel 1916 senza apparente successo, venne riscoperto sessant'anni dopo in tutta la sua importanza: vi si dimostra come lo spettatore, davanti alle immagini offertegli dal film, ricostruisce un mondo che ha più rapporti con le leggi mentali che con le leggi fisiche in vigore nell'universo reale (ma anche nell'universo teatrale). Così come fondamentali furono le posizioni di alcuni protagonisti dell'avanguardia artistica degli anni Venti, tra i quali Fernand Léger o László Moholy-Nagy. Nei suoi interventi il primo volle evidenziare i tracciati diversi e in parte del tutto indipendenti seguiti dal cinema rispetto alle altre arti: egli vedeva aprirsi un nuovo campo di azione grazie alla capacità della nuova forma espressiva di rispettare il primato dell'oggetto, di dare peso al ritmo e al movimento, e soprattutto di esaltare l'attività visiva come mai prima era accaduto. Per il secondo il cinema era la particolare risposta alla vocazione tipica dell'arte di trovare nuovi rapporti tra i fenomeni o tra le forme: quel che viene offerto è soprattutto un potenziamento ottico delle esperienze percettive quotidiane dell'uomo, e dunque una vera e propria rivoluzione del mondo e della maniera di viverlo.
Questi interventi evidenziano come alla fine degli anni Venti vi fu una ricognizione progressiva del campo da parte delle emergenti t. del c.: a partire da un interesse soprattutto estetico si cercò di mettere a fuoco le potenzialità espressive, i riflessi culturali e gli apporti specifici del nuovo mezzo. Gli otto volumi dal titolo L'art cinématographique, pubblicati a Parigi tra il 1926 e il 1931, comprendenti analisi di vari autori che investono i rapporti tra il cinema e le altre forme espressive, le implicazioni sociali o psicologiche del nuovo mezzo, il linguaggio del film, la scenografia o le modalità di recitazione, le diverse scuole cinematografiche, offrono un'immagine assai efficace dell'ampiezza dei percorsi che caratterizzarono il dibattito.
Proprio a partire dagli anni Venti e poi nei decenni successivi vi furono però numerosi tentativi di elaborare un approccio più organico all'argomento. In molti casi furono effettuati da registi che a partire dalla loro stessa esperienza cercarono di sviluppare una riflessione sistematica sul nuovo mezzo, anche perché impegnati o in un'attività di promozione dei propri film o in un'attività di insegnamento. Il loro discorso, per quanto talvolta mosso da bisogni circoscritti (per es., l'autodifesa di fronte ad attacchi esterni, la valorizzazione di una corrente o di una scuola), puntò sempre a offrire un orizzonte più ampio: vi si ritrovano infatti la volontà di individuare alcune caratteristiche essenziali del fenomeno cinematografico e insieme il desiderio di mostrarne la crucialità tanto sul piano estetico quanto su quello sociale, psicologico e linguistico; dunque sia l'individuazione delle 'proprietà' del cinema, sia una sottolineatura della 'lezione' che queste potevano fornire nei diversi campi. Non di rado il punto d'arrivo è una 'formula' ("l'uomo visibile", "il primato del montaggio" ecc.): ciò che conta, comunque, è che questa formula nasceva da un'attenzione rivolta verso ciò che caratterizza più a fondo il cinema e lo rende una presenza significativa, producendo interventi che vanno al di là della mera contingenza del dibattito. L'elaborazione teorica si concentrò in alcuni poli geografici: la Francia, in cui assunse un grande peso culturale l'esperienza del 'cinema puro' (v. impressionismo); l'Unione Sovietica, dove cineasti e studiosi si posero il problema politico e culturale di contribuire alla rivoluzione; l'Italia, in cui l'estetica dominante, quella crociana, si poneva come una sfida al riconoscimento del valore artistico del cinema; la Gran Bretagna, Paese nel quale, a ridosso di alcuni organismi governativi, si sviluppò un'importante produzione documentaria.
Francia. - In Francia, a fianco e dopo Canudo, una presenza importante fu quella di Louis Delluc. Nel suo contributo più conosciuto, Photogénie (1920), Delluc affronta un nodo teorico di grande rilievo designando con il termine fotogenia la capacità della fotografia e poi del cinema di far emergere l'assoluta naturalità del mondo attraverso mezzi tecnici ed espressivi, strumenti cioè che agiscono senza imporsi essi stessi all'attenzione. Il dibattito sulla fotogenia proseguì intenso per tutti gli anni Venti. Il termine cambiò di significato, arrivando a designare le qualità intrinseche di una persona o di un oggetto così come sono catturate dal cinema piuttosto che le capacità del cinema di arrivare alla realtà bruciando i propri mezzi. Tuttavia l'intuizione di Delluc, quella di una naturalità assoluta cui si perviene attraverso un uso intensivo della tecnica, verrà ripresa ancora, anche se in termini diversi, per es. già da Germaine Dulac. Il quadro in cui vanno collocate le osservazioni della regista è quello del 'cinema puro', e cioè di un'esperienza che persegue l'autonomia del cinema da ogni forma narrativa, sia letteraria sia teatrale, a favore di una dimensione prettamente visiva; e la parola d'ordine è piuttosto 'movimento', e cioè capacità di restituire il ritmo delle cose e delle immagini. Tuttavia il motivo di fondo è analogo al precedente: la Dulac, lamentando che alle 'vedute' dei fratelli Lumière fossero succedute le 'ricostruzioni drammatiche' da Méliès in poi, afferma che "la ripresa del famoso treno sembra più vicina al senso cinematografico: questa suggerisce una sensazione fisica e visiva", mentre le altre propongono "intrecci senza emozioni" (1927).
Anche in questo caso dunque il bersaglio è costituito dalla tecnica, in particolare dalla tecnica narrativa elaborata dalla letteratura e dal teatro: il cinema deve liberarsi dal suo peso, scioglierne la presenza in un'attenzione verso le cose; la strada può essere quella di un privilegio accordato ai motivi visivi, fatti di luce, di forme e di ritmi; ma l'obiettivo finale è quello di recuperare la pienezza dello spettacolo della vita al di là delle mediazioni cui il dispositivo cinematografico pure costringe. Dunque, la naturalità oltre la tecnica, ovvero uno dei temi ricorrenti nell'estetica del Novecento.
Unione Sovietica. - Contemporaneamente in Unione Sovietica, nell'ambito di un quadro culturale e politico assai diverso, il dibattito cinematografico ruotava attorno al centrale problema del montaggio, dietro il quale però emergevano riflessioni più ampie. Risultava infatti pressante la volontà di scoprire le leggi del linguaggio cinematografico, ma era altrettanto forte il desiderio di utilizzare il film come strumento di intervento, al pari di un'azione politica e di una mobilitazione sociale. Il montaggio venne valorizzato proprio perché il suo studio permetteva di mettere a fuoco le dinamiche del linguaggio cinematografico e dunque di capire i processi di manipolazione che intervengono nella comunicazione filmica; il suo uso, al contempo, consentiva di far emergere un'interpretazione dei fatti, e non solo una loro mera registrazione, e dunque si poneva quale premessa per una mobilitazione delle coscienze e per un intervento sulle cose.
Per chiarire meglio lo spessore e l'importanza del dibattito (per il quale v. anche avanguardia sovietica) occorre in breve delineare le posizioni di alcune delle personalità più significative che vi parteciparono, in primo luogo quella di Dziga Vertov. Per Vertov il montaggio risulta coinvolto a diversi livelli: dal momento in cui, perlustrando la realtà, la si scompone in frammenti distinti, fino al momento in cui, incollando i pezzi di pellicola, si costruisce l'opera filmica. Tuttavia il montaggio non esemplifica semplicemente un modo di lavorare del cineasta sul piano produttivo o stilistico: a partire dal primo manifesto elaborato dal regista nel 1922, esso rappresenta la strada principale attraverso cui si procede a una "organizzazione del mondo visibile". Grazie al montaggio, il cinema rilegge e ritrascrive la realtà; ne interpreta i processi e li traduce in immagini il cui ordine rivela un punto di vista ideologicamente e politicamente condizionato. In questo modo si istituisce un vero e proprio "cine-occhio", un "occhio armato di cinepresa", che può finalmente appropriarsi almeno visivamente della realtà. L'invito avanzato da Vertov a rinunciare alle istanze romanzesche o teatrali, apparentemente vicino alle posizioni del cinema puro, segna in realtà il rifiuto di procedimenti formali tipici della trascrizione borghese del reale, in vista della costruzione di "un punto di vista comunista sulla realtà". Anche Sergej M. Ejzenštejn si interrogò sulla funzionalità politico-ideologica del cinema mediante un lungo lavoro teorico che proseguì ininterrottamente dagli anni Venti fino alla morte (1948), ad affiancare il suo lavoro di cineasta e a comporre un quadro di riflessione che si presenta ormai come una delle punte più alte dell'estetica del Novecento. I suoi interventi spostarono però l'asse della discussione. Se Vertov puntava alla costruzione di una cinematografia comunista basata sulla trascrizione materialista della realtà e sulla partecipazione diretta della classe proletaria alla produzione cinematografica, Ejzenštejn si chiedeva piuttosto quale fosse l'effettiva possibilità di formulare un messaggio ideologico, o meglio ancora in che modo il cinema potesse porsi quale strumento di conoscenza della realtà e quale momento di partecipazione da parte dello spettatore. In quest'ottica, non basta sostituire a uno sguardo 'borghese' uno sguardo 'rivoluzionario', come auspicava Vertov: bisogna indagare il fondamento, la struttura e l'oggetto dello sguardo cinematografico.
La ricchezza e l'importanza dell'elaborazione teorica di Ejzenštejn offrono infinite possibilità di confronto e di analisi, ma può essere utile scegliere un percorso, focalizzando l'attenzione su quattro grandi nuclei di pensiero individuabili nei suoi scritti. Il primo consiste nell'importanza attribuita ai procedimenti formali del cinema. Per Ejzenštejn la forma non è un semplice 'ornamento' dell'espressione, al contrario costituisce la 'logica' sottesa a un'opera. In questo senso risulta essenziale per definire l'identità di un film, in quanto consente di cogliere l'atteggiamento dell'interprete assieme alla sua interpretazione. Il secondo nucleo si sviluppa intorno all'opzione per il dinamico anziché per lo statico, per il processo anziché per il sistema. Ne deriva un'idea di opera non solo come struttura, ma anche come vero e proprio organismo, di cui è importante cogliere, oltre che la composizione, anche lo sviluppo e la crescita. All'influsso formalista, visibile nel primo spunto, si aggiunge allora un recupero della tradizione romantico-simbolista. Il terzo nucleo di pensiero suggerisce una costante omologia tra il funzionamento dell'opera, la formazione del pensiero e l'andamento del reale. Ciò porta Ejzenštejn ad allargare sistematicamente il suo campo d'indagine, accostando le forme espressive e i fenomeni culturali più diversi in vista dell'elaborazione di una teoria che punti a porsi come cifra dell'universo, e cioè a spiegare il divenire del mondo e la formazione delle conoscenze rispetto a esso. Con il risultato di congiungere analisi e intuizione, modellistica e mitologia. Il quarto nucleo di pensiero si configura come tensione verso l'alterità. L'opera non solo è il luogo in cui abita il senso, ma anche il luogo in cui il senso sorge ed è pronto a perdersi: dunque la raffigurabilità confina costantemente con l'irrappresentabile e l'irrapresentato, così come l'intellegibile con l'enigma e l'essenza con il vuoto. Ciò porta l'operare artistico a farsi esperienza del limite e la teoria a farsi domanda sempre aperta. Facendo perno su questi quattro nodi fondamentali è possibile scandire le grandi tappe della riflessione di Ejzenštejn. Il concetto di montaggio è al centro delle preoccupazioni teoriche dai primi anni Venti fino alla fine degli anni Trenta. Esso è concepito innanzitutto quale strumento per far nascere un orientamento emotivo complesso (montaggio delle attrazioni), o un'idea generale astratta (montaggio intellettuale): sia in un caso sia nell'altro, viene riportato ai principi del materialismo dialettico, e dunque appare come un procedimento specifico (applicato al linguaggio) di un meccanismo generale (che informa la realtà e l'operare umano). Questa concezione si evolve nelle idee successive di montaggio sovratonale e di montaggio verticale. In questa fase Ejzenštejn insiste sulla capacità del montaggio di riunificare i diversi elementi dell'opera in un'unità complessa, percorsa da più linee di forza e dotata di più punti di raccordo; nello stesso tempo, il montaggio consente anche di passare dalla semplice riproduzione delle cose a una sintesi ideale (di tipo emotivo-concettuale) che ci restituisce, più che i contorni delle cose, il loro senso complessivo. Dopo la celebrazione ma anche lo svuotamento del concetto di montaggio, il secondo tempo della riflessione di Ejzenštejn si svolse sotto l'egida del binomio organicità-pathos. L'idea di fondo è che il punto di equilibrio di un'opera coincida con il suo punto di rottura: quanto più essa appare strutturata, coordinata, compatta, tanto più nasconde punti di fuga, momenti di sospensione, spinte verso nuovi livelli (cfr. Neravnodušnaja priroda, 1945-1947). Da questo punto di vista la composizione perfetta è quella in cui tutto si tiene, e tuttavia anziché rinchiudersi in sé stessa porta la rappresentazione verso nuovi orizzonti e lo spettatore verso nuovi piani di fruizione. Di qui la valorizzazione del principio dell'estasi; introdotta nel suo senso più letterale, come "uscita da sé e uscita dallo stato abituale", l'estasi segnala, sia sul piano dei registri espressivi sia sul piano della fruizione, un continuo movimento della rappresentazione verso nuovi orizzonti, fino ai margini dell'irrappresentabile.
Alla linea di riflessione Vertov-Ejzenštejn, si affiancò, e in qualche modo si contrappose, l'approccio teorico che fece capo a Vsevolod I. Pudovkin, e prima di lui a Lev V. Kulešov. Il quadro della riflessione risulta in qualche modo più ristretto: il montaggio da principio in base a cui si organizza il mondo visibile o da meccanismo che riporta alla dialettica materialista torna a essere un mero procedimento linguistico, e dunque nulla di più che un modo, sia pure il più efficace, di organizzare il discorso del film. Tutto questo non impedisce che venga assunto quale base estetica del cinema: esso tuttavia ricopre una funzione eminentemente compositiva, quale mezzo di impaginazione del racconto, al fine di valorizzarne tutte le possibilità.
Ricca di spunti di notevole interesse e di fondamentali sollecitazioni fu infine l'attenzione mostrata dal formalismo russo nei confronti del cinema in quanto nuova e complessa forma di espressione artistica e di comunicazione. Oltre a un coinvolgimento intellettuale legato alla qualità e allo spessore dei problemi connessi alla produzione cinematografica, vi fu il concreto instaurarsi di una rete di rapporti e di scambi culturali tra gli esponenti della scuola formale e i più importanti registi del primo periodo del cinema sovietico. Collaborazioni vi furono tra Victor B. Šklovskij e Kulešov e tra Jurij N. Tynjanov e Grigorij M. Kozincev e Leonid Z. Trauberg. Mentre è innegabile un'affinità sul piano dell'elaborazione teorica e poetica tra gli scritti dello stesso Šklovskij e Tynjanov e le riflessioni di Ejzenštejn. Motivi quali l'essenziale funzione semantica del montaggio, l'antinaturalismo del cinema, il procedimento denunciato e smascherato, lo straniamento come mezzo per evidenziare la percezione dell'oggetto si ritrovano nelle elaborazioni di Šklovskij, di Tynjanov e in quelle di Boris M. Ejchenbaum, mentre decisamente vicina alla cine-verità di Vertov è la posizione di Osip M. Brik, che nel rivendicare l'oggettività dei fatti ne rifiuta al contempo la rielaborazione artistica.
Il dibattito sovietico trovò nella seconda metà degli anni Trenta un punto di svolta (e anche il suo momento di esaurimento) nell'apparire del realismo socialista (v. realismo: Realismo socialista). Insieme di indicazioni pratiche più che una vera e propria teoria, il realismo socialista considerò il cinema, e più in generale l'arte, come un riflesso della realtà e come uno strumento di promozione ideologico-politica privo di una propria autonomia. La sperimentazione 'formalista' di un Vertov o di un Ejzenštejn furono tagliate fuori da questo orientamento, in quanto si imponevano piuttosto preoccupazioni di chiarezza espositiva e di stretto collegamento con le direttive politiche; il cinema doveva presentare la realtà, pur nelle sue contraddizioni, in modo tale che essa fosse afferrabile immediatamente nei suoi dati di base e vista in prospettiva positiva. Di qui una diversa concezione del linguaggio cinematografico: la componente fondamentale divenne l'attore con la sua capacità di costruire personaggi tipici, piuttosto che il montaggio con la sua capacità di decostruire il reale.
Balázs e Benjamin. Una riflessione ben più densa sulla funzione sociale del cinema fu quella condotta dall'ungherese Béla Balázs, che operò in stretto collegamento con i sovietici. La sua ricerca muove dall'idea che il cinema sia un macchina che traduce e diffonde tra le masse una precisa visione del mondo: è quindi un medium, un mezzo per elaborare e far conoscere informazioni, che a loro volta incidono sul modo di pensare e di agire di chi le acquisisce. È in quest'ottica che va inteso l'elogio che Balázs rivolge al cinema: esso rimette in gioco quella cultura visiva, fondata sulla forza espressiva del corpo umano, che la cultura concettuale rischia di atrofizzare. E sempre in quest'ottica vanno comprese le 'formule' che lo studioso utilizza (l'"uomo visibile", le "forbici poetiche"), tese a dimostrare come il potenziamento percettivo che il cinema realizza va non tanto nella direzione di uno smascheramento della struttura (ideologica) del reale, quanto nella direzione di una riscoperta della realtà fisica, e in particolare della realtà del corpo, dell'uomo. L'attenzione al cinema inteso come medium caratterizzò l'approccio di altri teorici, in particolare quello di Walter Benjamin che con Das Kunstwerk im Zeitalter seiner technischen Reproduzierbarkeit (1936) offrì una lucidissima diagnosi dei destini dell'arte in una società dominata dalla comunicazione di massa. Il cinema è il fenomeno che meglio dimostra gli effetti legati alla caduta dell'"aura" (la fruizione dell'opera perde ogni dimensione sacrale e diventa quindi un puro atto di consumo), e che nel contempo meglio evidenzia le possibilità che ne conseguono (la disponibilità generalizzata dei mezzi consente infatti di stabilire una vera e propria "democrazia comunicativa").
Italia. - In un panorama quale quello italiano degli anni Trenta, profondamente influenzato dal pensiero di B. Croce, risultava dominante una preoccupazione estetica più tradizionale, legata al riconoscimento del film come possibile opera d'arte. Si trattava quindi di valutare il cinema non semplicemente in quanto fatto di cultura, ma di dimostrare come anche il nuovo mezzo potesse consentire il dispiegarsi di quelle dinamiche considerate essenziali per la creazione della 'poesia'. Il raggiungimento di questo obiettivo doveva necessariamente passare attraverso il riconoscimento della presenza di un autore il cui spirito doveva informare di sé l'opera: teorici come Antonello Gerbi e Alberto Consiglio furono impegnati proprio in questa direzione. Nei loro interventi sottolinearono infatti come il cinema non si limiti semplicemente a 'riprodurre' il reale, ma lo rielabori creativamente; e, al contempo, come non sia schiavo della tecnologia, che pure gli è necessaria, ma sia capace di piegarsi all'intervento di un'individualità artistica. In altre parole, il cinema non è uno specchio o una macchina: è uno dei luoghi in cui può manifestarsi un'"intuizione lirica". Antinaturalismo e antitecnicismo (in consonanza con la sensibilità crociana, restia a pensare la poesia in termini di rappresentazione del mondo o di mera costruzione linguistica) caratterizzarono a lungo il dibattito italiano, e fecero da sottofondo anche al pensatore forse più interessante del periodo tra le due guerre, Carlo L. Ragghianti, che sottolineò con forza la natura di arte figurativa del cinema. Su questo sfondo culturale deve essere letto anche il contributo di un tedesco trasferitosi in Italia, Rudolf Arnheim, qui attivo tra il 1933 e il 1938. Egli nei suoi testi osserva come l'immagine filmica sia separata dal reale per una serie di "fattori differenzianti": le mancano la profondità di campo, la capacità di seguire in continuità un'azione, la possibilità di mobilitare l'olfatto o il tatto, il colore ecc. Questi fattori differenzianti, tuttavia, non sono impedimenti, al contrario, consentono all'immagine sullo schermo di caratterizzarsi come "rappresentazione cinematografica". In questo senso i fattori differenzianti sono anche mezzi formativi: indicano gli strumenti di base e gli strumenti tipici con cui opera il cinema; e dunque si pongono come fondamento della sua azione discorsiva ed estetica. La conclusione è che il cinema si offre come arte proprio in quanto è imperfetta riproduzione del mondo: la creatività può manifestarsi grazie allo scarto con il reale. La radicalità di questo assunto piacque ai crociani (pur non essendo Arnheim un crociano); tuttavia, di fronte all'incessante ricerca del cinema di una maggiore efficacia riproduttiva e alla resistenza dello studioso nei confronti delle nuove tecnologie, quali il colore e il suono, si manifestò l'aspetto debole del suo approccio.
Gran Bretagna. - Anche al centro del dibattito sul cinema che si svolgeva in quegli stessi anni in Gran Bretagna, vi era la sua funzione sociale. In particolare, John Grierson, promotore di una scuola documentaristica, oltre che documentarista egli stesso, era profondamente convinto che il cinema dovesse essere strumento di conoscenza e di informazione, e quindi in grado di rendere visibili quelle attività umane di cui non tutti sono consapevoli, a partire dai lavori marginali per finire con l'azione di istituzioni che forniscono servizi essenziali per il cittadino. Grierson intendeva così valorizzare il lavoro di documentazione sistematica del reale che il cinema, a suo giudizio, era in grado di effettuare, per rendere noti e trasparenti alcuni ambiti essenziali della società, senza alcun fine propagandistico nell'uso dell'immagine filmica. Si ritrovano in questa posizione alcune idee chiave sulle quali verteva il confronto in quegli anni e che continuarono a essere centrali anche negli anni successivi, significativo indizio dell'estremo spessore teorico che la riflessione sul cinema aveva ormai acquisito. In sintesi: la necessità di fare i conti con la base realistica del cinema, per accettarla o superarla; la constatazione che il film è essenzialmente un discorso sul mondo, fatto da un certo punto di vista; la volontà di esplorare la funzione sociale del nuovo mezzo.
Ma un tema assai specifico, di grande rilevanza e legato a una grande rivoluzione tecnica aveva frattanto appassionato i teorici tra gli anni Venti e gli anni Trenta: quello del cinema sonoro.
Il sonoro (v. colonna sonora) incrinò infatti molti presupposti su cui la discussione si era basata, e il cinema fu costretto a ricominciare a riflettere su sé stesso, affrontando di nuovo antichi fantasmi, quali l'incidenza del fattore economico e tecnologico, la concorrenza con il teatro, il peso della realtà o la possibile perdita di universalità del linguaggio filmico. In un tale contesto, è evidentemente difficile trovare un contributo capace di far fronte al complesso dei problemi posti dalla nuova invenzione: furono numerosi invece gli interventi volti a definire norme di condotta e regole di uso a livello estetico (v. muto e sonoro); ma anche a livello tecnologico vi fu un ricchissimo e contrastato dibattito, promosso in particolare dagli esponenti dell'industria. Una prima e ricorrente posizione fu quella basata sull'indifferenza: il cinema continuò a essere trattato sostanzialmente come arte visiva, nell'ambito della quale il suono assunse un ruolo di contorno, di decorazione. Speculare a essa, si sviluppò una concezione del suono come elemento a sé, parallelo e concorrente all'immagine. Un esempio di questa posizione è il cosiddetto Manifesto dell'asincronismo, firmato nel 1928 da Ejzenštejn, Grigorij V. Aleksandrov e Pudovkin, in cui il suono viene considerato una componente dotata di autonomia espressiva, e dunque pronto a entrare in conflitto con la dimensione visiva dell'immagine. Di qui l'auspicio di un uso contrappuntistico del sonoro rispetto all'immagine, che sarà all'origine di numerosissime teorie dell'asincronismo (Pudovkin, René Clair, R. Arnheim, Luigi Chiarini; v., a tale proposito, sincronismo e asincronismo). Tuttavia il punto centrale del manifesto è proprio in questa dichiarazione d'indipendenza del suono filmico: tale presupposto permise in particolare a Ejzenštejn di lavorare, sia sul versante pratico sia su quello teorico, sui diversi meccanismi espressivi di manipolazione sonora e di interazione con il visivo, rifuggendo da un facile appiattimento del suono sull'immagine. Infine l'ultima posizione significativa è quella che vide nel sonoro un elemento per così dire 'naturale'. È in questo ambito che si colloca la riflessione di Marcel Pagnol, rivisitata di recente con interesse: per il regista e attore il sonoro era da intendersi essenzialmente come attenzione alle cadenze regionali e individuali, alla 'personalità' della voce; e dunque il cinema sonoro doveva funzionare da 'specchio' della ricchezza del mondo reale. Questa concezione, sul piano pratico, finì per essere identificata con la difesa di un uso teatrale del sonoro, e dunque assimilata all'ideologia del sonoro portata avanti dall'industria: in realtà essa può essere riletta come premessa o prefigurazione di un'idea fortemente realistica del cinema, così come si esprimerà nel pensiero di André Bazin (v. oltre).
Tutte queste posizioni, ognuna delle quali colse alcuni nuclei centrali della complessa dimensione rappresentata dal sonoro, tardarono tuttavia a saldarsi in una valutazione complessiva, con l'unica eccezione costituita dalla riflessione di Balázs. Già in Der Geist des Films (1930) egli integrò la sua teoria dell'uomo visibile con una serie di osservazioni che investivano non solo l'impiego delle voci, della musica o dei rumori, ma la natura stessa del suono e dell'ascolto filmico. La teorizzazione di quest'autore si basava infatti su due presupposti: il suono filmico, provenendo dall'altoparlante, cioè da una fonte di emissione fissa, è indipendente dall'immagine, alla quale non rimane attaccato; tuttavia, per una serie di motivi psicologico-percettivi, lo spettatore è spinto incessantemente a ricercare la provenienza dei suoni e dunque a motivarne la presenza sulla base dell'immagine. Di qui l'idea che il cinema sia un'arte essenzialmente "ventriloqua": il sonoro non appartiene all'immagine e insieme le viene fatto appartenere. La conseguenza è quella di mettere in luce la presenza di strategie manipolatorie sia nei film più realistici sia in quelli più antinaturalistici. Per questa sua idea centrale, Balázs anticipò le grandi coordinate della teoria moderna del sonoro: la natura contradditoria del suono, la presenza di forti ambiguità nella dimensione audiovisiva e lo statuto attivo dell'ascolto filmico sono temi che sarebbero riapparsi con forza quarant'anni dopo.
Dopo la stagione delle grandi teoriche, la ripresa del dibattito, a partire dal 1945, presentò alcune novità. In primo luogo fu completato il lungo processo di legittimazione del cinema: gli interventi degli anni Trenta, magari tra le righe, sentivano ancora il bisogno di riscattare il nuovo mezzo dalla scarsa considerazione in cui era stato tenuto; con il dopoguerra fu dato per acquisito che il cinema costituiva una forma di espressione privilegiata per comprendere i processi culturali in atto. Non solo si dedicò alla produzione cinematografica la stessa attenzione riservata alle arti tradizionali, ma essa divenne per molti versi un punto d'osservazione in qualche modo obbligato. In secondo luogo vi fu un'accentuazione dei caratteri specialistici della riflessione teorica. Mentre tra le due guerre i protagonisti del dibattito (registi, letterati, critici ecc.) erano coinvolti nella realizzazione pratica delle opere cinematografiche, a partire dal 1945 la riflessione teorica acquisì un suo statuto indipendente rispetto alla contingenza dell'operare concreto e si arricchì di apporti allargati ad ambiti culturali nuovi e all'apparizione di lessici particolari. Infatti al cinema iniziarono a interessarsi in modo sistematico categorie di ricercatori specializzate in particolari discipline (per es., psicologi, sociologi, estetologi ecc.), colpiti dall'incidenza del mezzo sui processi in atto. D'altro canto parallelamente cambiarono le istituzioni in cui si faceva teoria (per es., riviste specialistiche, o, a partire dagli anni Sessanta, l'università). Vi fu inoltre una maggiore internazionalizzazione del dibattito: le riflessioni del dopoguerra nacquero in scenari che travalicavano i confini di una nazione e si fondavano su una serie di stretti scambi tra studiosi. Da questo punto di vista, a una divisione sulla base dei luoghi e dei gruppi in cui la teoria nasceva e veniva sviluppata si venne sostituendo una distinzione in virtù dei temi e dei modi con cui veniva elaborata. Tenendo conto di ciò, è possibile individuare nel dopoguerra tre grandi 'paradigmi teorici' intorno ai quali si addensarono fondamentali linee di tendenza, indagini, elaborazioni e particolari modalità di intervento: le teorie ontologiche; la semiotica e le teorie metodologiche; le nuove tendenze identificabili nelle cosiddette teorie di campo (per questi due ultimi nuclei teorici v. oltre).
Per quanto riguarda quelle che si possono definire teorie ontologiche, l'espressione rimanda a Bazin, e in particolare al titolo del suo saggio forse più famoso, Ontologie de l'image photographique, e al sottotitolo del primo volume della sua opera Qu'est-ce que le cinéma?, ossia Ontologie et langage (1958): essi indicano la volontà di mettere a fuoco le caratteristiche intrinseche del cinema, la sua 'natura profonda', al di là dei diversi aspetti che caratterizzano il fenomeno. Le teorie ontologiche puntano infatti a definire l'essenza del cinema, individuata ora nella sua dimensione realistica (Bazin, Kracauer, e prima ancora i teorici italiani del Neorealismo); ora nella sua capacità di fare i conti con l'immaginario (Edgar Morin); ora nella sua natura di linguaggio (Galvano Della Volpe, Jean Mitry): non per formulare prescrizioni o per emettere sentenze, come sarebbe potuto succedere nei primi anni della teoria, ma per inquadrare il fenomeno nelle sue peculiarità e nel suo campo d'azione.L'ipotesi realista. Non è certo possibile ripercorrere in tutta la sua densità un dibattito che va dall'immediato dopoguerra fino a quasi la metà degli anni Sessanta. Tra le posizioni più rilevanti, occorre in primo luogo soffermarsi su quella di Bazin. La trama del suo discorso, peraltro ricchissimo di spunti, è già chiara nel saggio che apre la raccolta dei suoi scritti, quell'Ontologie de l'image photographique del 1945, già citato. L'idea di partenza è che alle origini delle arti plastiche vi sia un 'complesso' psicoanalitico particolare, quello della mummia, la tendenza cioè a conservare in qualche modo ciò che è destinato a perire. Di qui l'ossessione riproduttiva che attraversa la scultura e la pittura. La fotografia porta avanti proprio questo bisogno profondo, aggiungendovi un tratto essenziale: l'assoluta oggettività dell'operazione. Infatti nella fotografia si verifica "la soddisfazione completa del nostro appetito d'illusione mediante una riproduzione meccanica da cui l'uomo è escluso" (1958; trad. it. 1973, p. 6): la raffigurazione diventa un puro fatto tecnico, senza l'interferenza di una ricreazione. La conseguenza è duplice. Da un lato "l'oggettività della fotografia le conferisce un potere di credibilità assente da qualsiasi opera pittorica" (p. 8). Dall'altro lato, questa radicalizzazione del gioco consente alla fotografia di staccarsi dalle altre arti plastiche: la pittura e la scultura possono liberarsi dall'ossessione realistica e imboccare la strada della ricerca estetica; ma se questo succede, è appunto perché la fotografia si è fatta direttamente carico del "complesso della mummia" da cui il cammino è partito. Il cinema porta a compimento questa linea interna alla storia delle arti, aggiungendo all'oggettività fotografica la riproduzione del tempo. Dunque l'esistente si ripresenta non più solo nelle sue apparenze e attraverso un processo automatico, ma anche nel suo divenire: la possibilità di rassomiglianza si fa praticamente totale. Di qui un legame strettissimo tra il cinema e realtà: il primo si sovrappone letteralmente alla seconda; ne diventa, più che la copia, "un'impronta digitale". O meglio ancora: il cinema, ricalcando la realtà in tutti i suoi aspetti, in qualche modo la continua. Il cinema è dunque intrinsecamente prossimo alla realtà: ne è tendenzialmente sempre una replica e un proseguimento. Allo stesso modo entra in comunione con il reale per rivelarne la profonda verità. Per confermare questa idea Bazin affronta il fenomeno cinematografico in tutta la sua estensione: analizza opere famose e film marginali, autori riconosciuti e registi di documentari o di cortometraggi, procedimenti in uso (come, per es., il piano-sequenza o la profondità di campo) e tecniche pressoché cadute nell'oblio (la sovrimpressione), correnti in auge (il Neorealismo) e periodi meno conosciuti della storia del cinema. La necessità di porsi a confronto con la realtà era stata già avvertita prima della metà degli anni Quaranta. Nel dopoguerra però l'elaborazione teorica era divenuta sistematica, e non più occasionale o generica, e si era legata fortemente alla riflessione sulla dimensione riproduttiva, non più ostacolo allo statuto estetico del cinema, bensì sua base imprescindibile. In particolare, il Neorealismo fu al centro di un dibattito che consentì di elaborare posizioni critiche di grande interesse e rilievo ponendosi come importante base di confronto e consentendo di poter passare dall'analisi delle opere a una più ampia riflessione culturale, estetica, ma anche politica. Tra le diverse posizioni, fondamentale fu quella di Cesare Zavattini. Sceneggiatore e regista, ma anche instancabile animatore e lucido teorico, egli partiva da una duplice osservazione. In primo luogo sottolineando il bisogno degli uomini di conoscersi per poter solidarizzare tra loro: il cinema è in tal senso un grande strumento di conoscenza, in grado di cogliere le cose nella loro quotidianità e di renderle familiari a tutti. D'altro canto evidenziava anche come la guerra e la Resistenza avessero insegnato ad apprezzare la ricchezza del reale e il valore dell'attualità e come anche i cineasti dovessero far tesoro di questa lezione. E sulla base di un impegno volto a eliminare lo spazio tra la vita e lo spettacolo, Zavattini modulava le sue proposte sintetizzate nella cosiddetta poetica del pedinamento, sognando che la vita si affacciasse direttamente sullo schermo, grazie alla scelta di storie 'vere', interpretate dai loro stessi protagonisti, magari filmate nel loro svolgersi: "il tempo è maturo per buttare via i copioni e per pedinare gli uomini con la macchina da presa" (1979, p. 83).
L'idea difesa da Guido Aristarco era in qualche modo opposta a quella espressa da Zavattini: il vero realismo, sosteneva il critico e studioso di cinema, non nasce da una resa da parte del cinema nei confronti della vita, ma da una capacità del primo di comprendere e ritrascrivere la seconda. Bisogna perciò andare oltre il semplice rispecchiamento del reale: facendo tesoro della grande tradizione letteraria, si deve riscoprire che la verità delle cose non è disgiunta dall'impegno stilistico ed espressivo. In particolare il cinema deve ricorrere alla narrazione quando vuole evidenziare il disegno sotteso agli eventi presentati; così come deve stimolare una partecipazione, quando vuole suscitare una vera intelligenza dei fatti. Non è sufficiente osservare e descrivere: la comprensione del mondo richiede che se ne mettano in luce le motivazioni, le leggi, le radici; e se per far questo sono necessari personaggi esemplari, trame ben architettate, situazioni tipiche, il cinema può e deve usare tutti questi mezzi. Tra i due poli rappresentati da Zavattini e Aristarco si colloca una vasta gamma di posizioni critiche e teoriche di grande interesse che animò e sostanziò il dibattito. Tra le più significative si ricordano quelle di L. Chiarini e di Umberto Barbaro. Il primo, nell'elaborare e arricchire la sua riflessione, muove contro la riduzione del film a 'spettacolo cinematografico'; tuttavia riconosce anche la necessità che il regista rielabori creativamente i dati che la realtà gli offre, attraverso un accorto uso del linguaggio dell'immagine. Barbaro a sua volta ricorda la presenza della fantasia e dell'immaginazione del regista quali elementi costitutivi del film, e del montaggio quale principio di costruzione estetico.In un altro contesto e in parallelo con la posizione di Bazin, pur se in ambito accademico e non di critica militante, si sviluppò la riflessione di Siegfried Kracauer, studioso tedesco costretto dal nazismo a emigrare negli Stati Uniti. Una delle sue ultime opere, Theory of film (1960), rappresenta la sintesi fondamentale del suo pensiero e l'estrema testimonianza dell'ipotesi realista, nella quale vengono passate in rassegna tutte le modalità con cui il cinema può ripercorrere la realtà e tutte le ragioni per cui deve farlo (per ulteriori approfondimenti v. realismo).
Il cinema come dispositivo dell'immaginario. Questa modalità di approccio al cinema trovò un'ampia e convincente testimonianza in Le cinéma ou l'homme imaginaire (1956) di E. Morin, la cui posizione viene qui esaminata nell'ambito delle teorie ontologiche in quanto lo studioso, sociologo di grande rilevanza internazionale, volle con quell'opera porsi in rapporto con le ricerche e le conclusioni di teorici come Bazin, e intervenire nel dibattito. Anche Morin, come Bazin (e come Kracauer), parte da un'analisi della fotografia: vedendovi però, anziché un dispositivo per cogliere direttamente il reale senza la mediazione dell'uomo, un mezzo che coinvolge l'osservatore fino a farlo diventare una pedina essenziale del gioco. In tal senso il cinema, che discende dalla fotografia, si pone come prosecuzione di un'esperienza coinvolgente. La fotografia sa infatti essere un sostituto, un oggetto di culto, una fonte di emozioni e non una replica dell'esistente, e queste sue proprietà derivano dalla sensibilità e dall'immaginazione di chi la osserva. Di qui la necessità di compiere una vera e propria 'rivoluzione copernicana': "la ricchezza della fotografia è tutto ciò che non c'è, ma che noi proiettiamo e fissiamo in essa" (trad. it. 1982, p. 40). Del resto da sempre la riproduzione delle cose chiama in causa un apporto personale: fenomeni come il fascino esercitato dalle ombre, la passione per il riflesso, la seduzione connessa al doppio, riposano tutti su una serie di stimoli esterni che innescano una pulsione interna. La fotografia segue lo stesso tracciato: a un prelievo operato sul mondo sovrappone un desiderio e una fantasia. Più precisamente, a un'oggettività sovrappone una soggettività: con il secondo termine a chiudere il gioco. Il Cinématographe dei Lumière si innesta su un tale terreno e lo fa ulteriormente lievitare. Basti pensare ai nuovi elementi in campo: l'immagine sullo schermo, non più legata a un supporto rigido, accentua la propria immaterialità, e dunque favorisce l'intervento individuale; nello stesso tempo, grazie al movimento, acquista spessore e corposità, e in questo modo accentua l'adesione a quanto è rappresentato; la sala buia porta lo spettatore a concentrarsi ancor meglio su ciò che ha davanti, e dunque ne favorisce l'azione; l'isolamento e l'immobilità di chi segue il film liberano i moti più segreti dell'animo. Insomma, nel Cinématographe dei Lumière la soggettività si trova ancor più sovrapposta all'oggettività dei dati riprodotti; e un apparecchio nato per restituirci il reale si rivela una trappola che ci ha già catturato. Méliès completa il percorso. Egli introduce una serie di trucchi che portano ancor più allo scoperto lo sfondo magico su cui già operavano i media visivi, e che consentono di articolare il mondo rappresentato: l'universo sullo schermo acquista fluidità, si apre al divenire, conosce il moltiplicarsi e il sovrapporsi dei tempi e degli spazi. La conseguenza è che il film può ora proporre un suo 'discorso' sulla realtà, riorganizzandone le componenti e mettendone in luce nuovi aspetti. Ma è un 'discorso' che continua a chiedere (e a ottenere) la partecipazione dello spettatore. Morin evidenzia questo punto d'arrivo dicendo che il 'cinematografo' diventa finalmente 'cinema'; quel che si crea è un vero e proprio luogo di simbiosi, e cioè "un sistema che tende a integrare lo spettatore nel flusso del film" e insieme "un sistema che tende a integrare il flusso del film nel flusso psichico dello spettatore" (p. 111).Il concetto di immaginario non fa altro che mettere in luce questa dinamica. L'immaginario è infatti il terreno d'incontro di osservatore e osservato; è il luogo in cui i dati concreti si aprono all'integrazione fantastica, o in cui l'esperienza delle cose si collega a un progetto o a un'attesa. Morin sintetizza: è "il punto di coincidenza di immagine e immaginazione" (p. 89). Se il cinema è il regno dell'immaginario, lo è sia per la sua genesi, e cioè perché nasce dalla fotografia e dal 'cinematografo' (e prima ancora dalla magia), sia per le tecniche che sviluppa, in particolare le tecniche di eccitazione della partecipazione, dell'identificazione, della proiezione. Morin analizza a lungo queste tecniche, che confermano quanto l'oggettività dei dati raffigurati non possa prescindere dalla soggettività dell'osservatore, e viceversa. La conclusione non può allora che essere una: macchina moderna e insieme ancestrale, il cinema ci consente di fotografare noi stessi, i nostri movimenti interiori, le nostre pulsioni, i nostri atteggiamenti e la nostra comprensione del mondo. Fino a farsi non "specchio del mondo", come avrebbero voluto i teorici del realismo, bensì "archivio d'anime": appunto, luogo per eccellenza dell'immaginario. Questo studio, pur rappresentando uno dei più importanti degli anni Cinquanta, e pur circondato da rispetto e interesse, rimase piuttosto isolato e i notevoli spunti che conteneva vennero sviluppati solo successivamente in contesti di dibattiti culturali segnati da un diverso tipo di approccio. Basti pensare alle riflessioni sul dispositivo psicologico alla base della fruizione cinematografica, con i lavori di Ch. Metz, Jean-Louis Baudry, Raymond Bellour (per questo argomento v. oltre Nuove tendenze della teoria del cinema), al motivo della soggettività, alle numerose ricerche sviluppatesi lungo una linea di analisi che collega l'esperienza magica del doppio, la fotografia, i Lumière e Méliès.Il cinema come linguaggio. Questo orientamento ha dato luogo a parecchi filoni di indagine: la comparazione tra linguaggio verbale e linguaggio audiovisivo; lo studio della grammatica filmica; le analisi di film tratti da opere letterarie ecc. (v. linguaggio del cinema). Le sue radici storiche risalgono al dibattito che si sviluppò intorno agli anni Trenta proprio intorno al tema del cinema come linguaggio. Al contempo il suo sviluppo si verificò in un periodo, la metà degli anni Sessanta, in cui venne data una nuova impostazione al problema grazie alla semiologia che nel linguaggio seppe individuare non il carattere precipuo del cinema, bensì uno dei suoi numerosi aspetti da chiarire in un'ottica rinnovata. Ma già in precedenza G. Della Volpe, nell'ambito del suo lavoro volto a un rovesciamento dell'estetica crociana ancora dominante nella cultura italiana degli anni Cinquanta, con i suoi scritti aveva mirato a dimostrare il fondamento razionale del cinema e, di conseguenza, aveva indagato la natura stessa del linguaggio cinematografico. Evidenziando la dialettica esistente tra la forma (ossia la struttura in grado di esprimere significati) e le forme "cioè idee e concetti empirici o 'pieni'" che consentono l'"effettiva comunicatività dell'immagine" e rimandano al contenuto, cioè alla "materia, il particolare, in cui si puntualizza l'idea (l'universale)" (1954, p. 67), Della Volpe aveva anche valorizzato l'importanza delle tecniche del cinema, nonché elaborato la nozione di verosimile filmico, inteso come coerenza interna del discorso portato avanti dal regista.Una summa delle ricerche in grado di riassumere e riassorbire in sé la complessità dell'intero dibattito è rappresentata dalla monumentale opera di J. Mitry, Esthétique et psychologie du cinéma. Les structures (1963). Anche Mitry muove da una polemica contro le concezioni realiste del cinema, ma per raggiungere un obiettivo diverso da quello di Morin. In sintesi, se è vero che sullo schermo la realtà sembra farsi direttamente presente, e dunque se è vero a prima vista che il film 'mostra' e non 'significa', è anche vero che un'analisi più approfondita permette di capire che anche l'immagine filmica è pienamente segno. Essa lo è in due modi. Innanzitutto nel film le immagini non sono mai isolate, ma si legano l'una all'altra per somiglianza, per contrasto, o anche semplicemente per successione. Ogni immagine allora acquista una valenza che non le appartiene in proprio, ma che dipende dalla sua connessione con le altre immagini: l'associazione di una pistola che spara e di un uomo che cade fa del colpo una causa e della caduta un effetto. Di qui un primo modo di significare dell'immagine: grazie alle implicazioni acquisite attraverso un legame, essa diventa un vero e proprio simbolo. In secondo luogo nel film le immagini non solo rappresentano questo o quell'oggetto, ma segnalano anche la necessità che ci sia un oggetto di quel tipo. Un tale processo di generalizzazione di ciò che di per sé è particolare, o di astrazione di ciò che di per sé è concreto, definisce il secondo modo di significare dell'immagine: ne fa, come dice Mitry, un analogon. L'immagine filmica, infatti, non mostra soltanto: essa significa, sia poiché assume nuove valenze attraverso la sua combinazione con altre immagini (simbolo), sia poiché innesca un processo di generalizzazione e di astrazione a partire dalla sua stessa presenza sullo schermo (analogon). Conferma di ciò appare anche a un altro livello. Si può infatti guardare all'immagine sia in rapporto a quanto è rappresentato, sia in quanto rappresentazione di qualcosa. Ebbene, sul piano del rappresentato un oggetto sullo schermo viene percepito allo stesso modo in cui viene percepito l'oggetto nella realtà; mentre sul piano della rappresentazione l'oggetto sullo schermo viene percepito come un insieme di linee e di colori su una superficie. In un caso i bordi dello schermo appaiono come una finestrella (cache) che maschera allo spettatore altre porzioni di reale; nell'altro essi diventano una cornice (cadre) che inquadra uno spazio a sé. Se dunque l'immagine tende ad annullarsi in ciò che vi è rappresentato, in quanto rappresentazione essa tende a offrirsi come immagine, come realtà a sé, come segno (di qualcosa) dotato di una sua consistenza (e conseguentemente di una sua autonomia).
È la presenza di queste due dimensioni che consente di comprendere non solo che il cinema è un linguaggio, ma anche perché lo è. L'esistenza di una rappresentazione, o di un significare, permette infatti al cinema di 'de-realizzare' il reale: il mondo sullo schermo può essere più o meno simile a quello che ci circonda, ma è comunque un mondo a sé, con proprie misure e propri andamenti. Al contempo la presenza di un rappresentato, o la presenza di un mostrare, fanno sì che il cinema, nel distaccarsi dalla realtà, continui a mantenere un legame con quest'ultima. Quel che appare sullo schermo è altra cosa rispetto al reale, ma ha qualcosa a che fare con esso. Di qui la possibilità per l'immagine filmica di essere un'entità a sé e insieme di operare un rinvio a ciò da cui è idealmente partita. Se allora un linguaggio è sempre costruzione di un universo autonomo e insieme atto di predicazione, il cinema è linguaggio proprio in quanto è in grado di riproporre anch'esso questa dialettica: l'immagine cinematografica è intimamente linguistica perché è diversa dal mondo e nello stesso tempo opera come suo sostituto, come suo emblema, come suo rappresentante.
Il cuore della posizione di Mitry è proprio qui: nell'affermazione dell'intrinseca 'linguisticità' del film sulla base della capacità dell'immagine sia di significare a partire dal mostrare, sia di farsi rappresentazione a partire dal rappresentato. Lo studioso, nella sua opera, non si limita ad affermare e riaffermare questo dato: cerca anche di articolarlo in concreto. Di qui una serie di osservazioni che entrano nel dettaglio del funzionamento del linguaggio cinematografico, analizzando l'inquadratura, il montaggio, il ritmo ecc. Ma il nodo centrale del suo lavoro resta pur sempre quello qui evidenziato: ossia l'idea che l'immagine è segno e rappresentazione, e che dunque il cinema è linguaggio. Questa convinzione animerà anche la semiotica del cinema, ma in modi assai diversi rispetto a quelli che costituiscono la sostanza del discorso portato avanti da Mitry.
Il problema fondamentale della semiologia non fu quello di definire la natura o l'essenza del cinema, ma si concretizzò nella ricerca di strumenti adeguati per analizzarlo. Ciò emerge già dall'analisi del testo inaugurale della semiologia del cinema, il celebre Cinéma: langue ou langage? di Metz, apparso nel 1964 sul quarto numero della rivista francese "Communications". Il titolo del saggio si riferisce a una controversia su cui insisteva la semiologia del periodo: si possono studiare i sistemi 'flessibili' di segni, i linguaggi, o bisogna limitarsi ai sistemi 'rigidi', le lingue? È solo la semiologia che pone questa distinzione; e la pone per capire quale debba essere il suo oggetto. Dunque il dilemma ha senso solo all'interno di questo approccio, e investe un modo di procedere più che la realtà da analizzare. Ciò significa che per Metz la prima cosa che conta è il quadro della ricerca, con le sue domande e i suoi strumenti di indagine; solo una volta definito questo quadro si può cercare di vedere come vi si inserisce il proprio oggetto di interesse, applicando anche a quest'ultimo le domande e gli strumenti del primo. La conseguenza è l'abbandono di ogni indagine che pretenda di investigare un fenomeno nelle sue caratteristiche intrinseche, a favore di una ricerca che studi il fenomeno 'dal punto di vista di' una data disciplina: è il metodo quindi la vera discriminante. In questo senso Metz smette di pensare che il cinema, se è un campo di segni, lo sia di per sé: lo è solo in quanto si fa prendere per tale. Allo studio del cinema come realtà intrinsecamente linguistica si sostituisce allora uno studio degli aspetti linguistici del cinema, o meglio ancora uno studio linguistico del cinema.
Occorre aggiungere due considerazioni fondamentali. La prima è che questo cambiamento di paradigma teorico si accompagna all'emergere di un tipo di studioso diverso dai precedenti: uno studioso che ha una formazione scientifica, prima ancora che cinematografica; che lavora in strutture di ricerca o in ambiti universitari più che nel campo della critica; che pubblica in riviste caratterizzate disciplinarmente, piuttosto che in riviste genericamente cinematografiche; e soprattutto che fa riferimento a metodi che utilizza per esaminare altri ambiti espressivi (letteratura, televisione ecc.), invece che restare sul cinema cambiando strumenti di indagine. La seconda essenziale considerazione è che il mutamento di paradigma favorisce l'applicazione di altre forme di indagine (la sociologia, la psicologia, la psicoanalisi ecc.) al cinema. Fu in ogni caso la semiologia a effettuare questa piccola rivoluzione, e fu sempre la semiologia, con il suo percorso e anche con la sua crisi verso la metà degli anni Ottanta, a segnare il destino di questo paradigma teorico. Il primo periodo dello sviluppo degli studi di semiologia del cinema è collocabile tra la metà degli anni Sessanta e i primi anni Settanta, e fu caratterizzato dai diversi tentativi di rispondere alla domanda di Metz: il cinema possiede una 'lingua' analoga alle lingue naturali e dunque può essere l'oggetto della semiologia? Le risposte furono varie e numerosi furono gli studiosi italiani che intervennero nel dibattito, anche sulla spinta di due convegni internazionali dedicati al linguaggio del film che si tennero nell'ambito della Mostra internazionale del nuovo cinema di Pesaro, rispettivamente nel 1966 e nel 1967. Gianfranco Bettetini sottolineò la differenza tra segni linguistici e segni cinematografici ma anche l'analogia tra i modi di significare dei due campi. Umberto Eco individuò nel linguaggio cinematografico una maggior complessità di piani ma anche la presenza di "codici" quali si trovano nel linguaggio verbale; Emilio Garroni volle sottolineare come non sia la "lingua" ma la "codificabilità" dei linguaggi a essere al centro della semiologia, e dunque il cinema è oggetto della semiologia nella misura in cui si rivela anch'esso "codificabile"; Pier Paolo Pasolini elaborò una risposta apparentemente paradossale ma assai interessante, e cioè che il cinema ha una sua lingua, e questa coincide con la 'lingua' del mondo naturale.
La pubblicazione nel 1971 dell'opera di Metz Langage et cinéma rappresentò per molti aspetti il culmine e insieme il superamento di questo periodo. Il libro infatti tenta di definire a quali condizioni il cinema può diventare oggetto della semiologia. In particolare suggerisce che occorre tener conto di diverse realtà: il testo (ossia qualcosa di concreto e singolare: questo dato film), il messaggio (qualcosa di concreto ma non di singolare: per es., un gioco di luci in un film, che fa parte di quel testo ma al tempo stesso non è esclusivo di esso), il codice (qualcosa di costruito dall'analista e di non singolare: per es., la 'grammatica' dell'illuminazione), e il sistema singolare (qualcosa di costruito e appunto di singolare: l'organizzazione di un testo, l'edificio del film che viene messo a fuoco nell'analisi). La semiologia ha due strade: se vuole mettere in luce la composizione del linguaggio cinematografico deve partire dai messaggi per arrivare ai codici, e cioè agli elementi che costituiscono la grammatica del cinema; se invece vuol mettere in luce il funzionamento di un film, deve partire dal testo per arrivare al sistema singolare, e cioè all'architettura complessiva su cui si fonda la struttura di un'opera filmica.
Metz cerca di percorrere entrambe queste strade; elabora infatti una mappa dei codici che caratterizzano in modo più o meno esclusivo il cinema e, al contempo, mostra come questi codici si combinano in modo peculiare in ciascun film. A questo proposito insiste sul fatto che in un film i codici, più che convivere, si incastrano e si scontrano: dunque più che di struttura bisogna parlare di scrittura, termine con cui si designa appunto quel "lavoro sui codici, a partire da essi, contro di essi" (1971; trad. it. 1977, p. 291) che porta al testo. L'impianto strutturalista tipico del primo periodo si apre allora a una visione più mossa: non conta solo l'architettura sottesa, ma anche le dinamiche che l'hanno formata e che continuano ad agitarla. Entrano qui in campo quei concetti che guideranno la 'seconda semiologia', che fu caratterizzata da un nuovo orientamento. Innanzitutto la doppia strada di Metz divenne una sola: si cessò di studiare il linguaggio cinematografico, per studiare soprattutto il film. Poi divenne radicale l'attenzione alle spinte e alle controspinte che muovono i diversi elementi; più che sulle strutture, l'interesse cominciò a focalizzarsi sui processi. La 'seconda semiologia' può essere infatti definita testualista e dinamica.
Senza approfondire in dettaglio l'ampio campo degli argomenti affrontati, si deve sottolineare come essi abbiano spaziato dai 'processi produttivi' di un film sino ai suoi 'processi comunicativi', e dunque dal gioco dei codici all'interazione tra destinatario e destinatore. Tra i temi più interessanti e i risultati più convincenti si possono annoverare: le ricerche sul cinema della modernità (compiute da André Gardies, Dominique Chateau e François Jost); sul punto di vista (Jacques Aumont, ancora Jost, E. Branigan: v. sguardo); sull'atto del narrare (Seymour Chatman, André Gaudreault: v. narratologia); sulle configurazioni anomale come il fuori campo, lo sguardo in macchina, la sovrimpressione ecc. (Marc Vernet). In ogni caso, verso la fine degli anni Settanta, l'attenzione si fissò su due terreni di ricerca: per un verso sui processi dell'enunciazione cinematografica, e cioè sul modo in cui un testo filmico si costituisce in quanto tale ed esibisce questo suo statuto attraverso autoriferimenti (Francesco Casetti, Metz); per un altro sui processi che connettono un testo al suo contesto, e cioè sul modo in cui un film si lega e insieme è debitore dell'ambito sociale, culturale, istituzionale, entro cui appare (Roger Odin). Teoria dell'enunciazione e approccio pragmatico sono stati dunque i due orizzonti (spesso collegati tra loro) in direzione dei quali si è mossa la seconda semiotica. Nel corso degli anni Settanta tuttavia questa disciplina aveva incrociato la psicoanalisi e la critica dell'ideologia, dando luogo a una diversa tendenza di studio.
L'incontro di semiologia, psicoanalisi e critica dell'ideologia, durante gli anni Settanta, provocò un doppio effetto. Fece innanzi tutto emergere un nuovo paradigma teorico, non più basato sull'applicazione al cinema di metodi sperimentati, ma sul riconoscimento di questioni aperte alla cui soluzione tutti erano convocati; l'approccio metodico lasciò il posto a un approccio multidisciplinare, e il desiderio di analisi a una volontà di interpretazione. Si svilupparono quelle che possono essere definite teorie di campo. D'altro canto questo incontro si realizzò attorno a uno specifico ambito d'interesse: si voleva infatti capire come la macchina del cinema (il fascio di luce del proiettore, la sala buia ecc.) determina una peculiare esperienza di visione, ma anche come lo sguardo (della cinepresa, del regista) costringe lo spettatore ad assumere un'ottica determinata. Il primo aspetto è stato al centro di un'ampia riflessione che ha avuto come tema il dispositivo cinematografico o apparato cinematografico. Baudry e poi ancora Metz hanno dedicato a questo argomento vari interventi, legati a un largo uso della psicoanalisi soprattutto lacaniana.
Al secondo aspetto si lega il tema dello sguardo. Sguardo della cinepresa sul mondo, innanzi tutto. Erede della camera obscura, essa ci dà un'immagine del mondo direttamente costruita sul modello della 'prospettiva scientifica' del Quattrocento. Ciò significa che non registra il reale, ma lo inserisce in uno schema figurativo (un punto centrale e delle linee di fuga) che sembra rispettare le leggi stesse della percezione, quando invece serve soprattutto a celebrare la presenza di un osservatore frontale e privilegiato. Dunque, al di là dei contenuti filmati, l'azione della cinepresa è sempre ideologica: offre una visione falsamente neutra e naturale; omogeneizza la realtà; rafforza il senso di sé di chi guarda. Riviste come "Cinéthique", "Cahiers du cinéma" e "Screen" intrecciarono nei primi anni Settanta un fitto dibattito attorno a questo nodo tematico.
Ma lo sguardo è anche quello che i personaggi si scambiano tra loro e che lo spettatore è chiamato a condividere. Queste occhiate sullo schermo e oltre lo schermo formano una fitta rete che stabilisce i percorsi della conoscenza, del desiderio, del potere; il ruolo che ciascuno è chiamato a ricoprire è strettamente legato al vedere o all'essere (magari immaginariamente) visti. Il tema venne sviluppato a fondo dalla Feminist Film Theory che, tra gli anni Settanta e gli anni Ottanta, svolse un ruolo rilevante nel rilanciare e rinnovare certi elementi del dibattito sul cinema, innestandovi la problematicità di una prospettiva arricchita dall'attività di riflessione del movimento femminista, dalla diffusione nell'ambito del cinema indipendente della presenza di registe, dall'attenzione sulla posizione delle donne nel contesto della comunicazione sociale e quindi da una conseguente, più avvertita analisi delle diverse modalità della rappresentazione, con posizioni importanti sviluppate in particolare da studiose come Laura Mulvey, Pam Cook, Claire Johnston. Pur se alla fine degli anni Ottanta questo approccio ha rischiato di diventare schematico, la svolta che esso ha imposto risulta tuttora valida, arricchita però dall'esigenza di tener conto, oltre che della macchina del cinema e del testo filmico, anche dello scenario sociale e culturale in cui il fenomeno si iscrive. La prospettiva entro cui devono essere collocati questi studi è quella dei Cultural Studies, orientati a individuare e studiare le più interessanti sub-culture all'interno delle società o le manifestazioni di culture lontane da quelle tradizionali. La Feminist Film Theory ha dato il suo contributo a questo tipo di approfondimento coniugando l'identità di genere nell'ambito delle diverse possibilità di articolazione del concetto di identità (razziale, nazionale ecc.). Lo spettatore secondo tali impostazioni è dunque visto non solo come un soggetto linguistico, 'creato da' e 'iscritto ne' il testo filmico, ma anche come un soggetto sociale, modellato dall'interazione con gli altri individui e dall'attività delle istituzioni; al contempo la rappresentazione cinematografica viene esaminata non solo in sé stessa, ma in rapporto all'insieme delle rappresentazioni sociali, nel suo circolare all'interno di una cultura, e con riguardo agli effetti che produce.
Parallelamente ai Cultural Studies, altri approcci si sono affermati a cavallo tra gli anni Ottanta e nel corso degli anni Novanta. Da un lato vi è stato un ritorno dell'interesse estetico per il cinema, di cui un segno rilevante sono stati i due volumi di Gilles Deleuze, L'image-mouvement (1983) e L'image-temps (1985), ma anche gli approfonditi lavori di Aumont. Dall'altro, ha preso corpo un interesse per i processi cognitivi attivati dal cinema, e cioè per le modalità con cui si percepiscono le immagini e i suoni, o si segue una storia, oppure si ricostruisce il mondo diegetico raffigurato sullo schermo: David Bordwell è lo studioso che più ha lavorato in questa direzione. Sullo sfondo, infine, c'è il grande fiorire degli studi storici sul cinema, in particolare i lavori dedicati al periodo delle origini.
All'interno delle 'teorie di campo' il panorama è però ancora troppo mosso per poterne tracciare un diagramma completo. Ciò che risulta indubitabile e ricco di allettanti sollecitazioni è la considerazione che a oltre cent'anni dalla nascita del cinema il dibattito è ancora assai vivo, ricco di sorprese e, soprattutto, di promesse. E appare estendersi in direzioni diverse, frammentandosi e inseguendo il suo oggetto, il quale intreccia sempre di più gli esiti con l'estetica (v. estetica del cinema) e con la comunicazione intesa in tutta la complessità delle sue diverse forme di espressione.
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