Abbreviazione dell’inglese high technology, usata per indicare prodotti realizzati con tecnologie avanzate e innovative.
Le origini dell’architettura h. possono essere ricercate nelle opere di ingegneria di fine Ottocento, ma per questo genere di tendenza architettonica si fa riferimento alla definizione coniata da P. Buchanan (1983) per la produzione di alcuni architetti inglesi dagli anni 1960. Fra i primi esempi: Reliance Control Factory a Swindon di N. Foster e R. Rogers (all’epoca associati all’interno dello studio Team 4) e ampliamento del vittoriano International Students’ Club a Londra di N. Grimshaw, entrambi del 1967. Eredi della tradizione moderna e, in particolare, del razionalismo, gli esponenti dell’h. negano per lo più l’appartenenza a uno stile, considerando il proprio approccio progettuale l’unico in sintonia con i tempi. Fra le caratteristiche fondamentali: una nuova concezione del rapporto interno-esterno; l’esaltazione del processo costruttivo, della trasparenza, della stratificazione e della leggerezza; l’ottimistica fiducia nella cultura scientifica. Oggetto di critiche, in particolare per gli elevati costi di gestione e manutenzione degli edifici, l’h. trova tuttavia successo soprattutto in tipologie specifiche come impianti industriali, infrastrutture o centri commerciali, soprattutto se fuori dai centri storici.
Gli architetti h. sono numerosi soprattutto in Gran Bretagna; oltre a Foster, Rogers e Grimshaw, vanno anche citati altri progettisti britannici quali M. Hopkins, Ahrends Burton & Koralek, C. Price, E. Jiricna e J. Ritchie; i finlandesi Gullichsen Kairamo & Vormala; lo spagnolo S. Calatrava; l’italiano R. Piano; i tedeschi Weber, Brand & Partners e G. Behnisch; i francesi J. Nouvel, D. Perrault e Atelier Canal; i giapponesi F. Maki, K. Kurokawa e T. Ito. I progettisti ascrivibili a questa tendenza architettonica si avvalgono spesso anche della consulenza tecnica e strutturale dello studio d’ingegneria Ove Arup & Partners, con sedi in vari paesi del mondo. Particolare è la vicenda statunitense, in cui l’uso variegato delle tecnologie avanzate non sembra aver prodotto un vero e proprio linguaggio architettonico high-tech.