libertà
La possibilità di scegliere il proprio destino
Il problema della libertà, nella cultura occidentale, è stato affrontato da due prospettive diverse: quella religioso-metafisica e quella etico-politica. Nel primo caso ci si è interrogati sul posto che l’uomo occupa nell’Universo: se egli sia l’artefice del proprio destino oppure se sia governato da forze superiori alla sua volontà. In questa prospettiva il problema della libertà coincide con quello del libero arbitrio o del determinismo. Nel secondo caso ci si è invece chiesti in cosa consista la libertà dell’uomo in relazione ai suoi simili: alcuni l’hanno identificata nella possibilità di agire senza essere ostacolati dal potere, altri nell’obbedienza alla legge che ci si è dati
L’azione del fato. Alle origini della cultura greca – nella poesia arcaica e nella tragedia – troviamo la nozione di fato, ossia di una forza soprannaturale che regge le sorti del mondo, determinando in modo cieco e inesorabile tutto quel che accade. L’azione del fato, che non può essere compresa dagli uomini, è superiore persino alla volontà degli dei: per la libertà dell’uomo, dunque, non v’è spazio alcuno. Questa idea, di origine religiosa, verrà elaborata filosoficamente dallo stoicismo, secondo il quale l’intero cosmo è sottomesso a un ordine necessario e razionale: tale razionalità lo rende comprensibile dall’uomo, a condizione che questi si liberi dagli inganni delle passioni e si affidi alla pura ragione. E proprio in tale conoscenza risiede la libertà dell’uomo, che una volta compreso quale sia il suo destino si conformerà a esso. La libertà non consiste quindi nel seguire la propria volontà, ma nell’accettare l’ordine necessario delle cose.
L’insegnamento di Platone e Aristotele. Non tutti i filosofi greci la pensano così. Anzi, i massimi protagonisti della filosofia greca ritengono che l’uomo sia libero, nel senso che la maggior parte delle sue azioni dipende dalla sua volontà. Nel mito di Er, Platone sostiene che l’anima immortale, prima di incarnarsi, sceglie tra i vari modelli di vita e in questa scelta «la divinità non vi ha minimamente parte»: ogni uomo, quindi, sceglie il proprio destino. Quanto ad Aristotele, egli ritiene che l’uomo sia «il principio e il padre dei suoi atti, come dei suoi figli»: nella maggior parte delle sue azioni l’uomo si trova sempre di fronte a più possibilità e l’esito della scelta dipende soltanto da lui. A differenza degli animali, le cui azioni sono tutte determinate dal meccanismo necessario dell’istinto, l’uomo può svincolarsi dai propri istinti e seguire la ragione. Ne consegue che egli è responsabile delle sue azioni: «là dove siamo in grado di dire no – afferma Aristotele – possiamo anche dire sì. Sicché se il compiere un’azione bella dipende da noi, dipenderà da noi anche non compiere un’azione brutta».
La libertà, in questa accezione, si colloca dunque agli antipodi della necessità: l’uomo è libero perché la maggior parte delle sue azioni è determinata soltanto dalla sua volontà, cioè è autodeterminata. Egli dispone, in sostanza, del libero arbitrio.
Con l’avvento del cristianesimo, il problema del libero arbitrio si carica di nuovi significati e di nuove difficoltà. Di nuovi significati, perché essere liberi significa sottrarsi alla schiavitù del peccato; di nuove difficoltà, perché per i cristiani il peccato originale ha corrotto per sempre l’anima dell’uomo. Ne consegue che soltanto l’intervento di Dio, cioè la grazia, può trasformare l’uomo, liberandolo dalla schiavitù del peccato e rendendolo capace di fare il bene.
Inoltre Dio è considerato onnipotente e onnisciente: ciò significa che tutto quel che accade dipende dalla sua volontà e che egli sa in anticipo tutto quel che accadrà. Se le cose stanno così, quale spazio rimane per la libertà dell’uomo? E come può egli essere responsabile dei propri peccati, se non è libero?
Su questo delicatissimo problema si sviluppano sostanzialmente tre posizioni. La prima è quella rappresentata dal monaco Pelagio (5° secolo), il quale – per salvaguardare la libertà dell’uomo – sosteneva che il peccato originale è soltanto un cattivo esempio che rende più difficile il compito dell’uomo e non qualcosa che ne ha corrotto per sempre l’anima. L’uomo è quindi in grado, con le sue forze, di sottrarsi al peccato e di compiere il bene: ciò significa che egli non è predestinato da Dio e che la grazia divina è soltanto un aiuto in più per raggiungere la salvezza.
Alle tesi di Pelagio – che furono condannate dal Concilio di Cartagine del 418 – rispose Agostino (5° secolo), secondo il quale l’uomo, senza la grazia, non può liberarsi dalla propria condizione di peccatore. Questo però non significa che l’uomo sia privo del libero arbitrio. Ognuno avverte dentro di sé la lotta tra il bene e il male e questo dimostra che l’uomo è libero; ma perché sia veramente tale, cioè perché sia capace di sottrarsi al peccato, è necessaria la grazia di Dio. Secondo Tommaso Dio, nella sua eternità fuori dal tempo, vede tutto l’avvenire, ma ciò non pregiudica la libertà delle nostre scelte. Il libero arbitrio è infatti inscritto nel disegno di Dio, che lascia all’uomo uno spazio di autodeterminazione e quindi di responsabilità.
I fondatori delle Chiese protestanti o evangeliche, Lutero e Calvino, sostenevano invece che l’uomo non dispone del libero arbitrio e che il suo destino è totalmente determinato da Dio. In polemica con Erasmo da Rotterdam, che aveva difeso la libertà dell’uomo nel De libero arbitrio (1524), Lutero nel De servo arbitrio (1525) sostenne che soltanto Dio è libero, mentre la volontà dell’uomo è come una giumenta, sul cui dorso sta Dio o Satana e che va dove il cavalcatore vuole portarla. Soltanto l’intervento di Dio, cioè la grazia, può dunque liberare l’uomo dalla schiavitù del peccato, rendendolo capace di fare il bene.
Quanto a Calvino, egli accentuò ancor più il tema della predestinazione, esaltando l’onnipotenza di Dio: attraverso un eterno decreto Dio ha liberamente «stabilito cosa debba avvenire di ogni uomo», destinando alcuni alla salvezza e altri alla dannazione. Il criterio di questa scelta è insondabile: l’uomo può solo accettare il verdetto di Dio, abbandonandosi fiduciosamente alla sua volontà.
I primi secoli dell’età moderna (15° e 16°) sono caratterizzati da una profonda fiducia nella capacità dell’uomo di forgiare liberamente il proprio destino. Nell’Orazione sulla dignità dell’uomo (1486) – che è considerata il ‘manifesto’ dello spirito rinascimentale – Pico della Mirandola immagina che Dio si rivolga ad Adamo nei seguenti termini: «Non ti ho dato né un posto determinato, né un aspetto tuo proprio, né alcuna prerogativa tua, perché quel posto, quell’aspetto, quelle prerogative che tu desidererai, tutto appunto, secondo il tuo voto e il tuo consiglio, ottenga e conservi. La natura determinata degli altri è contenuta entro leggi da me prescritte. Tu te la determinerai, da nessuna barriera costretto, secondo il tuo arbitrio, alla cui potestà ti consegnai». A differenza di tutti gli altri esseri del creato, l’uomo dispone dunque del libero arbitrio, cioè della capacità di autodeterminarsi.
Nel corso del 17° secolo, con lo sviluppo della scienza moderna, si afferma l’idea che la natura sia un ordine oggettivo, privo di finalità e retto da leggi necessarie di causa-effetto esprimibili in forma matematica. Questa concezione deterministica – e la fiducia in una conoscenza oggettiva basata sul metodo geometrico-matematico – viene trasposta sul piano filosofico sia nell’ambito del razionalismo, con il filosofo olandese Baruch Spinoza, sia nell’ambito dell’empirismo, con Hobbes.
Spinoza afferma che soltanto Dio è libero, perché solamente Dio è in grado di autodeterminarsi e di non obbedire a nulla di estraneo (va precisato che il Dio di cui parla Spinoza non è il Dio-persona della tradizione ebraico-cristiana, ma la causa immanente e necessaria del mondo o natura). Il libero arbitrio dell’uomo è quindi soltanto un’illusione. Se un sasso che cade potesse pensare, osserva Spinoza, esso sarebbe consapevole del suo mo;vimento e lo attribuirebbe alla sua volontà: così accade all’uomo, che attribuisce alla sua volontà i suoi atti e i suoi desideri soltanto perché non ne conosce le vere cause. La libertà dell’uomo non consiste quindi nella sua capacità di autodeterminarsi, ma nel comprendere l’ordine delle cose e nel fondersi in esso, nel ragionare e agire come parte di un Tutto necessario.
Quanto a Hobbes, egli ritiene che l’intero Universo – uomo incluso – non sia che una combinazione di materia e movimento retta da ferree leggi meccaniche. Ne consegue che per il libero arbitrio non vi è spazio alcuno. L’unica libertà di cui dispone l’uomo consiste nell’assenza di impedimenti esterni: come l’acqua contenuta in un bicchiere, una volta rotto tale contenitore, si spande liberamente sul tavolo seguendo le leggi della sua natura, così l’uomo è libero di agire ogni qualvolta non sia impedito da qualche vincolo esterno. La libertà dell’uomo riguarda pertanto le azioni e non la volontà: è una libertà del fare, non del volere.
Con la riflessione di Kant l’alternativa tra determinismo e libero arbitrio viene meno. Per il filosofo tedesco l’uomo, in quanto essere fisico, obbedisce alle leggi della natura, che sono rette dal più ferreo determinismo. In quanto essere morale, però, è libero, come dimostra il fatto che vi è in lui un perenne conflitto tra i desideri naturali e la ragione, conflitto che può risolversi in un senso o nell’altro.
Ed è proprio questa libertà a conferire moralità alle sue azioni, giacché ne fa l’unico responsabile. La sua virtù consisterà quindi nella capacità di resistere ai condizionamenti naturali (istinti, passioni, desideri, interessi) e di seguire la sua ragione. Ancora una volta torna l’idea della libertà come autodeterminazione o autonomia, ossia come capacità di obbedire alla legge che la nostra ragione ci ha prescritto.
Con le grandi filosofie dell’idealismo tedesco, il cui scopo principale è pensare la totalità o Assoluto, la libertà torna a coincidere con la necessità. A differenza di Spinoza, però, gli idealisti identificheranno il Tutto o Assoluto non con la natura, ma con lo Spirito. La natura, infatti, è il regno della necessità inconsapevole di sé: soltanto lo spirito, in quanto ragione, è svolgimento libero e consapevole di sé. E poiché il divenire dello Spirito coincide, per Hegel, con la storia, quest’ultima ha come fine la libertà. Ogni epoca costituisce un passo in avanti in questo senso, nelle forme spirituali e nelle istituzioni etico-politiche: nel mondo orientale, afferma Hegel, era libero soltanto uno (il despota), nel mondo classico delle repubbliche antiche erano liberi soltanto alcuni e nel mondo cristiano-germanico sono liberi tutti.
Tale concezione verrà ripresa, nel 20° secolo, dai filosofi del neoidealismo. Anche per Croce la storia è storia della libertà: anche se il cammino verso la libertà può subire delle battute d’arresto, come è accaduto con l’instaurazione di regimi dittatoriali, esso è destinato a riprendere.
Nella storia del pensiero politico il problema della libertà viene affrontato in relazione al mondo delle relazioni umane: qui non si tratta di stabilire se l’uomo è libero, ma in cosa consista effettivamente la sua libertà. Quest’ultima viene in genere pensata come assenza di costrizione, ma la sua definizione varia a seconda che si prenda in esame la sfera dell’agire o quella del volere. Nella sfera delle azioni, la libertà consiste nella possibilità di agire senza essere ostacolati o costretti da altri uomini (in particolare, da quelli che detengono il potere); nella sfera della volontà, invece, la libertà consiste nella capacità di decidere obbedendo solamente a sé stessi.
Nel primo caso libertà significa, quindi, assenza di impedimenti o costrizioni (secondo la definizione di Hobbes), nel secondo autonomia, cioè obbedienza alla legge che ci si è dati (secondo la definizione di Rousseau): da queste definizioni deriva la celebre distinzione tra libertà negativa e libertà positiva.
La concezione negativa della libertà si afferma con forza nel mondo moderno, quando le grandi rivoluzioni ispirate al liberalismo – quella inglese del 1688, quella americana del 1776 e quella francese del 1789 – conducono alla conquista delle principali libertà individuali (libertà di religione, di pensiero, di parola, di stampa, di associazione, di iniziativa economica).
Cosa significa, in questi ambiti, essere liberi? Significa che ogni individuo ha il diritto di agire come meglio crede senza che lo Stato (o qualsiasi altro individuo o gruppo dotati di potere) possa impedirglielo. Godere della libertà religiosa, per esempio, significa avere il diritto di credere in una qualsiasi religione o di non credere in nessuna di esse o di essere indifferenti al problema. Lo Stato non deve intervenire sull’argomento, né vietando un qualsiasi culto, né obbligando a seguirne uno in particolare: esso deve lasciare ogni individuo libero di comportarsi come vuole e limitarsi a garantire tale libertà contro ogni eventuale sopruso (come sostiene Locke, il padre del liberalismo moderno, nella sua Epistola sulla tolleranza, v. tolleranza).
Anche Kant, in ambito politico, teorizza apertamente la libertà negativa. Per il filosofo tedesco la libertà consiste nell’assenza di impedimenti esterni: là dove non arrivano i comandi o i divieti del sovrano l’uomo è libero, ha cioè la facoltà di agire come meglio crede. «Nessuno» afferma Kant «mi può costringere a essere felice a suo modo (come cioè egli si immagina il benessere degli altri uomini), ma ognuno può ricercare la felicità per la via che a lui sembra buona, purché non rechi pregiudizio alla libertà degli altri».
Ecco perché si parla di ‘libertà negativa’: perché essa consiste nel negare l’intervento del potere, nello sgombrare il campo da qualsiasi ostacolo, nel creare uno ‘spazio vuoto’ che l’individuo può utilizzare come vuole (con l’unico limite di non arrecare danno agli altri e di permettere loro eguale libertà).
La concezione positiva della libertà coincide con la nozione morale di autonomia ed è stata trasposta sul piano politico da Rousseau. Come un individuo è libero soltanto quando obbedisce alla propria volontà razionale e non ai propri impulsi egoistici – afferma Rousseau – così un popolo è libero soltanto quando obbedisce alla propria volontà generale e non agli interessi particolari. E poiché gli individui stanno alla società come gli organi stanno al corpo, la libertà dei singoli consisterà nell’obbedire alla volontà generale, ossia alle leggi che il corpo politico – composto da tutti i cittadini, senza eccezioni – deciderà di adottare.
Il concetto di libertà come autonomia si lega quindi al concetto di democrazia: è libero quel popolo che si autogoverna, ossia che prende parte alla creazione delle leggi alle quali poi dovrà obbedire. La libertà consiste quindi nella partecipazione collettiva all’esercizio del potere politico e nell’obbedienza alla legge. E poiché la legge ha sempre un contenuto specifico (non è uno spazio vuoto) in questo caso si parla di ‘libertà positiva’.
Libertà negativa e libertà positiva finiscono in questo modo per rappresentare gli archetipi di due concezioni diverse della libertà, che caratterizzeranno – a partire dall’Ottocento – le correnti politiche del liberalismo e della democrazia.
Per i liberali la libertà è essenzialmente una condizione di indipendenza individuale: essa coincide con quello spazio nel quale non arrivano né i comandi né i divieti del potere e dove l’individuo può agire a proprio talento. Per i democratici, invece, la libertà consiste essenzialmente nella partecipazione collettiva al potere: essa, quindi, coincide con lo spazio che viene regolato dalle leggi, a condizione, però, che tali leggi siano il frutto di una decisione alla quale tutti hanno preso parte in modo eguale.
Nella concezione liberale della libertà l’accento cade sull’individuo, nella concezione democratica sulla società nel suo complesso. I liberali tendono ad allargare la sfera delle autodeterminazioni individuali (cioè delle decisioni rimesse ai singoli individui), perché sono convinti che il libero gioco delle opinioni e degli interessi costituisca il più potente mezzo di progresso civile, economico e culturale.
I democratici tendono ad allargare la sfera delle autodeterminazioni collettive (cioè delle decisioni da prendere insieme, come società), perché sono convinti che l’eccesso di libertà individuali generi diseguaglianze troppo grandi tra gli uomini. Entrambi questi tipi di libertà convivono, in un equilibrio sempre instabile, nelle moderne democrazie liberali.