MILANO
La seconda città d'Italia per popolazione assoluta, la prima per importanza economica.
Sommario. - Geografia: Situazione; Clima; Sviluppo territoriale e demografico; Industria e commercio. - Monumenti e arte. - Istituti di cultura e musei: Istituti d'istruzione; Altri istituti di cultura; Gallerie e musei d'arte; Biblioteche e archivi. - Vita musicale e teatrale: Musica; Teatro drammatico. - Letteratura dialettale. - Storia. - Le cinque giornate di Milano. - Il ducato di Milano. - La provincia di Milano.
Geografia. - Situazione. - Milano occupa press'a poco il centro della Pianura Padana, fra il Po e le Alpi (45°27′59″ di lat. N. e 9°11′28″ di long. E.), e si sviluppa tutta su suolo alluvionale recente, a 120 m. s. m. Posizione centrale che è probabilmente adombrata nel nome stesso della città, se, come par giusto, si voglia riconoscere nella forma Mediolanum, attestata già da Livio per il secolo III a. C., l'etimo celtico la[n]no (cfr. lat. planum), e perciò intendere Mediolanum come "luogo di mezzo", "paese in mezzo a una pianura". La fortuna del primo nucleo abitato, indubbiamente celtico, può essere stata in rapporto con l'esistenza di un luogo consacrato o di un santuario; quella del centro medievale e moderno essenzialmente con i vantaggi che al nucleo stesso venivano e vengono dalla sua felice posizione geografica. Il largo piano inclinato che, fra Ticino e Adda, scende dalla regione dei grandi laghi al Po, e in mezzo al quale appunto sorge Milano, oltre a raccogliere e annodare le vie di comunicazione che solcano da E. a O. la pianura padana e congiungono così i paesi danubiani col bacino del Rodano, e quelle che dal Mar Ligure e dall'Italia centrale per l'Appennino adducono ai piedi delle Alpi, fronteggia, in queste, la sezione mediana, dove, fra il gruppo del Rosa e la Val d'Adige, si aprono numerosi e relativamente facili i passaggi da N. a S. La funzione essenzialmente commerciale di Milano - lo sviluppo delle industrie è fenomeno relativamente recente, e in parte conseguenza di quella - è messa in luce dalla forma stessa della città, al centro di una raggiera di vie di comunicazioni (12 grandi strade, 15 linee ferroviarie principali, 7 ferrovie secondarie, 18 linee tramviarie extraurbane). Queste vengono a inserirsi, entro l'area fabbricata, nelle arterie urbane vere e proprie, rettilinee anch'esse fino alla cinta dei bastioni, più o meno tortuose di qui al centro.
Clima. - Milano giace in territorio a clima nettamente continentale, con temperature invernali piuttosto rigide, temperature estive elevate, ed escursioni annua e diurna fra le più decise che si verifichino in Italia. Le medie del periodo 1880-1929 danno 1°,5 nel mese più freddo (sempre il gennaio), 24°,1 per quello più caldo (il luglio), e 12°,9 per l'anno; le temperature medie stagionali sono, dall'inverno all'autunno: 2°,8; 12°,8; 23°,0; 13°,1. L'escursione annua della temperatura media mensile (22°,6), senza essere la più alta fra quelle della Valle Padana (Piacenza: 24°,3), è fra le più alte delle grandi città italiane (Roma: 17°,9). I minimi assoluti oscillano fra −2°,7 (1904) e −17°,2 (1855); i massimi fra 31°,1 (1843) e 38°,i (1911); le medie dei massimi da 4°,6 (gennaio) a 31°, 1 (luglio); dei minimi da −0°,9 (gennaio) a 18°,7 (luglio).
Le piogge sono generalmente abbondanti; la media del trentacinquennio 1871-1924 dà 1016,3 mm., dei quali il 30% in autunno e appena il 18% in inverno, con due massimi, uno in ottobre-novembre, l'altro in aprile-maggio, che si aggirano ognuno sui 100-120 mm. mensili. I giorni piovosi sono in media 120 all'anno; quelli con neve una diecina, ma si hanno oscillazioni assai forti (1895: 27 giorni nevosi; 1921: 1). La neve cade di regola fra dicembre e febbraio, col massimo in gennaio.
Fra i venti, la frequenza maggiore è data da quelli di SE. (provenienti dall'Adriatico), specie da primavera al primo autunno. Il valore medio della nebulosità annua (in decimi di cielo scoperto) è di 5,7, valore che non subisce forti oscillazioni stagionali, pur avendosi un massimo invernale e un minimo estivo. Anche le nebbie sono più frequenti d'inverno (15 a 16 giorni nebbiosi in dicembre e gennaio); meno frequenti, ormai, di un tempo, per l'allontanamento delle risaie dai margini dell'abitato.
Sviluppo territoriale e demografico. - Il territorio del comune di Milano si estende sopra una superficie di 182,99 kmq. - è perciò inferiore di oltre dodici volte a quello del comune di Roma - dei quali tuttavia oltre la metà (94 kmq.) occupati da terreni ancora coltivati, poco meno di 1/4 (42 kmq.) da aree fabbricabili, e poco più di 1/7 dal centro urbano vero e proprio, se si considera tale l'area chiusa entro la cosiddetta circonvallazione nuova (30 kmq.).
Le successive fasi del suo sviluppo si lasciano riconoscere anche attraverso le mutazioni avvenute nel corso dei secoli. Da un originario nucleo quadrato o rettangolare, che risale almeno all'epoca della repubblica romana, e del quale è traccia nella zona immediatamente prossima al Duomo, l'abitato si estese soprattutto verso settentrione e occidente, dov'erano zone più salubri. L'allargamento continuò nel primo Medioevo, in modo da far assumere alla città una forma all'ingrosso circolare, ad anelli concentrici, che corrispondono, almeno nel loro complesso, a stadî di accrescimento. Il perimetro poligonale della cerchia dei navigli, ai quali Milano giunse all'epoca dei Comuni, occupava un'area di poco più di 3 kmq.; le mura spagnole (i "bastioni") di Ferrante Gonzaga, costruite nel sec. XVI, racchiudevano un'area già doppia: 6,5 kmq. L'anello di abitati, formatosi intorno al nucleo più antico, fu costituito in comune autonomo nel 1781 col nome di "Corpi Santi", e solo nel 1873 fu riunito anche amministrativamente al comune di Milano il cui territorio venne, con questa aggiunta, più che decuplicato d'estensione. Le successive aggregazioni dei comuni contermini (1907: parte del comune di Greco Milanese; 1918: Turro), l'ultima delle quali, nel 1923, ne comprendeva 11 (Affori, Baggio, Chiaravalle, Crescenzago, Gorla-Precotto, Greco Milanese, Lambrate, Musocco, Niguarda, Trenno e Vigentino), con circa 120 mila abitanti, hanno condotto allo stadio attuale, che pure è da considerare esso stesso transitorio, data l'opportunità, più o meno impellente, di riunire a Milano varî altri centri satelliti della provincia, che demograficamente ed economicamente rappresentano propaggini del nucleo urbano o che cadono nella sfera d'influenza di questo, sempre più vasta coi sempre più rapidi mezzi di comunicazione.
Come rapporto fra la nuova e la vecchia città si può assumere il cosiddetto "indice di edilità", ossia il rapporto fra la superficie coperta da fabbricati e quella totale, rapporto che per la zona delimitata dalla fossa dei navigli è del 75% circa, per quella chiusa entro la cinta daziaria del 1923 è del 33%, mentre per ciò che riguarda i territorî dei comuni aggregati non raggiunge ancora il 2%.
L'ingrandimento, di cui daremo appresso le cifre, ha naturalmente imposto alla città un'imponente attività edilizia, una febbre di rinnovamento nei cui accessi sono stati sacrificati - e talora, purtroppo, senza vera necessità - monumenti storicamente importantissimi, quando non anche architettonicamente insigni. Il male è lamentato in tutti i tempi (nota un vecchio cronista che "per una ignobilità troppo vergognosa" si lasciano cadere in rovina gli antichi edifici e che in occasione della solenne entrata a Milano di Filippo II, quando fu demolita, fra l'altro, l'antichissima chiesa di S. Tecla, corse gran pericolo di essere gettata a terra "quella bellissima anticaglia" delle colonne di S. Lorenzo: "il che era un troppo errore, anzi fallo mortale"); ma assunse proporzioni grandiose tra la fine del sec. XVIII e gl'inizî del XX, in corrispondenza del mirabile cammino ascensionale della città, cui tuttora assistiamo.
Un primo organico piano regolatore fu studiato nel 1817 per incarico di Napoleone da Albertolli, L. Cagnola, L. Canonica, Landriani, G. Zanoia. Solo il Risorgimento tuttavia segna la data dello sviluppo della citta. Nel 1857 fu iniziata la costruzione della stazione centrale; nel '60 si sistemarono la piazza del Duomo e i quartieri adiacenti demolendo il coperto dei Figini, eretto da Guiniforte Solari nel 1474, e costruendo la galleria Vittorio Emanuele e i grandi palazzi mengoniani; nel 1873 sull'area del Rebecchino sorsero i portici meridionali. Sorgevano più tardi il quartiere di via Principe Umberto, in dipendenza della stazione ferroviaria, e quelli di via Solferino, di Porta Genova, del Lazzaretto, di Porta Tenaglia. Nell' '86 fu deliberata la costruzione di due nuovi quartieri (uno a ponente della stazione Nord, l'altro in prossimità della vecchia piazza d'armi destinata a parco quasi tutta) da collegare al centro mediante l'apertura di una grande arteria (via Dante). Si ampliavano anche a opera dell'architetto Balzaretti i giardini pubblici esistenti disegnati dal Piermarini; si copriva poi il naviglio di S. Girolamo, fra il Castello sforzesco e il corso di Porta Genova, ricavandone le vie Carducci e De Amicis, e tra il '95 e il '96 si faceva sorgere il nuovo quartiere tra corso Sempione e via Canonica. Nel 1912 un nuovo piano regolatore si palesò necessario a integrare quello precedente dell'89. Ciò nonostante, già nell'immediato dopoguerra si prospettava impellente la necessità di disciplinare con giusta ampiezza di criterî lo sviluppo che la città aveva assunto e prometteva di assumere in un futuro immediato, e il problema dell'assestamento urbanistico di Milano (assai complesso dato il carattere della città a struttura radiale con forte accentramento attorno al duomo) fu affrontato dal piano regolatore di P. Portaluppi e di M. Semenza, vincitore del concorso nazionale bandito nel 1926.
Studiato dall'ing. C. Albertini nelle sue possibilità di realizzazione, questo piano ha già portato alla demolizione di vecchi quartieri nella zona in cui è sorta la nuova Borsa e la nuova Piazza degli affari, in quella retrostante la via Carlo Alberto e in quella in cui è sorta la trasversale di Corso Littorio fra S. Babila e Piazza della Scala; alla copertura della Fossa interna; alla creazione della Galleria del Corso; alla soppressione dei bastioni; alla demolizione della caserma, a Porta Vittoria, sulla cui area va sorgendo il nuovo Palazzo di giustizia su disegno di M. Piacentini. Il grande sviluppo della città, avvenuto principalmente verso E. e verso N., in zone che hanno già assunto caratteristiche urbane e industriali, e attestato dalla Città degli studî e della Fiera Campionaria, può essere riassunto nelle cifre che seguono che dànno la misura della superficie fabbricata complessiva passata da mq. 6.614.000 nel 1874 a 7.420.000 nel 1884, a 10.047.000 nel 1904, a 12.037.000 nel 1914, a 12.869.000 nel 1924 e che è oggi (1934) di mq. 15.497.000.
Le trasformazioni seguite a così prodigioso incremento, hanno inciso naturalmente sul vecchio nucleo, alterandone profondamente la fisionomia, e hanno segnato la scomparsa non solo di monumenti cospicui, come l'antica Poria Romana e l'annessa bellissima torretta di Luchino Visconti, come la Porta Orientale e le pusterle della Brera del Guercio e dei Fabbri, come il Lazzaretto, il palazzo del Banco mediceo di Michelozzo e il palazzo Medici del Seregni, come le chiese di S. Giovanni in Conca - di cui sta per scomparire anche la superstite facciata - di S. Maria della rosa, di S. Francesco grande - del sec. XIII; la più grande chiesa di Milano dopo il duomo, per la quale Leonardo aveva dipinto la sua Vergine delle rocce -, di S. Maria dei servi, che dava il nome all'attuale corso Vittorio Emanuele, di S. Paolo in Compito, della stupenda S. Maria di Brera, ecc.; ma dello stesso carattere proprio del vecchio centro, con le sue viuzze tortuose, con le sue sostre e le sue cantarane, con gli ampî solenni cortili e i ridenti giardini.
Le nuove norme che presiedono all'attuazione dei piani regolatori, fanno oggi sperare che sia allontanato il pericolo di nuove mutilazioni e che l'eccessiva pressione della zona centrale sia allentata con la creazione di centri satelliti legati fra loro da rapide comunicazioni indipendenti dalla rete delle vie radiali.
Press'a poco parallelo all'ampliamento territoriale della città è lo sviluppo della sua popolazione. Nel sec. IV d. C. Milano passava per la seconda città d'Italia, subito dopo Roma, ma nessun elemento si ha che permetta una valutazione anche approssimativa del numero dei suoi abitanti, che dovette certo raggiungere un massimo in epoca imperiale. Prostrata come la più parte delle città italiane durante la furia delle invasioni barbariche, tornò, dopo il sec. XI, a essere il centro più popoloso non pure della Lombardia, ma fors'anco d'Italia, toccando probabilmente i 100 mila abitanti ai primi del Trecento, e contandone oltre 120 mila alla fine del secolo XV, epoca di gran fiore. Durante la lunga dominazione spagnola la popolazione decrebbe, sia per la depressione economica generale, sia per le due memorabili pestilenze del 1574 e del 1630. Nel 1714 Milano contava 115 mila ab. (coi 12 mila dei sobborghi), ma di lì a cento anni la popolazione era cresciuta solo di 37 mila anime. Nel 1859 gli abitanti erano 240 mila; da allora in poi crescono rapidamente: oltre 300 mila ab. nel 1880, quasi 500 mila al principio del secolo, 600 mila nel 1911, 992.036 secondo l'ultimo censimento (1931) e oltre 1 milione al 31 dicembre del 1932. Il ritmo è assai più accelerato che pel resto dell'Italia (facendo uguale a 100 la popolazione del 1861 si hanno come numeri indici dell'accrescimento rispettivamente 408 e 187), anche tenendo conto dell'apporto di abitanti dovuto alle aggregazioni dei comuni viciniori; ma è dovuto in misura molto maggiore all'eccedenza degl'immigrati sugli emigrati, che non a quella dei nati sui morti.
L'indice di natalità è infatti a Milano assai più basso che nel complesso del regno: dal 1882, che può essere preso come punto di partenza del rapido sviluppo della città, è disceso dal 33,3‰ al 15,5‰ nel 1931 (24,9 nel regno), toccando nel 1918 il minimo di 11,5‰. Oscillazioni varie, ma non continue, né parallele a quelle delle nascite, ha subito l'indice di nuzialità, che nel periodo prebellico si manteneva fra 6 e 8‰ e tale è tornato a essere negli ultimi anni (8,1‰ nel 1930; 6,9‰ nel 1932, press'a poco come nel complesso del regno) dopo la parentesi dell'immediato dopo-guerra. Notevole come nelle nascite, invece, la diminuzione nel numero dei decessi: l'indice relativo è sceso dal 37,8‰ del 1878 al 28‰ nel 1896, al 20‰ nel 1914, al 12,3‰ nel 1924, all'11,8% nel 1931. La diminuzione è in questo caso assai più forte che nel complesso del regno (dal 29,2 al 14,7‰ nel periodo 1878-1931), ed è dovuta per buona parte alle molto migliori condizioni igieniche determinate in tutta l'area urbana dalle severe norme emanate dalle autorità municipali. Alcune delle malattie una volta molto diffuse (come le febbri intermittenti, la gastro-enterite, la scrofola e la rachitide) entrano con percentuali minime, o comunque assai ridotte, fra le cause di morte.
L'eccedenza dei nati sui morti che tra il 1895 ed il 1912 si aggirava sul 5‰, discese così, nel dopoguerra, a cifre minime (0,42‰ nel 1924; −1,19‰, valore negativo, nel 1925), mentre quella degl'immigrati sugli emigrati andò crescendo rapidamente dal 1890 in poi. Nel quinquennio 1911-15 si ebbe un saldo attivo di 14 mila persone in media all'anno; nel periodo postbellico i valori oscillarono d'assai (7 mila nel 1924, 12 mila nel 1925), ma nel 1932 si è tornati a una eccedenza di ben 16.937 persone, mentre l'incremento naturale si è ridotto a 3337. La proporzione degl'immigrati nati nella provincia di Milano è andata via via diminuendo (34% nel 1903, 22,3% nel 1912, 18% nel 1921, 17% nel 1932); per contro è andata aumentando quella dei nati in altre provincie del regno, che dal 58% nel 1903 è passata al 70% nel 1932.
L'addensamento della popolazione e il suo accrescimento nell'ultimo ventennio presentano naturalmente diversità notevoli da zona a zona della città. L'antico nucleo urbano delimitato dalla fossa dei navigli, che segna già un debole aumento (6,3%) nel numero dei suoi abitanti fra il 1911 e il 1921, mostra, dal 1921 al 1931, una diminuzione della popolazione presente: segno che è già avanzata, se non compiuta, la sua trasformazione in centro di affari, con conseguente spostamento delle famiglie verso la periferia. Lo stesso fenomeno si verifica, in proporzioni diverse, nel settore compreso fra i navigli e le mura spagnole, dove lo spostamento delle famiglie, reso necessario dagli sventramenti e dalle demolizioni imposte dal piano regolatore, è stato facilitato dallo sviluppo delle comunicazioni urbane (aumento del 10,5% fra il 1911 e il 1921, poi diminuzione). In queste due zone la densità della popolazione attinge valori oscillanti da 18.500 a 43.900 ab. per kmq. (Parigi: 36.400 entro la cintura dei forti). Notevoli sono i valori anche nel più vasto spazio fra i bastioni e i confini del vecchio comune, ma con notevoli oscillazioni fra la parte settentrionale e orientale (18.400 e 32.500 ab.), e quella occidentale (11.200). L'aumento è qui stato più rapido e cospicuo, fino a quadruplicare, localmente, le cifre del 1911. Lo sviluppo ha proceduto seguendo le radiali di maggior traffico, e, successivamente, le aree interposte; e così del pari, fra i comuni aggregati i più cresciuti appaiono quelli più vicini al nucleo cittadino (Musocco, Greco, Lambrate) e posti sulle radiali stesse, e in modo speciale quelli a E. e a N. del vecchio centro.
Industria e commercio. - Oltre la metà della popolazione maschile e oltre un quinto di quella femminile (in età superiore ai 10 anni; 28,7% della popolazione assoluta complessivamente) è a Milano interessata alle industrie, con un totale di addetti (270 mila persone) che supera da solo il numero di quelli censiti nelle più popolose e industri provincie del regno. Le imprese sono distribuite un po' dappertutto nel territorio del comune; v'è nondimeno una certa tendenza delle singole categorie a prevalere in questa o quella zona (le siderurgiche e meccaniche nei comuni aggregati, massime a NE., la tessile nei rioni Magenta, Sempione e Garibaldi, la poligrafica in quello di Monforte, le industrie del cuoio nei due attigui Vigentino e Ticinese, ecc.), pur rimanendo in sostanza lontana la grande industria dal vecchio centro urbano. Quasi tutte le industrie sono rappresentate; alcune (p. es. le poligrafiche), costituiscono da sole poco meno di 1/5 del totale del regno. In complesso l'industria occupa nella provincia 480 mila persone, 1/9 di tutti gli addetti del regno; più della metà della massa è accentrata entro i confini del comune. Per la loro importanza relativa primeggiano di gran lunga le industrie meccaniche e metallurgiche e le tessili (oltre la metà degli addetti); seguono quelle dei trasporti e delle comunicazioni (15%), del legno (6%), delle costruzioni (6%), le chimiche (6%), ecc.
Milano è anche la prima piazza commerciale e il più grande mercato d'Italia. Le cinquecento banche della provincia rappresentano, tra sedi e succursali, un capitale pari alla metà del capitale azionario di tutte le banche del regno. Nella stanza di compensazione di Milano si compensarono nel 1931 operazioni per 307,8 milioni di lire in confronto dei 569,8 assommati in tutta Italia. Lo sviluppo del commercio (la popolazione commerciale è cresciuta del 90,8% fra il 1911 e il 1921; 108 mila addetti al commercio nel censimento industriale del 1927) è stato, anzi, entro i confini del comune, assai maggiore che quello delle industrie (3,5% nello stesso periodo), perché queste tendono, per ragioni economiche e tecniche, a spingersi sempre più lontano dal centro cittadino vero e proprio, dove ingrossa invece la popolazione dedita all'amministrazione di queste aziende. La città di Milano conta da sola il 12% del totale degli addetti al credito, risparmio e assicurazione del regno; cospicue del pari sono le cifre relative al commercio dei generi alimentari (11 mila esercizî con oltre 25 mila addetti), degli esercizî pubblici (oltre 270 alberghi, 220 trattorie e osterie, 2100 caffè e bar, con circa 15 mila addetti), dei filati e tessuti (3600 imprese con 12 mila addetti, ecc.), e in genere degli addetti al commercio al minuto, più diffuso qui che in qualunque altra città d'Italia.
Naturalmente, come questa attività non è soltanto in funzione del centro urbano, così esercita il suo richiamo sulla regione vicina per un raggio più o meno esteso. Intorno a 70-80 mila fra operai e impiegati vengono trasportati quotidianamente in città dalle ferrovie e dalle tramvie vicinali, e all'incirca 20-30 mila vi giungono coi mezzi proprî (per lo più in bicicletta) dai centri vicini; quando si prenda come raggio una distanza massima di 50-60 km. (distanza percorribile in media in un'ora di tempo), si può dire che l'influenza della metropoli si estenda fino a Varese, Como, Bergamo, Crema, Lodi, Pavia e Mortara, si dilati cioè largamente oltre i limiti della stessa provincia di Milano.
La lunghezza delle strade comunali, che era di km. 267 nel 1900, di 351 nel 1910, di 450 nel 1922, è salita nel 1934 a 785 km., mentre la superficie complessiva delle vie, piazze, giardini, ecc., era salita alla stessa data a mq. 15.630.000. Di queste strade il 75% nella zona urbana e il 33% nella suburbana sono sistemate in modo permanente o semipermanente (macadam di pietrisco con catrame e bitume). L'ernorme aumento del traffico, verificatosi specialmente nel dopoguerra e dovuto essenzialmente allo sviluppo degli autoveicoli, ha prodotto nelle arterie cittadine un sempre maggior congestionamento cui contribuisce anche l'intensa circolazione tramviaria, che da 118,9 km. di rete d'esercizio del 1917 è passata a 266,2 nel 1932 (senza contare le linee automobilistiche per 53,3 km.), con un totale di 390 milioni di viaggiatori annui, sì che la costruzione della metropolitana (per la quale il comune ha già chiesto la concessione governativa) s'impone ormai come una delle necessità più impellenti per il regolare sviluppo della vita economica cittadina. Imponenti anche le cifre del traffico ferroviario, servito da tre stazioni (centrale, ticinese o Genova delle Ferrovie dello stato, e stazione Nord-Milano) per i viaggiatori, e cinque per le merci, con un movimento di passeggeri che da 3 milioni in partenza nel 1905 è passato negli ultimi anni a oltre 6 milioni (reddito 160 milioni di lire; dopo il 1930 v'è stata una sensibile contrazione), senza contare le ferrovie vicinali, la più parte delle quali, elettrificate, hanno segnato un continuo aumento nel dopoguerra.
Grande importanza pratica ha per una città come Milano la sistemazione dei canali che convogliano le acque derivanti da fontanili e da navigli e che in linea generale attraversano la città per l'irrigazione delle zone agricole poste a mezzodì del centro abitato. La rete di questi canali, che sono oltre 150, supera i 222 km., per lo più a deflusso sotterraneo, e mette capo all'Olona, con i suoi affluenti Nirone, Pudiga e Mussa, al Seveso e ai due Lambro (meridionale e orientale), che formano i naturali collettori del territorio comunale. Data la scarsa pendenza di questo, che da 125 m. scende appena a 100 a S., la natura del sottosuolo formato da strati di sabbia e di ghiaia con intercalate lenti argillose, la doviziosa e poco profonda falda acquifera, e la scarsità di isolatori naturali, la costruzione della rete delle fognature presentò a Milano particolari difficoltà. Coi suoi 720 km. di sviluppo (140 km. di allacciamenti a 17 mila case su 22 mila, 390 km. di canali praticabili e 65 di grandi collettori) la rete attuale forma un grande complesso di canali completamente coperti, defluenti per lo più alla Vettabbia e destinati a fertilizzare 13 mila ha. di terreni coltivabili fra Milano e Melegnano.
Il grandioso sviluppo avuto dalla città dopo il 1880 e in particolar modo nel periodo che ha tenuto dietro alla guerra mondiale va messo essenzialmente in rapporto con l'importanza che Milano è venuta ad assumere, attesa la sua posizione geografica, in quanto destinata ad assolvere una funzione non più soltanto locale, ma italiana ed europea. Questa posizione ha fatto di Milano il punto d'incrocio delle correnti economiche e culturali di scambio fra l'Italia e l'Europa centrale (con l'apertura della ferrovia del Sempione anche dell'Europa-nord-occidentale), e, si potrebbe dir meglio, tra l'Italia e i paesi tutti, anche transoceanici (Genova), coi quali questi scambî erano pur necessarî al processo di ammodernamento del giovane stato uscito dal travaglio del Risorgimento e, più tardi, dalla prova della guerra mondiale. Lo sviluppo demografico non è se non un riflesso di una trasformazione economica, per la quale al vecchio e ancora angusto centro municipale, caratterizzato anch'esso, come tante altre città italiane, da un suo abito tradizionale, si è sostituita la grande metropoli moderna, incolore, ma capace di accogliere e fondere in sé gli elementi tutti, non più soltanto milanesi o lombardi, necessarî alla sua esistenza. Di qui deriva la sempre più larga partecipazione delle regioni italiane - soprattutto dell'Italia settentrionale (Lombardia, Veneto ed Emilia), ma anche di alcuni compartimenti della meridionale (Puglia) e delle isole - alla multiforme attività del nuovo centro, il cui potere di assorbimento rispecchia fedelmente, nelle sue fluttuazioni, il ritmo dell'economia nazionale.
Bibl.: D. Olivieri, Dizionario di toponomastica lombarda, Milano 1931; A. Colombo, Milano preromana, romana e barbarica, Milano 1927; id., Milano feudale e comunale, Milano 1928; C. Poro, La posizione geografica di Milano, in Milano, Rivista del comune, 1928, n. 4; Milano, Monografia compilata a cura del comune di Milano, Milano 1934; C. Albertini, Lo sviluppo della città di Milano, in Congr. Intern. dell'abitaz. e piani regolatori, Roma 1929, I, pp. 495-509; S. Conio, Il nuovo piano regolatore di Milano, in La cultura moderna, XXXVI (1927), pp. 513-28; S. Conio, Forma urbis Mediolani, Milano 1927; C. Albertini, Il piano regolatore di Milano, Milano 1931; P. Portaluppi e M. Semenza, Milano com'è ora, come sarà, Milano 1927; Il Fascismo a Palazzo Marino 1922-32, Milano 1933; E. Verga, Catalogo ragionato della Raccolta Cartografica del Comune di Milano, Milano 1911.
Giuseppe Caraci
Monumenti e arte
Antichità. - La cerchia originaria della città fu segnata forse da una linea che dalla piazza della Scala per S. Maria Segreta giungeva a piazza Beccaria. E non molti sono i residui della più ampia murazione di Massimiano, che però, con altre testimonianze e indizî, ci permettono di delimitarla in una linea che, partendo da una porta, di cui si sarebbero rinvenute tracce nell'angolo tra via Manzoni e via Monte Napoleone, seguiva le attuali vie Monte Napoleone, Durini, Larga, Maddalena, Disciplini, S. Vito, Cappuccio, S. Giovanni sul Muro, Cusani, Orso, Monte di Pietà, Croce rossa. Porte principali e minori si aprivano in essa e le principali erano: quella su ricordata in rispondenza alla Porta Nuova (via alla Venezia) e, al capo opposto, nei pressi del Carrobbio, la Porta Ticinese (via a Pavia e alla Liguria); la terza, la Porta Giovia, un po' a occidente del Castello Sforzesco (cui era accanto la Porta Vercellina, via al Piemonte) e, al capo opposto, la Porta Romana, al principio dell'attuale Corso Roma (via a Roma). Strade principali e secondarie correvano dall'una all'altra di queste porte in opposte direzioni e le principali s'incrociavano in un centro non lontano da quello attuale della città. Fuori le porte erano, lungo le vie, i sepolcreti: fuori di Porta Nuova quello detto del Bettolino ai giardini pubblici (sec. I d. C.), fuori Porta Ticinese quello della Vetra (sec. II-III d. C.), fuori Porta Giovia quello del viale Schiller al parco (sec. I d. C.), fuori Porta Romana quello di S. Antonino (gallico e del sec. I d. C.). Molti e sontuosi i monumenti che arricchivano la città dentro e fuori questa cerchia (Ausonio, Clar. urb., 5), ma pochi quelli di cui si hanno tracce sicure. Tra questi le grandiose 16 colonne corinzie che precedono il sagrato della chiesa di S. Lorenzo appartenute a una terma ivi esistente, o ivi trasportate da un tempio perittero e da altro luogo; il teatro che, dai ruderi trovati sotto l'attuale palazzo della Borsa, poté esser capace di 9000 spettatori e, da qualche capitello rinvenuto nell'area, potrebbe anche risalire ad epoca repubblicana; l'anfiteatro, tra le vie Olocati, Arena e De Amicis di m. 150 × 120. Di altri monumenti ci restano indicazioni toponomastiche: del circo la via S. Maria al circo, della Zecca la via Moneta, del Palatium imperiale la chiesa di S. Giorgio al palazzo, di un antico crocevia la chiesa di S. Paolo in compito (oggi via S. Paolo), e di altri, indizî meno precisabili.
Medioevo. - Circa quattrocento anni dovevano passare prima che le mura di Massimiano, abbattute dai Goti di Vitige nel terribile sacco del 539, fossero restaurate dall'arcivescovo Ansperto da Biassono che ne ampliò anche in parte il perimetro fino al corso del Nirone, includendo in esse il Monastero maggiore e il suo brolio e allacciandole probabilmente a un'antica costruzione romana. Di questa costruzione è traccia, forse, in una torre rotonda già ritenuta avanzo delle stesse mura anspertiane, e, certo, nella parte inferiore della prossima torre quadrata della chiesa di S. Maurizio, nonché in scarsi frammenti di decorazione marmorea, ora al Museo del Castello, venuti in luce durante scavi occasionali in via Bernardino Luini.
Arresasi la città al Barbarossa (1162), anche queste mura furono distrutte; ma i Milanesi ricostruivano dopo non molti anni una nuova e più ampia cerchia di difese (un terrapieno: il terraggio) di qua da un fossato (la Fossa interna, come si chiamò quando fu chiusa nella più ampia cerchia dei bastioni spagnoli) nel quale furono immesse le acque dell'Olona e del Nirone che col Seveso e il Lambro alimentavano fino da allora i canali e le rogge di cui la città era ricca.
Dell'importanza artistica di Milano in questo periodo si è già detto in lombardia: Arte. Ivi si è anche accennato alle principali testimonianze pittoriche dei bassi tempi, dal musaico di San Vittore in Ciel d'Oro, ora annesso alla basilica ambrosiana, all'altro musaico di Sant'Aquilino presso San Lorenzo e, per ciò che si riferisce all'architettura, ivi già si è cercato di chiarire la struttura della primitiva basilica costruita da S. Ambrogio (sec. IV) su un'antica area cimiteriale detta hortus Philippi, e di stabilire le affinità che San Lorenzo (sec. VI) presenta con la costruzione coeva di San Vitale di Ravenna.
Il periodo dell'alto Medioevo se ha lasciato soltanto scarsi e incerti documenti nella pittura e nelle suppellettili sacre, di cui le più famose difficilmente potrebbero essere rivendicate all'arte milanese o lombarda, è invece contrassegnato da un intenso fervore d'architettura per opera dei "maestri comacini" e dei loro continuatori. La parte absidale di Sant'Ambrogio si può attribuire al sec. VIII e circa alla meta del IX la simigliante abside di San Vincenzo in Prato. Il sacello di San Satiro (sec. IX), le chiese di Sant'Eustorgio, San Babila, San Celso, ci conducono alla soglia dell'età romanica, a quando cioè con ardore improvviso si restaurano e si ampliano i templi esistenti e altri grandiosi si fanno sorgere. Allora, accanto a Sant'Ambrogio, rifabbricato intorno alla seconda metà del sec. XI, sorgono in Milano le chiese di San Sepolcro, San Nazaro Maggiore, San Simpliciano, ecc., edifici in cui tutti gli elementi architettonici esprimono rudemente la loro funzione statica. Tuttavia, questa ricerca di rendere in ogni particolare architettonico il peso, la massa della materia costruttiva e lo sforzo del suo reggersi in equilibrio, è quasi sempre negli edifici lombardi abilmente dissimulata dai vivi colori del materiale laterizio e dalla leggiadria dei motivi ornamentali in cotto.
Accanto all'architettura religiosa fiorisce in Milano nel periodo romanico quella civile. Gli archi di Porta Nuova (l'unica superstite delle sei - Renza, Nuova, Romana, Ticinese, Comasina, Vercellina - che allora tagliavano, oltre le minori pusterle, la cerchia delle mura) testimoniano delle audaci affermazioni del comune nelle lotte contro il Barbarossa e le città a lui alleatesi. Si vogliono costruiti tra il 1156 e il 1158, e poi rifabbricati nella forma attuale - mancano tuttavia le due torri laterali - nel 1171. Sappiamo anche che al principio del sec. XII si costruì un edificio per il podestà e un altro nel Broletto nuovo. Quello per le pubbliche adunanze, eretto nel 1223, tuttora esistente in via Mercanti, nella sua ossatura e distribuzione richiama l'altro di Monza. Dieci anni dopo si murava sulla sua facciata sud l'altorilievo equestre rappresentante il podestà Oldrado da Tresseno, opera attribuita con buon fondamento da A. Venturi al più grande scultore romanico dell'Italia settentrionale: Benedetto Antelami. Al pari di questo edificio, anche altri romanici di cui non rimane che il ricordo ebbero un'importante decorazione plastica, frammenti della quale sono ora conservati nel Museo del Castello.
I rilievi che ornavano l'antica Porta Romana, demolita alla fine del sec. XVIII, ora nel Museo del Castello, mostrano i Milanesi che, uscendo dalle città amiche di Bergamo, Brescia, Cremona, ritornano in patria. Vogliono pure esaltare S. Ambrogio che caccia gli Ariani, mentre nello stesso gruppo la figura del Barbarossa, in altorilievo, contro cui si volge un drago dalle fauci aperte, eterna l'obbrobrio dell'insidiatore della libertà cittadina.
Anche il Trecento, che doveva ridare alla città una vera cerchia di mura fatte ricostruire da Azzone Visconti al posto dei terraggi con materiale tratto dalle mura massimianee e da altri edifici romani (non ne resta che la Porta Ticinese, deturpata da un improvvido restauro), lascia nell'arte milanese tracce importanti e diffuse. Si ricostruiscono o completano Sant'Eustorgio, San Simpliciano, San Marco; si elevano i campanili di Sant'Antonio e di San Gottardo. Esempio cospicuo di architettura civile trecentesca è la loggia degli Osii, eretta da Matteo Visconti nel 1316 sull'area della casa degli Osii, a loggiati sovrapposti, preziosamente decorata a marmi bianchi e neri, col suo leggiadro poggiolo, dal quale si bandivano gli editti del comune.
La scultura in questo periodo è quasi completamente dominata dallo stile pisano, e Giovanni di Balduccio ne è il maggiore rappresentante. Quest'artista, che già si trovava a Milano per ornare il palazzo di Azzone Visconti, per il quale decorò di rilievi anche le porte delle nuove mura, ebbe incarico nel 1339 dall'arcivescovo Giovanni Visconti di erigere in Sant'Eustorgio il monumento a Pietro da Verona, gloria dell'ordine domenicano, ucciso proditoriamente presso Barlassina, fra Milano e Como, nel 1252. La grande arca, decorata a bassorilievi e sorretta da pilastri con statue, rimase a modello della scultura trecentesca milanese, come sí può desumere da forme affini che si riscontrano in altri monumentí della chiesa di San Marco e del Museo del Castello.
L'influenza pisana non vale tuttavia a menomare del tutto l'opera dei maestri "campionesi" - rappresentanti indigeni della scultura lombarda - della cui operosità testimonia il grandioso monumento equestre di Bernabò Visconti, già nella chiesa di S. Giovanni in Conca e ora ricostruito nel Museo del Castello, validamente ascritto a Bonino da Campione.
Degli scarsi documenti della pittura di questo secolo a Milano, basterà ricordare gli affreschi bizantineggianti della torre rotonda del Monastero Maggiore.
Intanto il Duomo sorgeva nel centro della città, iniziato nel 1386 per volere di Gian Galeazzo Visconti, e la necessità di trasportare nel punto più vicino alla fabbrica i marmi giunti dal Verbano per il Naviglio grande al Laghetto vecchio (oggi darsena di Porta Ticinese), e quindi di collegare il Laghetto vecchio all'altro allora esistente presso S. Stefano in Brolo ricordato ancora nel nome di una via (Poslaghetto), diede origine al sistema delle chiuse - le conche - che perfezionate più tardi da Leonardo dovevano rendere navigabile l'intera cerchia dei navigli. Chi precisamente sia stato il primo architetto del duomo non sappiamo; fra i numerosi nomi che ricorrono nei libri della Fabbrica, gli architetti italiani si alternano con quelli stranieri, e non è sempre possibile precisare l'opera degli uni e quella degli altri. Fra gl'italiani sono Andrea degli Organi da Modena, Filippino suo figlio, Guglielmo di Marco, Simone da Orsenigo, Marco Frisone campionese, Giacomo di Giovanni Buono, ecc.; fra i tedeschi appaiono Giovanni di Fernach, Enrico di Arler di Gmünd, Ulrico di Füssingen; tra i francesi Giovanni Mignot dì Parigi. Il duomo di Milano per questa collaborazione di artisti stranieri risulta il monumento nostro che più strettamente s'ispira alle costruzioni gotiche d'oltralpe. Soprattutto la parte absidale, la prima che fu costruita, coi suoi amplissimi finestroni, è quella che porta più diretta l'impronta nordica. Il verticalismo in questa parte trionfa in pieno. Ma il nucleo principale di architetti che lavorò a quest'opera grandiosa, ancor oggi incompiuta, è da cercare nel gruppo dei maestri detti "campionesi", dalla piccola terra d'origine, sul lago di Lugano.
L'interno del duomo, a cinque navate, è immerso in una mistica penombra, mentre molto mitigato è l'effetto ascensionale degli elementi architettonici, dal fatto che la navata mediana è di poco sopraelevata sulle minori. La costruzione della facciata, iniziata nel sec. XVII su progetto di C. Buzzi, si è protratta fino ai nostri giorni. Sopra l'incrocio dei bracci si eleva altissimo il tiburio sormontato da una guglia ardita. Notevole è la decorazione schiettamente gotica in ogni sua parte: una quantità enorme di statue, sopra le guglie, nelle insenature dei pilastri, appoggiate a mensole, o sporgentisi con doccioni, popola e anima l'imponente costruzione. Gli ultimi prodotti della scultura milanese trecentesca si riallacciano infatti alla costruzione del Duomo. In mezzo a maestranze venute d'oltralpe e d'ogni parte d'Italia - semplici tagliapietra o esperti intagliatori in marmo - eccelle la figura di Giovannino de' Grassi, che dal 1391 al 1396 eseguisce il sopraornato del lavabo della sagrestia meridionale, ove si affermano le ultime forme del gotico fiorito. Dire delle vicende di questo grande tempio nei secoli che seguirono ci porterebbe troppo oltre. Durante il Quattrocento, tra gli artisti chiamati dalla Fabbrica troviamo i Solari, il Filarete, il Cesariano, l'Amadeo, lo Zenale e, maggiore di ogni altro, Leonardo da Vinci. La facciata attuale fu eseguita per decreto di Napoleone da C. Amati, assistito da G. Zanoia.
Rinascimento.- L'architettura del Rinascimento si afferma in Milano con due opere grandiose, per quanto molto diverse fra loro: la ricostruzione del Castello Visconteo e la costruzione dell'Ospedale Maggiore. Ambedue furono volute da Francesco Sforza, quando prese il governo dopo il breve periodo della Repubblica Ambrosiana. Il primo architetto del Castello fu un Giovanni da Milano, cui successero fra gli altri Iacopo da Cortona, e Antonio Averulino detto il Filarete cui spettò il compito di decorare la fronte dell'edificio verso la città e d'innalzare la torre sulla porta principale d'accesso. Troppo note sono le vicende del Castello: dopo un periodo di splendore al tempo di Ludovico il Moro, anche per questo monumento s'iniziò la decadenza e quasi la rovina completa, scongiurata ai nostri giorni dal ripristino dell'architetto Luca Beltrami. Maggior contributo portò l'architettura toscana per la conversione del gusto lombardo con la costruzione dell'Ospedale Maggiore - il primo ospedale laico che sia sorto al mondo - iniziato nel 1457 dal Filarete e continuato da Guiniforte Solari a partire dal 1465; ma fu specialmente Michelozzo a introdurre a Milano, col palazzo del Banco Mediceo, ora distrutto, e con la cappella Portinari presso Sant'Eustorgio, più pure forme di Rinascimento toscano. Quest'ultimo monumento, infatti, nelle sue forme strutturali si richiama strettamente alla cappella Pazzi di Firenze. L'apporto toscano non valse però a menomare l'attività costruttiva della nuova scuola locale, rappresentata specialmente dalla famiglia dei Solari, da Giovanni Antonio Amadeo, da Bartolomeo Suardi detto il Bramantino, da Gian Giacomo Dolcebuono, di cui ci rimane la nobile chiesa di S. Maurizio o del Monastero Maggiore, ecc. Molti di questi maestri, almeno nell'ultima fase della loro attività, rientrano, come l'architetto della cascina Pozzobonelli un cui frammento si ammira tuttora nei pressi della nuova stazione, nell'orbita del Bramante, che giunse in Milano verso il 1749, e qui, come più tardi in Roma, rinnovò completamente l'arte costruttiva locale. Per le opere sue in Milano, dalla sagrestia di San Satiro alla cupola di Santa Maria delle Grazie, v. bramante.
La scultura del Quattrocento in Milano è sugl'inizî quasi unicamente accentrata nei lavori per il duomo. Oltre al già ricordato Giovannino de' Grassi, vi incontriamo Iacopino da Tradate, cui si deve la bella statua di papa Martino V, Matteo Raverti, ecc. Sullo scorcio del secolo tengono il campo Giovanni Antonio Amadeo, i Cazzaniga, Andrea Fusina, il Caradosso, i Mantegazza, il Bambaja, l'opera dei quali, però, più che in Milano, ha lasciato notevoli testimonianze nella Certosa di Pavia.
La pittura del Quattrocento, dopo un periodo goticizzante e naturalistico, contrassegnato dai noti affreschi di palazzo Borromeo, afferma il suo rinnovamento con Vincenzo Foppa (1427-circa 1516), di cui sono evidenti gli addentellati con la scuola padovana. Nel ciclo delle storie di S. Pietro Martire in Sant'Eustorgio e più ancora in numerose tavole della Vergine costruite con pura plastica chiaroscurale, questo maestro dà la misura dell'arte sua squisitamente lombarda. Il plasticismo del Foppa, divenuto rude e violento in Bernardino Butinone, torna a placarsi con Bernardino Zenale, che con lui collaborò agli affreschi di S. Ambrogio nella cappella Griffi in San Pietro in Gessate. Mentre Ambrogio da Fossano, detto il Bergognone, rimane il solitario interprete di una religiosità umile e mistica, il Bramante segna anche nella pittura l'orma della monumentalità che gli è peculiare (v. lombardia: Arte).
Le arti minori ebbero nel Rinascimento splendido sviluppo in Milano, in specie sotto il raffinato mecenatismo di Ludovico il Moro. Nella miniatura tengono il campo frate Antonio da Monza e Cristoforo de Predis; nell'incisione in pietre dure Domenico "dei Camci"; nell'oreficeria il Caradosso, Matteo da Civate, ecc. Abbiamo inoltre notizie abbondanti sulla fioritura che in Milano ebbero l'arte delle stoffe seriche del ricamo, dell'arazzo, dell'intaglio in legno e della tarsia, nonché quella floridissima delle armature fabbricate dalle famose officine dei Missaglia.
Per l'opera di Leonardo in Milano, ove giunse verso il 1483, v. leonardo. Si può affermare che la storia della fortuna di Leonardo in Lombardia sia la storia stessa della pittura lombarda nei primi decennî del Cinquecento, perché quasi nessuno degli artisti di questa regione seppe emanciparsi del tutto dall'orbita leonardesca. Uno dei più vecchi pittori, tra quelli che con qualche libertà subirono il fascino di Leonardo, è Andrea Solario, la cui attività si svolse solo in parte a Milano. A Leonardo attinse anche Bartolomeo Suardi, detto il Bramantino, ma senza per questo sacrificare in nulla la propria personalità, e lo stesso si può dire del Luini, del Sodoma, di Gaudenzio Ferrari. Ma accanto questi maestri relativamente indipendenti da Leonardo, vi è la schiera dei suoi diretti discepoli, mediocre schiera che dalla comunanza col maestro non seppe trarre impulso alla creazione individuale: Bernardino de' Conti, Giampietrino, Cesare Magni, Marco d'Oggiono, Francesco Melzi, Andrea Salai, ecc. In essa si distinguono però le personalità di Ambrogio de Predis, che fu valente ritrattista, di Giovanni Antonio Boltraffio, che in alcune opere dimostra una raffinata sensibilità del colore, di Cesare da Sesto, che da Leonardo apprese a velare le figure, in delicate penombre. Essi ci conducono alla soglia del "manierismo", di cui a Milano sono genuini rappresentanti Paolo Lomazzo e Ambrogio Figino.
La scultura del Cinquecento, dopo i maestri sopra ricordati che lavorarono specialmente alla Certosa di Pavia, non ha lasciato in Milano nessun documento veramente importante. Essa assume come per tutto un aspetto classicheggiante, finché Annibale Fontana con i suoi lavori a Santa Maria presso San Celso segna il trapasso a una tendenza pittorica che preannuncia il barocco.
A Milano - chiusa nel sec. XVI da Ferrante Gonzaga in una più ampia cerchia di mura (i bastioni) - l'architettura trova i suoi maggiori rappresentanti nel pratese Domenico Guintallodi - cui si deve la bellissima Simonetta, in un abbandono, oggi, che prelude alla sua totale rovina e soprattutto nel perugino Galeazzo Alessi e in Pellegrino Tibaldi detto il Pellegrini, lombardo di origine e bolognese d'adozione. All'Alessi si deve la facciata eminentemente decorativa di Santa Maria presso San Celso e la costruzione di palazzo Marino; al Pellegrini varî lavori nell'interno del duomo nonché il progetto per la sua facciata, eseguito poi nella parte inferiore dal Richini. Altre opere significative del Tibaldi in Milano sono il ricco cortile del palazzo dell'Arcivescovado, l'imponente costruzione a pianta circolare della chiesa di San Sebastiano, la chiesa a sala di San Protaso, purtroppo demolita ai nostri giorni, la facciata di San Raffaele e soprattutto il San Fedele. Quando il Pellegrini fu chiamato a lavorare in Spagna, dominò nell'architettura milanese il suo rivale Martino Bassi: questi continuò l'opera dell'Alessi nella chiesa di Santa Maria presso San Celso e quella del Tibaldi stesso in San Fedele. Ebbe poi il compito di trasformare il bizantino edificio di San Lorenzo. La scuola milanese del tardo Rinascimento si completa con Vincenzo Seregni, autore della chiesa di Sant'Angelo, del palazzo Medici, oggi distrutto, e del palazzo dei Giureconsulti, e con Giuseppe Meda, cui si deve il cortile del seminario arcivescovile, composto di una doppia architravata.
Il Sei e Settecento. - Milano predomina in Lombardia come notevole centro d'architettura barocca; essa mantiene però sempre una tendenza all'antica gravità e di rado si abbandona ad arditezze decorative. I due maestri che la dominano in questo periodo sono Fabio Mangone (morto nel 1629) e Francesco Maria Richini (1583-1658). Il primo, che fu architetto del cardinale Federico Borromeo, eresse il palazzo dell'Ambrosiana e, oltre a lavori minori, eseguì il nobilissimo palazzo del Senato, o Collegio elvetico, dalla bella facciata curva, di aspetto accogliente. Il Richini manifesta la sua predilezione per le tradizionali linee cinquecentesche nella chiesa di San Giuseppe e in numerosi palazzi signorili (Annoni, Durini, Arese, Cicogna, ecc.) ove domina il gusto per un'eleganza sobria e solenne: essa trionfa in pieno nel capolavoro suo, il cortile del palazzo di Brera, monumentale nelle proporzioni e ricco di effetti prospettici. Contrastano con questo indirizzo due chiese milanesi prettamente barocche: Sant'Alessandro, opera di Lorenzo Binago, e Santa Maria della Passione del Rosnati, ancor più bizzarramente frastagliata e mossa con intenti decorativi.
La scultura barocca si accentra in Milano nei lavori di decorazione per il duomo, ma non vanta alcuna personalità che possa neanche lontanamente competere con gli esponenti della scuola coeva romana.
La nuova scuola pittorica milanese, che ha ben altro valore di quella plastica, si forma ai primordî del Seicento sotto l'egida dell'Accademia fondata dal card. Federico Borromeo con importazioni d'artisti non soltanto dalle provincie lombarde, ma anche dall'Emilia e dal Piemonte. Ad essa appartengono, oltre a varî minori, Giovanni Battista Crespi detto il Cerano, i fratelli Procaccini, Francesco Mazzucchelli detto il Morazzone, Francesco del Cairo, Daniele Crespi, Carlo Francesco Nuvolone, ecc. Gli edifici religiosi di Milano sono pieni delle tele di questi maestri, alcuni dei quali ebbero rara virtuosità. L'architettura del Settecento lascia un'orma in Milano con i palazzi Cusani e Litta, opera di Antonio Maria Ruggeri, mentre la scultura continua in questo secolo i suoi compiti decorativi nel duomo, che deve al Settecento la maggior parte delle sue statue. Intanto la pittura si afferma vigorosa con Alessandro Magnasco (1677-1749), genovese di nascita e milanese di adozione, che nella produzione sua, molteplice e varia, appare sempre mosso da profonde virtù fantastiche. Ma di lui e di altri maestri che lavorano nel Settecento in Milano abbiamo già detto altrove (cfr. lombardia: Arte).
Periodo neoclassico. - L'architettura neoclassica, coincidendo con quel fervore di costruzioni efficacemente descritto dal milanese Stendhal, conferisce la sua caratteristica fisionomia a Milano dove trova organico sviluppo e lascia documenti di tre successivi periodi. Il primo, contrassegnato dal ritorno al classicismo cinquecentesco e specialmente al Palladio, trova il suo esponente in Giuseppe Piermarini, che deriva dal suo maestro Vanvitelli le tendenze riformatrici. I suoi lavori al Palazzo reale gli apersero l'insegnamento all'Accademia di Brera, dove egli creò con l'Albertolli, il Franchi, il Knoller, il Traballesi un focolare d'arte e di decorazione neoclassiche. Sono opere sue la Villa reale di Monza, il teatro alla Scala e il palazzo Belgioioso, un capolavoro di buon gusto. Il Piermarini formò due allievi: Leopoldo Pollak e Simone Cantoni. Al primo si deve la Villa reale di Milano, dalla bella fronte sul giardino, mentre il secondo dimostrò la sua genialità costruttiva nel palazzo Serbelloni, dalla maestosa facciata. Questo stesso spirito anima, con tanti edifici la cui enumerazione ci porterebbe troppo lontano, il palazzo Rocca-Saporiti costruito su disegno del pittore G. Perego. Il formalismo del secondo periodo neoclassico è rappresentato da Luigi Cagnola, autore dell'Arco della Pace, e da Luigi Canonica, di cui l'opera più famosa è l'Arena. Né sarebbe giusto dimenticare Carlo Amati, che con la chiesa di San Carlo ha dato un tipico modello di edificio sacro neoclassico. Nel terzo periodo che corrisponde alla Restaurazione, l'architettura abbandona il severo stilismo imperiale e torna alla schietta e festosa interpretazione dell'arte palladiana.
A differenza dell'architettura, la scultura neoclassica milanese non lasciò orme importanti: artisti quali Giuseppe Franchi, Camillo Pacetti, Abbondio Sangiorgio, Pompeo Marchesi sono oggi figure non troppo ingiustamente dimenticate.
Nella pittura neoclassica è caposcuola in Milano Andrea Appiani (1754-1817), che nei fregi di Palazzo reale fu chiamato ad esaltare le epiche gesta napoleoniche. Oggi più si apprezza l'opera sua di ritrattista. Accanto a lui deve essere ricordato Giuseppe Bossi, di cui l'ingegno appare plasmato rigorosamente dalla molta dottrina.
L'Ottocento. - In questo secolo primeggia in Milano nel campo dell'architettura Giuseppe Mengoni, che è autore della Galleria Vittorio Emanuele II, uno dei pochi edifici del tempo che rechi carattere di modernità e additi nel costruttore uno studio delle nuove strutture in ferro. La tradizione romana e gotica informa, invece, in Milano le opere di Carlo Macciacchini (Cimitero monumentale), mentre al Rinascimento e al barocco chiese ispirazione Luca Beltrami.
La scultura milanese ottocentesca si raccomanda alle opere di Giuseppe Grandi (monumento alle Cinque Giornate; statua del Beccaria), di Luigi Secchi (monumento al Parini), di Francesco Barzaghi (monumento a Napoleone III). L'estrema evoluzione della scultura pittorica è segnata sul finire del secolo da Medardo Rosso, che nella cera specialmente seppe trasfondere l'improvvisa vibrazione del suo animo di fronte al vero. Altre fonti d'ispirazione addita l'opera di Adolfo Wildt, anima ansiosa di trascendente armonia.
Il movimento pittorico-romantico italiano ebbe il suo centro in Milano e il suo caposcuola in Francesco Hayez (1791-1882). Alle composizioni di storia di quest'artista, il nostro gusto mutato non può più consentire, ma la galleria dei suoi ritratti rimane, invece, fra le migliori creazioni dell'Ottocento italiano. A capo del secondo Romanticismo lombardo, cui appartengono i fratelli Domenico e Gerolamo Induno, sta Giovanni Carnevali detto il Piccio (1806-1873); questi ci conduce direttamente a Ranzoni, a Cremona, a Mosè Bianchi, a Cesare Tallone, a Emilio Gola, alla loro pittura impressionistica basata sul valore dell'ombra e della penombra, la quale vuol rendere per via di luce e di colore il fascino della mutabilità inafferrabile. Chiudono l'Ottocento pittorico i maestri del "divisionismo": Gaetano Previati, la cui arte approda talora al più etereo misticismo, Giovanni Segantini, che nelle sue grandi sinfonie alpine seppe armonizzare il pensiero soggettivo con la realtà esteriore, Vittore Grubicy, ecc.
Periodo attuale. - Del periodo attuale non è ancora possibile tessere la storia, ma si può dire che è periodo d'intenso fervore. Mentre la scultura e la pittura, attraverso tentativi e deviazioni, cercano faticosamente nuove espressioni più adeguate al nostro sentire, assistiamo nell'architettura a un completo rinnovamento del volto della città, destinata ad acquistare vieppiù l'aspetto di una grande metropoli. La prima manifestazione di quel rinnovamento dell'architettura che aveva trovato qui nel futurista Sant'Elia un precursore, fu la casa di Via Principe Umberto (1922) dell'ingegnere Barelli e degli architetti Colonnese e Giovanni Muzio, che rinunciano alla costruzione decorativa ottocentesca per affermare la monumentalità geometrica delle masse architettoniche. Un tema che diede luogo a una gara di artisti e a un vivo contrasto di tendenze fu quello del monumento ai Caduti. Vinse il concetto di un edificio austeramente decorativo che dà forma moderna al tipo tradizionale dell'edificio a pianta centrale: esso è opera di collaborazione degli architetti Alpago-Novello, Buzzi, Cabiati, Muzio e Ponti.
Lì accanto vediamo risolto genialmente, per opera dell'architetto Muzio, un difficile problema: l'innesto di un nuovo fabbricato sugli edifici bramanteschi di Sant'Ambrogio, sede dell'università cattolica. A questa corrente temperata di modernismo seguono in questi ultimi anni le prime affermazioni del razionalismo, non solo in costruzioni isolate, ma in quartieri. Tipiche le case costruite dagli architetti Ponti e Lancia in Via De Togni e in Via Monterosa, e quelle più fantastiche che razionali dell'architetto Andreani in Via Mozart. Interpretazione razionalista del tipo di edificio pubblico è il palazzo dei Sindacati in Corso Vittoria, opera dell'ing. Caneva. A queste ardite affermazioni contrasta il tradizionalismo decorativo della stazione centrale, progettata però nel 1905; una via di mezzo tra vecchio e nuovo tiene, con molti altri edifici di cui è inutile parlare, il nuovo palazzo degli uffici comunali, in Via Larga.
La sintesi dello svolgimento artistico contemporaneo è imperniata nelle manifestazioni della Triennale del 1933. Il palazzo dell'Esposizione costruito da Giovanni Muzio afferma ancora una volta il valore dell'equilibrio classico del movimento attuale italiano. La costruzione acquista anche nuovo interesse per la monumentalità della pittura chiamata dopo secoli a creare con l'affresco valori architettonici. Fra i pittori milanesi di nascita o di adozione chiamati ad affrontare l'ardua prova, basterà qui citare: C. Carrà, A. Funi, M. Sironi. La scultura è rappresentata da L. Lodi, M. Marini, A. Martini (l'uno toscano, l'altro veneto; ma residenti entrambi a Milano), I. Soli, ecc. (V. tavv. LXIII-LXXXII).
Bibl.: Oltre quella citata in lombardia: P. Morigia, Historia dell'antichità di Milano divisa in quattro libri, Venezia 1592; id., La nobiltà di Milano, Milano 1615; A. Santagostino, Catalogo delle pitture insigni che stanno esposte al pubblico nella città di Milano, Milano 1671; C. Torre, Il ritratto di Milano diviso in tre libri, Milano 1674 e 1714; S. Lattuada, Descrizione di M., voll. 5, Milano 1737; N. Sormani, Giornata prima, seconda, terza de' passeggi storico-topografico-critici nella città, Milano 1752; C. Bianconi, Nuova guida di M. per gli am. d. belle arti e delle sacre e profane antichità milanesi, Milano 1787; L. Bossi, Guida di M., Milano 1818; F. Pirovano, M. nuovam. descritta, Milano 1822 e 1824; G. Caselli, Nuovo ritratto di M. in riguardo alle belle arti, Milano 1827; G. Mongeri, L'arte in M., Milano 1872; C. Romussi, M. nei suoi monumenti, Milan 1875 e 1912; L. Malvezzi, Le glorie dell'arte lombarda, Milano 1882; F. Malaguzzi-Valeri, Milano, Bergamo 1906; U. Nebbia, Milano che sfugge, Milano 1909.
Paolo D'Ancona
Istituti di cultura e musei
Istituti d'istruzione. - Primo nucleo dell'istruzione superiore in Milano dopo l'annessione fu la R. Accademia scientifico-letteraria, istituita per gli studî di lettere e filosofia con la legge Casati (1859). Sorgevano poi nel 1904, al fine di completare la cultura scientifica e pratica dei medici, per l'iniziativa di L. Mangiagalli e col concorso degli enti locali, gli istituti clinici di perfezionamento. La legge Gentile del 1923 sull'istruzione superiore promoveva la fusione delle due istituzioni, dando vita alla R. Università. Completata l'anno successivo con altri rami d'insegnamento, essa comprende attualmente cinque facoltà: giurisprudenza, lettere e filosofia, medicina e chirurgia, scienze, medicina veterinarìa: quest'ultima avente più un secolo di vita autonoma, perché fondata sin dal 1772, e riordinata nel 1860 su basi scientifiche e col titolo di "superiore". L'ateneo milanese, benché conti pochi anni di vita, è, per dotazione d'istituti e per numero d'allievi, uno fra i più importanti del regno.
Considerato accanto all'Accademia scientifico-letteraria dalla legge Casati, l'Istituto tecnico superiore - ora R. Scuola d'ingegneria - fu istituito di fatto con r. decr. 13 novembre 1862, e definitivamente ordinato, con provvedimenti del 1863 e 1865, nelle sue quattro sezioni d'ingegneria civile, ingegneria industriale, architettura e insegnamento negli istituti medî tecnici, corso preparatorio biennale di studî matematici. Da allora, per la fama dei suoi docenti e per severità di disciplina didattica è stato tenuto a modello ed ha esercitato grande efficacia, mediante la preparazione del personale tecnico, sullo sviluppo industriale della regione lombarda e di tutta l'Italia, grazie anche ai ricchi laboratorî e gabinetti e stazioni sperimentali per singoli rami d'industria, che gli sono sorti a fianco per iniziativa pubblica o per munificenza di privati.
Terzo, il R. Istituto superiore agrario (che comprende anche un corso speciale di magistero), fondato, come Scuola superiore d'agricoltura, dalla provincia col concorso del governo e del comune nel 1868.
È qui da ricordare anche la Scuola di paleografia e diplomatica, istituita nel 1843, che ha sede presso l'Archivio di stato.
Pareggiata alle università regie, dal 1924, è l'università cattolica del Sacro Cuore, istituita il 25 dicembre 1920 "con lo scopo di contribuire allo sviluppo degli studî e di preparare i giovani alle ricerche scientifiche, agli uffici pubblici e alle professioni liberali con una istruzione superiore adeguata e una educazione morale informata ai principî del cattolicesimo". Alle tre facoltà di giurisprudenza, di scienze politiche economiche e commerciali, di lettere e filosofia, sono annesse una scuola di statistica e altre scuole di perfezionamento. Dal 13 marzo 1923 data la fondazione dell'Istituto superiore di magistero Maria Immacolata. L'Università cattolica dà alla luce annualmente una ricca serie di pubblicazioni.
L'università commerciale Luigi Bocconi fu fondata il 10 novembre 1902 da Ferdinando Bocconi, per onorare la memoria del figlio Luigi gloriosamente caduto ad Adua. Essa impresse un carattere scientifico all'insegnamento commerciale e il suo ordinamento fu poi preso a modello nelle riforme legislative per tutti gl'istituti superiori commerciali.
All'insegnamento artistico è preposta la R. Accademia di belle arti, fondata nel 1776, e accresciuta nell'epoca napoleonica, che provvede a promuovere la cultura artistica anche con le sue collezioni ed esposizioni. Fiorentissima scuola di musica, in città di così grandi tradizioni per quest'arte, è il R. Conservatorio di musica Giuseppe Verdi.
L'attività dell'Osservatorio di Brera data dal 10 gennaio 1763, epoca in cui L. Lagrange organizzò la prima specola, che disponeva di scarsissimi mezzi. Il nuovo osservatorio sorse per opera del gesuita R. G. Boscovich; e si costituì in istituto pubblico alla fine del sec. XVIII. Fra i più notevoli astronomi di Brera sono B. Oriani, G. A. Cesaris, F. Carlini, dalla cui scuola uscirono allievi che divennero i più celebri matematici e astronomi d'Italia. Oggi l'Osservatorio ha una succursale nella specola di Merate nella quale è stato installato un potentissimo telescopio ottenuto dalla Germania in conto riparazioni.
Altri istituti di cultura. - L'istituto scientifico che ha più antiche e gloriose tradizioni è il R. Istituto lombardo di scienze e lettere, sorto nella Repubblica Cisalpina (1797) come istituto nazionale incaricato di raccogliere le scoperte e di perfezionare le arti e le scienze, con sede in Bologna. Fu trasferito a Milano il 25 novembre 1810 ed ebbe quattro sezioni: a Venezia, Bologna, Padova e Verona, denominate atenei; ridotte a due (Milano e Venezia) sotto il Regno Lombardo-Veneto. Nel 1838 l'Istituto lombardo fu distinto dal veneto. Unificato il regno, ebbe (1863) il nome attuale e nuovo indirizzo, suddividendosi in due classi: una di lettere e scienze morali e politiche, l'altra di scienze matematiche e naturali. Esercita la sua azione con due serie di Memorie e di Rendiconti delle sue adunanze, e con numerosi concorsi scientifici.
La Società storica lombarda fu fondata da Cesare Cantù e da altri cultori di discipline storiche sul finire del 1873. La più notevole manifestazione dell'attività scientifica del sodalizio sono i volumi della Bibliotheca historica italica e l'Archivio storico lombardo. Possiede una ricca biblioteca e una notevole raccolta di opuscoli, preziosi per la storia regionale.
Sono anche da ricordarsi, fra le principali, la Società numismatica italiana, la Scuola superiore di arte applicata all'industria, l'Istituto industriale G. Feltrinelli, la Società italiana d'igiene, l'Associazione elettrotecnica italiana, la Società italiana di scienze naturali che ha la sua sede presso il Museo civico di storia naturale. Questo museo, per la richezza e varietà delle sue collezioni, è uno dei più grandiosi d'Europa. Fondato nel 1837 da Giuseppe De Cristoforis e Giorgio Jan, che fusero le loro raccolte di mineralogia e di botanica, si andò man mano arricchendo di nuovo materiale e trovò valenti direttori in E. Cornaglia, in L. Stoppani, e in altri insigni scienziati. Una sezione di questo museo è l'Acquario di via Gadio, ricco di pesci d'acqua dolce e di mare.
Il più antico e il più frequentato degl'istituti liberi di cultura di Milano è il Circolo filologico. La sua fondazione risale al 1872. Suo scopo precipuo è lo studio linguistico (vi si insegnano francese, inglese, tedesco, spagnolo, russo, ungherese, arabo). Vi si tengono corsi di lezioni su argomenti diversi e conferenze. La biblioteca possiede oltre 75.000 volumi, nonché una raccolta preziosa di giornali e di riviste, italiani e stranieri.
Da ricordare l'Istituto fascista di cultura, il Circolo di pubblico insegnamento, il Circolo giuridico Atene e Roma, il Circolo amici dell'arte, il Primo istituto d'arte e d'alta cultura, il Convegno, che promuove riunioni letterarie, artistiche e musicali. Più accessibile a tutte le classi sociali è l'Università popolare Arnaldo Mussolini. Fondata nel 1901, inaugurata da Gabriele D'Annunzio rinnovata, secondo gl'ideali del regime fascista, nel 1926, si propone "l'elevazione intellettuale e morale delle classi popolari, con speciale riguardo alla formazione dell'Italiano". Ha una sede centrale e circa trenta sedi rionali in cui sono svolte annualmente circa 500 lezioni.
Istruzione media. -Appartengono al comune l'istituto tecnico Schiaparelli, cui è annesso un istituto commerciale serale, la Scuola superiore femminile A. Manzoni, il civico istituto magistrale maschile, recentemente istituito in via di esperimento, oltre a numerose scuole serali superiori (con circa 4000 alunni), alle scuole superiori festive femminili (circa 3000 allieve), e alle scuole maschili (11) e femminili (4) di disegno professionale. La città conta poi quattro Regi Licei-Ginnasî, un Regio Liceo scientifico, due istituti tecnici, una scuola periti costruttori edili e un R. Istituto di studî commerciali, con una popolazione scolastica complessiva di circa 18.000 alunni.
Istruzione elementare. - Alle necessità finanziarie delle scuole elementari passate allo stato con l'anno scolastico 1933-34, il comune continua a contribuire largamente, specie con la costruzione di nuove scuole per accogliere una popolazione scolastica, oggi di circa 75.000 alunni, in continuo incremento (circa 4000 nuovi alunni ogni anno).
Oltre alle scuole speciali per rachitici, anormali psichici, ecc. e scuole all'aperto per bimbi gracili, la città conta 37 asili d'infanzia frequentati da 6000 bimbi, scuole elementari per adulti (6000 alunni) e scuole comunali di avviamento al lavoro dotate di moderni laboratorî.
Gallerie e musei d'arte. - R. Pinacoteca di Brera. - Istituita sulla fine del '700 per istruzione degli allievi dell'Accademia, arricchitasi mano a mano di opere d'arte provenienti da chiese, abbazie, istituzioni religiose soppresse, riordinata nel 1925, la Pinacoteca di Brera racchiude cimelî di grandissimo pregio, tra cui affreschi dei secoli XV e XVI, molte opere delle scuole lombarda, emiliana, veneta e romagnola, dipinti di artisti dell'Italia centrale e meridionale. Ha sede nel palazzo di Brera (iniziato nel 1591) con l'Istituto lombardo di scienze e lettere, l'Accademia di belle arti, la Biblioteca, il Gabinetto numismatico e l'Osservatorio astronomico. Alla Pinacoteca è annesso un ampio archivio fotografico.
Pinacoteca Ambrosiana. - Ha sede, insieme con la biblioteca omonima (v. Ambrosiana, biblioteca), nel palazzo dell'Ambrosiana (eretto negli anni 1603-09). La pinacoteca fu istituita nel 1621 dal card. Federico Borromeo; ad essa nel 1751 si aggiunse il museo Settala; fu ampliata più volte per sistemare i sempre nuovi doni, lasciti e acquisti. Contiene tra l'altro pitture e disegni leonardeschi, il celebre Codice Atlantico, capolavori del Botticelli, cartoni di Raffaello o a questi attribuiti, ecc.
Museo del Castello Sforzesco. - Il Museo archeologico ha sede, insieme con il Museo artistico e con la Pinacoteca, nella Corte ducale del Castello. Comprende varî pezzi di epoca romana, cimelî medievali anteriori al sec. XIV, notevoli esempî di scultura lombarda del Trecento, di scultura lombardo-padovana della seconda metà del sec. XV, oltre a bassorilievi, terrecotte, medaglioni, ecc.
Il Museo artistico racchiude una pregevole collezione di ceramiche, mobili lignei intagliati dal Trecento al Seicento, mobili artistici dei secoli posteriori, oggetti d'arte di bronzo, avorio, ferro, vetro e oreficerie.
La Pinacoteca comprende, tra l'altro, con un vigoroso ritratto di Antonello da Messina, opere di Lorenzo Lotto, del Tintoretto, di V. Foppa, del Sodoma, di A. Magnasco, di C. Poelemburg, di G. Breughel, eec.
Galleria d'arte moderna. - Ha sede dal 1921 nell'ex-Villa Reale (eretta sulla fine del sec. XVIII dal Pollak) dove fu trasferita dai locali del Castello Sforzesco, e ha grande importanza specie per quanto concerne la pittura lombarda dell'Ottocento. Fra i pittori maggiormente rappresentati in essa sono D. e G. Induno, T. Cremona, M. Bianchi, G. Segantini, V. Grubicy De Dragon, L. Bazzaro, ecc.
Museo Poldi Pezzoli. - Legato per testamento alla città di Milano da G. G. Poldi Pezzoli (1823-1879), contiene, oltre a pitture, arazzi e oggetti antichi, medievali e del Rinascimento, una serie di pregevoli quadri dei secoli XVIII e XIX, finissimi gioielli antichi e moderni, oggetti sacri, tappeti di gran pregio, raccolte ricchissime di armi e armature: tutti disposti con singolare armonia ed eleganza.
Museo teatrale. - Formato per iniziativa di privati nel 1913, è annesso al teatro alla Scala: è costituito della ricchissima collezione di G. Sambon (acquistata), della raccolta verdiana (aggiunta nel 1930) e di altre raccolte riguardanti il teatro alla Scala e aggiunte anch'esse nel 1930. L'insieme ha un'importanza di prim'ordine per la storia del teatro, ed è impiantato e organizzato in modo egregio. L'arricchimento delle raccolte è assicurato dall'associazione degli "Amici del museo teatrale della Scala", costituita nel 1914. Il museo, in continuo incremento, comprende (1933) 17 sale.
Fanno cornice a queste raccolte pubbliche quelle private del principe Trivulzio, del duca Gallarati Scotti, del barone Bagatti Valsecchi, del nobile Cagnola, di casa Cicogna; e quelle più recenti del comm. Poss, del senatore Treccani, dell'avv. Giussani, quest'ultima prevalentemente composta di opere dell'800, ecc.
Biblioteche e archivî. - R. Biblioteca nazionale Braidense. - Trae origine dall'acquisto che la Congregazione dello stato di Lombardia fece nel 1763 della biblioteca Pertusati per festeggiare le nozze dell'arciduca Ferdinando con l'ultima erede degli Estensi. L'imperatrice Maria Teresa dispose perché tale raccolta fosse aperta al pubblico e collocata nel 1773 nell'ex collegio gesuitico di Brera. La nascente biblioteca ereditò la suppellettile delle tre che i gesuiti avevano in Milano al momento della loro soppressione e via via quelle di molte altre biblioteche monastiche incamerate nella seconda metà del sec. XVIII; fra l'altro quelle della Certosa di Pavia e dei monaci cisterciensi di S. Ambrogio in Milano. Quando nel 1778 l'imperatrice Maria Teresa acquistò i 14.000 volumi di Alberto de Haller, ne assegnò alla Braidense la cospicua parte spettante alla storia naturale. Pervennero inoltre a questa biblioteca i libri del colonnello Baschiera, del chirurgo A. Brambilla, del cardinale C. F. Durini, del conte C. G. di Firmian, e, alla caduta del dominio napoleonico, le librerie di parecchi ministeri del regno d'Italia, del Consiglio di stato e della Casa dei paggi; e, alla fine dell'antico regime, anche la biblioteca del Collegio milanese dei nobili giureconsulti. Indipendentemente dalla fusione, decretata nel 1864, della biblioteca speciale del R. Gabinetto numismatico col grande deposito Braidense, conviene ricordare che questo ultimo si arriechì, dopo le guerre dell'indipendenza nazionale, della collezione ebraica adunata dai fratelli Lattes, dei codici Morbio, della raccolta drammatica Corniani, di quella filologica dell'abate De Capitani d'Arzago, e soprattutto dei manoscritti manzoniani ordinati dal senatore Pietro Brambilla in una raccolta speciale che si va sempre allargando. Negli ultimi anni successive liberalità del municipio milanese e della Cassa di risparmio delle provincie lombarde mirarono a orientare gli acquisti verso le scienze sociali e storiche. Questa biblioteca invero ha minore importanza per i manoscritti e per gl'incunabuli, che pure noverano molti esemplari pregevoli, che per la vasta congerie di collezioni letterarie e scientifiche riguardanti le antichità classiche e oiientali e le letterature dei principali popoli moderni. Ermes Visconti, Cesare Correnti, Franeesco Novati lasciarono pure in eredità alla biblioteca di Brera le loro private librerie. La compilazione di un catalogo fu iniziata sin dal sec. XVIII dal primo bibliotecario capo, canonico Giambattista Castiglioni, in collaborazione con G. Allegranza e col custode Carlo Carlini. Nel 1829 il bibliotecario R. Gironi avviò la trascrizione del vecchio catalogo sui voiumi tuttora in uso, mentre furono poi compilati tre schedarî principali, oltre i cataloghi di singole raccolte. Per iniziativa del bibliotecario G. Ferrario furono redatti gl'inventarî. La Braidense conserva tuttora il suo carattere di biblioteca generale ed eclettica.
Per la Biblioteca Ambrosiana, v. Ambrosiana, biblioteca. È, al pari di questa, connessa alla storia di una grande famiglia, la Biblioteca Trivulzio, celebre per le sue raccolte di manoscritti e d'incunabuli. Altre biblioteche private pregevoli sono quelle delle famiglie Melzi, Poldi Pezzoli, Villa Pernice, Guastalla, Bagatti Valsecchi, Silvestri, ecc.
Fra le biblioteche non statali è particolarmente notevole la Biblioteca civica. Fondata nel 1890 con modesti lasciti e con intenti di biblioteca circolante per gl'insegnanti, coi legati Vismara (1906) e Ascoli (1909) acquistava maggiore organicità e mutava carattere. Ora occupa un'area notevole nel Castello Sforzesco, estendendosi per 24 sale, di cui cinque sono aperte agli studiosi, ed è ordinata con criterî moderni. Istituto di larghissimo uso pubblico, per consultazioni e prestiti a domicilio, ha cataloghi a schede e per soggetti e un patrimonio di oltre 350.000 unità, con 500 periodici in continuazione.
L'Archivio storico civico conserva gli atti dell'amministrazione del comune e del suo ducato dal 1385 al 1802 (sezione antica) e dal 1803 al 1860 (sezione moderna). Della parte più antica è notevole specialmente la raccolta degli Atti dei consigli del comune dalla fine del 1300, del Tribunale di provvisione, della Congregazione municipale, della Congregazione di stato; della parte moderna la Raccolta Portiana. Una ricca biblioteca illustra la storia di Milano e del suo territorio. Aggregata all'archivio è la Raccolta Vinciana.
Il Museo civico del Risorgimento ha un ricco archivio (i principali fondi sono il Garibaldino, il Guastalla, il Bertani, il Missori, il Cattaneo, il Dandolo, il Tenca, il Correnti, il Vacani, il Ferrari) e una biblioteca di circa 100 mila fra volumi e opuscoli, catalogati per autori e per soggetti. Una sezione notevole della biblioteca è costituita dalla Raccolta Bertarelli, che fra giornali, volumi e opuscoli raggiunge la cifra di 25 mila unità bibliografiche, di cui alcune preziose e rarissime. Accanto alle collezioni del museo la Fondazione Castellini raccoglie tutto quanto può giovare a illustrare il pensiero precursore della grande guerra. E alla guerra è dedicato un archivio speciale, sorto nel 1924 col fine d'impedire la dispersione dei documenti di carattere non ufficiale, che consentiranno un giorno di studiare la varia anima del popolo combattente e tutta la complessa opera di assistenza civile. I documenti di guerra finora raccolti ascendono a circa un milione.
L'Archivio di stato è uno dei più ragguardevoli d'Italia. Ha sede nello storico palazzo del senato. Vi affluiscono gli atti di tutte le magistrature governative. Conserva anche tutto quanto è rimasto in Lombardia di materia documentaria anteriore al Mille (archivî monastici dal sec. VIII), l'archivio ducale Sforzesco, l'archivio Peroniano con tutti i documenti superstiti degli uffici centrali dello stato di Milano dall'inizio della dominazione spagnola alla caduta di quella austriaca, archivî dell'amministrazione napoleonica e serie varie di documenti particolarmente importanti per la storia del Risorgimento. Possiede, tra mazzi e volumi, circa 280 mila unità in una scaffalatura lineare di oltre quaranta chilometri. Vi è annessa come s'è detto la Scuola di paleografia, diplomatica e archivistica. Nell'archivio di stato dovrebbero poi essere depositati anche i documenti dell'Archivio notarile distrettuale istituito dall'Austria sulla fine del sec. XVIII, il quale possiede, in circa 80 mila filze, tutti gli atti che si poterono salvare dalla dispersione, i più antichi dei quali sono della fine del sec. XIII.
Esistono inoltre importantissimi archivî privati (Busca-Sola-Serbelloni; Verri, presso la famiglia Sormani-Andreani; Melzi; Greppi; Dal Verme, ecc.), nonché l'Archivio dell'Ospedale maggiore, quello della Fabbrica del duomo e l'Archivio arcivescovile, creato da S. Carlo Borromeo, in cui si conservano fra l'altro con numerose pergamene del Duecento, importanti censimenti parrocchiali (gli status animarum).
Bibl.: Per la Biblioteca Braidense: F. Rossi, Cenni storici e descrittivi intorno all'imperial regia biblioteca di Brera, Milano 1841; G. Sacchi, Notizie intorno alla Biblioteca nazionale di Milano, Milano 1873; F. Carta, Catalogo descrittivo dei Codici corali e libri a stampa miniati della biblioteca di Brera, Roma 1891; L. Frati, I codici Morbio della Regia Biblioteca di Brera, Milano 1897; G. Gallavresi, Regia Biblioteca nazionale "Braidense", in Le Bibl. Milanesi. Manuale ad uso degli studiosi, Milano 1914, il quale dà ampia notizia anche di tutti gli altri istituti bibliografici.
Antonio Monti - Giuseppe Gallavresi
Vita musicale e teatrale
Musica. - Ad iniziativa di S. Ambrogio, il popolo di Milano, raccolto nelle basiliche che non intendeva cedere al culto ariano, adottò la pratica di cantare inni e salmi "secondo l'uso della Chiesa d'Oriente". Da Milano, quindi, si sarebbe sparsa in Occidente la forma antifonica della salmodia corale, e in Milano l'innodia cristiana latina avrebbe dato i primi frutti servendosi forse del canto popolare, adattabile allo schema strofico degl'inni e ritmicamente riducibile alla misura del metro poetico. L'adozione del canto popolare aveva avuto del resto un precedente nella innodia della Chiesa di Siria, mentre non è da escludere che S. Ambrogio, certo autore di una parte sia pure minima degl'inni che passano sotto il suo nome, abbia loro dato anche il suono. La tradizione, poi, oltre a riconoscere la chiesa milanese come il centro d'irradiazione occidentale della lirica cristiana - cioè del genere d'arte musicale liturgica in cui più vivi fermentano i germi del ritmo e della tonalità -, fa risalire a S. Ambrogio quella speciale forma di canto sacro che è conosciuto col nome di ambrosiano. A questo riguardo, le prove circa le origini ambrosiane sono piuttosto da cercare nelle notizie dei cronisti, nella storia della liturgia e negli arcaismi tipici del canto conservato in uso a Milano, che non nei monumenti musicali di esso, il più antico dei quali, a nostra conoscenza, non risale più indietro del sec. XII. Ad assicurare poi l'integrità delle forme locali nei tempi in cui le melodie erano affidate, più che ad altro, alla tradizione orale, sorse la prima istituzione musicale milanese, dovuta forse a S. Simpliciano che avrebbe fondata in Milano una schola con l'ufficio di educare i fanciulli destinati a prestar servizio nel tempio. Più tardi il liturgista Beroldo fa menzione di un istituto congenere, esistente al tempo di Ariberto da Intimiano (1018-1045), nel quale quattro sacerdoti insegnavano musica ed altro ai fanciulli cantori. Da allora, le tracce di una schola cantorum annessa alla cattedrale non disparvero più e giunsero fino al tempo nostro insieme a quelle dei maestri chiamati "ad edocendum pueros in arte discantandi".
Il duomo di Milano ebbe già nel 1395 in Antonio Monti da Prato un proprio organista, al quale fu aggiunto, sui primi del '400, il cantore e compositore Matteo da Perugia. Costui rappresenta sì un periodo di decadenza italiana in confronto con la precedente arte trecentesca, ma la sua versatilità nel comporre musica sacra e profana sopra testi latini italiani e francesi, le sue raffinatezze mensurali e la ricchezza delle ornamentazioni canore sono tali da sostenere il confronto con le contemporanee musiche francesi. Nel 1449 fu posto nel tempio un tribunale per collocarvi i "cantores ordinatos et deputatos ad canendum"; indi si pose mano alla costruzione di un nuovo organo, ma solo nel 1491 il vecchio e il nuovo organo poterono essere collaudati, essendo compiuti i lavori dall'Antegnati, organaro di Brescia.
L'assunzione di Galeazzo Maria Sforza al ducato segna, nel 1470, la nascita di un'istituzione musicale: la cappella di corte, di quaranta voci divise in diciotto "de camera", con alla testa il maestro fiammingo G. v. Werbecke, e in ventidue "de cappella", con alla testa l'abate Guinati. Nel 1474, la cappella sforzesca si poté dire organizzata e pronta a far pompa di sé nelle cerimonie ducali; come quando, mescolata alla corte, entrava in duomo il giorno di San Giorgio per assistere alla benedizione degli stendardi. Fra i cantori-compositori accolti nel castello, passarono allora Josquin des Prés, Johannes Martini, Loyset Compère, Jacotin, (J. Godebrye) insieme con tanti altri notevoli fiamminghi, incaricati di scriver musiche sacre o di eseguire in camera le canzoni francesi e spagnole più in voga. La morte violenta di Galeazzo Maria non impedì alla cappella di continuare ad esistere. Ludovico il Moro la conservò nel suo primo splendore e le volle anzi creare a lato una cattedra di scienze musicali, affidandola al compositore Franchino Gaffurio, giunto a Milano nel 1484, chiamato a succedere a Giovanni de Mollis quale direttore delle musiche nella cattedrale metropolitana. Gaffurio compose musiche pregevoli tuttora conservate nell'archivio del duomo; diede alla luce diversi trattati musicali, provvide alla traduzione in latino dal greco degli scritti musicali di Briennio, Bacchio, ecc.; infine, illustrò la cattedra che il Moro gli aveva affidata nell'accademia istituita in Milano. Ma il quadro della cultura e delle musiche in auge in Milano durante il periodo sforzesco sarebbe incompleto, quando non si ricordassero gli stampatori di trattati musicali, come lo Zaroto, il Mantegazza, il Lomazzo, e le manifestazioni cortigiane e popolari in cui la musica ebbe parte integrativa. Sono esse gli spettacoli pubblici, come quello immaginato da Leonardo da Vinci per gli sponsali di Beatrice d'Este col Moro, eseguito col concorso di canterini; sono le egloghe rappresentative cantate durante i banchetti; sono le barzellette, fiorenti a Milano non meno che nelle altre corti italiane; musiche che passavano dai canterini di professione a quelli del popolo e fornivano materia di svago alla stessa Beatrice.
Perita la cappella sforzesca in seguito ai rivolgimenti politici, l'altra cappella del duomo continuò a vivere decorosamente lungo il '500. Essa venne fornita di due nuovi organi collocati ove si trovano attualmente, ed ebbe a direttori dei musicisti di chiara fama come il Verecore, detto Matthias fiammingo, e come Vincenzo Ruffo, compositore-madrigalista veronese. Oltre al duomo, la chiesa di S. Maria presso S. Celso partecipò alla vita musicale cittadina; né mancarono in quel secolo in Milano gli editori, gli stampatori e i librai di musica: un Cesare Pozzo e un Simone Tini, un Francesco Moscheni e un Besozzi, continuati nel secolo seguente dagli eredi loro e da un Agostino da Tradate, da un Giorgio Rolla, da un Carlo Camagno, ecc. Però, nelle manifestazioni musicali del secondo '500, in Milano gravò l'azione di S. Carlo Borromeo: azione diretta a combattere tutto quel che avesse carattere di profanità, e potesse comunque nuocere al risanamento del decaduto costume. Il Borromeo prese di mira gli spettacoli teatrali; lasciò che le musiche destinate alla liturgia romana prendessero nell'archivio musicale del duomo il posto di quelle che avrebbero dovuto essere scritte appositamente per il rito ambrosiano; disciplinò la partecipazione dei musicisti secolari alla vita musicale dei monasteri. Solo nel 1598, fu possibile l'erezione di un teatro abbastanza ampio nel cortile del Palazzo ducale dalla parte di Via Rastrelli, mentre dal lato di Via delle Ore una più piccola scena serviva, nello stesso palazzo, alle rappresentazioni in prosa. Il melodramma cominciò ad aver fortuna a Milano sulla scena del Teatro ducale solo nella seconda metà del '600, ma senza potersi valere di forze milanesi. Giacché mentre in quel secolo si succedevano nella cappella del duomo valorosi maestri (I. Donati, A. M. Turati, G. A. Grossi), mentre Federico Borromeo provvedeva a raccogliere nella Biblioteca Ambrosiana codici preziosi in cui erano esposte le antiche dottrine musicali, la società elegante teneva cari i balletti del tipo di quelli musicati dal milanese C. Negri e da M. F. Carosio. Il melodramma, dunque, quando fu accolto nel Ducale, vi portò di preferenza le opere di Pietro Andrea Ziani, di A. Sartorio, di C. Pallavicino, cioè i prodotti del teatro lirico veneziano, dal quale dipendevano allora le maggiori scene del mondo. Quest'avviamento, interrotto nel 1708 dall'incendio del vecchio Ducale, fu ripreso con maggior larghezza, nella stessa sala ricostruita, nel carnevale 1717-18.
Pochi furono i compositori milanesi che contribuirono, lungo il '700, alla vita lirica in Milano; non si può quindi parlare di un'opera milanese alla stessa stregua dell'opera veneziana e della napoletana. I maestri milanesi segnalabili per aver preso parte attiva alle rappresentazioni del Ducale sono G. B. Sammartini, G. B. Lampugnani, G. F. Brivio, Piazza, C. Monza: il più ed il meglio continuò ad essere fornito dai maestri di scuola veneta e napoletana. Il che non impedì che la società dei nobili milanesi godesse di quegli spettacoli, né che l'orchestra del Ducale crescesse di numero e di forze al punto da poter gareggiare, verso il 1756, con la celebre orchestra di Mannheim. La vita musicale di Milano fu anzi in questo secolo intensa ed ebbe caratteri locali che vogliono essere citati. Fatta eccezione per la cappella metropolitana, che affidata successivamente a G. A. Fioroni, a G. Sarti e a Carlo Monza escluse la musica strumentale in omaggio all'austerità del rito ambrosiano quando non fosse quella dell'organo, nelle sfere dei nobili dilettanti, delle accademie, delle istituzioni d'educazione e nel gusto del popolo l'arte penetrò con i suoi caratteri settecenteschi di grazia e di leggerezza, e con le sue predilezioni strumentali nella forma della sinfonia, della sonata, dell'oratorio, della cantata, delle arie. Staccata dall'opera, la sinfonia coltivata dal Sammartini e dalla sua scuola divenne il genere prediletto dai Milanesi, che affluivano intorno alla spianata del Castello per udire dall'orchestra "le più scelte sinfonie di strumenti". I trattenimenti offerti in casa Clerici, dal marchese di Caravaggio, dal duca Serbelloni e dalla nobiltà festaiuola, le accademie date nei collegi diretti dai gesuiti e dai barnabiti, i concerti spirituali offerti nelle chiese di Milano più frequentate, le esecuzioni sinfoniche in campo liturgico con le sinfonie premesse al Kyrie e con i Dixit con sinfonia, tutto ciò rappresenta un quadro tipico di vita musicale milanese. Non può quindi recare meraviglia che un J. Christian Bach (il Bach "milanese") sia venuto ad occupare uno dei posti di organista in duomo, che C. W. Gluck abbia qui preparato le sue prime armi alla scuola del Sammartini, e W. A. Mozart sia stato fra il 1770 ed il 1772 per tre volte ospite della città, che sulla scena del Ducale allestì tre sue opere, compreso l'Ascanio in Alba composto sopra versi dell'abate Parini.
Pochi anni dopo questo avvenimento, il Ducale, risorto dalle ceneri nel 1717, fu nuovamente distrutto da un incendio la mattina del 25 febbraio 1776; ma questa volta non fu più ricostruito. Il bisogno di spettacoli spronò allora il conte Firmian ad affrettare la costruzione di due nuovi teatri, che furono la Canobbiana e la Scala, entrambi sopra disegno dell'architetto Piermarini. Ciò corrispose all'inizio di una nuova vita musicale: nella Scala, aperta nel 1778, si concentrò l'interesse dei Milanesi, e a lato della Scala, per disposizioni date trent'anni dopo da Eugenio de Beauharnais, sorse il conservatorio di musica e, nello stesso anno 1808, prese posizione la casa editrice fondata da Giovanni Ricordi. Da allora in poi i compositori furono attratti verso le scene milanesi che, oltre alla Scala e alla Canobbiana, avevano nel Carcano e nel Filodrammatici due luoghi adatti alle opere di minori esigenze. Così s'instaurò in Milano una tradizione lirica, per la quale Milano s'avviò, dopo Venezia e Napoli, a divenire il centro principale del movimento lirico italiano. Le cronache milanesi della prima metà dell'Ottocento tramandano gli echi delle serate d'arte e di mondanità datesi alla Scala; i trionfi dei balli di Viganò, i plausi contesi a talune opere di Rossini, Bellini e Donizetti e l'inizio della carriera gloriosa di Giuseppe Verdi con l'Oberto e il Nabucco. Avvenimenti, questi, ai quali si aggiunsero, nella seconda metà dello stesso secolo, l'istituzione della Società del quartetto (1864), l'apertura del Dal Verme agli spettacoli lirici popolari, i concerti dell'orchestra della Scala e finalmente l'apoteosi dell'arte verdiana suggellata alla Scala con le prime rappresentazioni dell'Otello e del Falstaff.
Rimasta Milano fornitrice di artisti alle principali scene liriche del mondo, il suo maggior teatro raggiunse nuovo splendore nel primo decennio del '900, grazie alla liberalità dei cittadini (sottoscrizione Pro Scala) e del duca senatore Uberto Visconti di Modrone, al concorso artistico di Arturo Toscanini e mercé la costituzione del Museo teatrale alla Scala (1913).
Organizzata modernamente, con nuovi allestimenti scenici forniti dal disinteressato concorso di enti pubblici e privati, e costituita in Ente autonomo, la Scala, insieme alla Società del Quartetto e all'Ente Concerti orchestrali, è oggi la più importante istituzione musicale milanese. Fra le minori, va qui ricordata la benemerita sezione musicale del Teatro del popolo col suo ottimo quartetto Poltronieri.
Teatro drammatico. - È memoria che col sec. XV anche in Milano venissero tenute le sacre rappresentazioni o "misteri". Con Ludovico il Moro (in ritardo a confronto di altre città come Roma, Ferrara, Mantova) ebbero poi inizio rappresentazioni teatrali di soggetto non religioso nel teatro allora eretto nel Palazzo ducale, che assunse carattere di teatro stabile solo nel 1598. Successivamente, anche a Milano si ebbero rappresentazioni di compagnie drammatiche girovaghe, e nella seconda metà del sec. XVI grande diffusione ebbe anche qui come quasi dappertutto in Italia la commedia "dell'arte", in cui comparve la maschera milanese detta Beltramo, che nel secolo successivo lasciò il posto alla celebre maschera Meneghino. Le commedie di C. M. Maggi, recitate a Milano nell'ultimo decennio del sec. XVI, segnano, prima del Goldoni, un fortunato tentativo di riforma della commedia a soggetto.
Grande è a Milano nei primi anni del sec. XIX la passione per il teatro, alimentata anche dalle vicende politiche, e numerose sono le compagnie filodrammatiche (il Verga ci dà notizia di filo-gamberi - dal teatro dell'osteria del Gamberino fatto costruire dall'attore Moncalvo su disegno del Pestagalli - e di filo-fustoni, di emulatori, trascendenti, retorei melici, ecc.), dei cui litigi è traccia in qualche sonetto portiano (Là piantéla i mè car filo-fuston). Di quest'epoca sono i teatri Lentasio (1805-1861), S. Radegonda (1803-1881), Carcano (1803, dalle nobili tradizioni patriottiche durante la dominazione austriaca, costruito su disegno di L. Canonica), e, più importanti, il Teatro patriottico (del 1800) che assunse, a partire dall'anno 1805, il nome di Teatro dell'Accademia dei filodrammatici, e, infine, il Teatro Re (1813-1872) detto poi anche Re Vecchio, per distinguerlo da un altro minore teatro chiamato Nuovo teatro Re (1864-1887).
Il teatro della Commedia, sorto nel 1872, poi chiamato teatro Manzoni, raccolse degnamente la tradizione del vecchio teatro Re. Il teatro Manzoni, insieme con gli altri maggiori del tempo, il Carcano, il teatro della Commenda (detto il Manzoni d'estate), il Lirico, rifatto da A. Sfondrini nel 1894 sull'area dell'antica Canobbiana, il teatro dell'Accademia dei Filodrammatici (più brevemente, il "Filo"), l'Olimpia, contribuì in modo assai efficace a creare in Milano, sul finire del secolo scorso, un ambiente assai favorevole allo sviluppo del teatro drammatico nazionale. Si può forse affermare che Milano fu in quegli anni il centro dell'attività drammatica italiana. Milanesi, o dimoranti in Milano, erano buon numero dei più noti autori del tempo come M. Praga, E. A. Butti, G. Giacosa, G. Rovetta, C. Bertolazzi, gli Antona-Traversi, L. Illica, S. Zambaldi; sui quotidiani milanesi scrivevano critici assai noti e ascoltati come L. Fortis, G. Pozza, F. Filippi, F. Fontana; a Milano si costituivano le agenzie di collocamento degli attori e si pubblicavano, fra i periodici, La scena di prosa e L'arte drammatica. In special modo, le migliori stagioni teatrali di prosa erano il carnevale e la quaresima, durante le quali si avvicendavano le maggiori compagnie drammatiche italiane.
Tali condizioni, particolarmente propizie allo sviluppo della vita teatrale, favorirono il sorgere a Milano, nel 1882, della "Società per il riconoscimento del diritto d'autore", detta poi "Società italiana degli autori ed editori" (principalmente autori di teatro, sia lirici, sia anche e soprattutto drammatici), per l'esercizio e la tutela morale, giuridica ed economica del diritto d'autore, che ebbe sede in Milano fino al 1926.
Così pure ebbero, in quegli anni, più ampio sviluppo due istituzioni della storica Accademia dei filodrammatici, la quale deve la sua origine alla Compagnia dei dilettanti del Teatro patriottico, formatasi nel 1796 fra giovani dilettanti repubblicani, e assunse nel 1805 il nome che ancora oggi conserva. E cioè, il teatro dell'Accademia, il quale dal 1884 veniva messo a disposizione degli attori professionisti, e la scuola di dizione e di recitazione, tuttora fiorente.
Fortunato fu l'ultimo trentennio dello scorso secolo anche per il teatro dialettale milanese, la cui vita, dopo la vigorosa affermazione del Maggi nel '600, era continuata, pur con varietà di forme, grazie al Birago, al Balestrieri, al Porta, al Grossi, al Moncalvo. Nel periodo della cosiddetta scapigliatura milanese sorge infatti, per opera di alcuni giovani dilettanti, un'Accademia filodrammatica dialettale che (dopo un lungo periodo di fortunate recite nel piccolo teatro detto Padiglione Cattaneo, grazie al mecenatismo di Carlo Righetti conosciuto col nome di Cletto Arrighi, fecondo scrittore di lavori in dialetto milanese) si trasformò in un vero teatro drammatico. Principe, fra i suoi autori e attori, Edoardo Ferravilla.
In questi ultimi anni, in luogo di varî teatri scomparsi, alcuni sono sorti più modernamente intonati alle esigenze del pubblico e della scena contemporanea, quali l'Odeon, l'Excelsior, il Puccini, ecc.; che, in unione ai vecchi notissimi teatri ancora esistenti come il Manzoni, il Filodrammatici, il Lirico, l'Olimpia, il Carcano, ospitano tutti i migliori artisti del teatro di prosa.
Antonio Calzoni - Giovanni Antona Traversi
Letteratura dialettale
Anche a Milano, come in ogni altra città e regione italiana, i primi poeti dialettali veri e proprî appartengono al sec. XVI. Tra essi merita particolare attenzione Gio. Paolo Lomazzo, pittore e poeta, che fu dei primi a usare il dialetto milanese. Ma il suo nome, anzi il suo pseudonimo Compà Zavargna, è particolarmente legato ai Rabisch, amene parodie della letteratura solenne nel dialetto della Valle di Blenio, dalla quale prendeva nome la poetica Accademiglia de Bregn. Altra accademia quella della Badia, dalla quale uscirono numerose poesie e racconti in prosa nel dialetto della Val d'Intragna (lengua fachina), che si trovano in preziose stampe della Biblioteca Ambrosiana. Nella seconda metà dello stesso Cinquecento fu composto, intorno alla "lengua de Milan", il Varon Milanes da G. Capis con aggiunte poi di G. Milani, e più tardi il Prissan de Milan da G. A. Biffi, editi insieme nel 1606. Nel secolo seguente Carlo Maria Maggi sostituì nelle liriche il dialetto civico ai dialetti rustici e fu giustamente considerato maestro dei poeti meneghini venuti dopo. Fino allora era noto il tipo del villano Baltramm da la Gippa, nativo di Gaggiano, che nella favella del contado intrecciava con la sua Baltramina, del rione di Porta Ticinese, dialoghi improvvisati in bosinate, componimenti a botta e risposta rappresentanti il contrasto fra la goffaggine rustica e l'arguzia cittadina; il Maggi sbozzò con dignità d'arte il tipo famoso di Meneghino, incarnazione dell'anima milanese, e creò nelle sue quattro commedie altri personaggi, specialmente dame, colti dal vivo a rappresentare la Milano secentesca. Numerosi e pregevoli i poeti dialettali del sec. XVIII, tra i quali ricordiamo: Stefano Simonetta; P. C. Larghi; Girolamo Birago (1691-1773), autore d'una commedia, Donna Perla, in italiano e in dialetto (1724), d'un poemetto in ottava rima, Meneghin a la Senavra, nel quale il sentimento religioso appare fuso con la satira del costume; F. G. Corio, amante della campagna e insieme satirico squisito (un gioiello della letteratura dialettale è l'Istoria d'on fraa cercott); C. A. Tanzi (1710-1762), lirico di sana e alta morale e di vena gioconda; Domenico Balestrieri (1714-1780), scrittore facile in verso e in prosa meneghina, che anticipò il Porta nella satira letteraria, compose le Novellette e molte altre cose, e tradusse la Gerusalemme liberata in milanese, C. A. Pelizzoni, copioso rimatore, efficace nel descrivere le misere condizioni dei contadini, caro al Parini; lo stesso Parini, che prese parte all'aspra polemica suscitata dal Dialogo sulla lingua toscana (1759) del padre O. Branda, difendendo i poeti meneghini e i loro legittimi diritti nel campo dell'arte. Il fervore per la letteratura dialettale, in cui non sdegnava di esercitarsi la nobiltà (conti G. Giulini, L. Marliani, F. Pertusati), continuò nel sec. XIX, avvalorato dal moto romantico, ed ebbe la più splendida manifestazione col grande Carlo Porta. Seguaci non del tutto indegni di lui sono: Giuseppe Bossi (1777-1815), dotato di ricco temperamento artistico (stupendi Pepp peruchée, l'Adréss de Meneghin Tandoeuggia al Prencip Eugeni, le Odi), e Tommaso Grossi, che deve essere qui ricordato per il patetico poemetto sentimentale in dialetto, La Fuggitiva, per la Prineide e per i bei versi in morte del suo grande amico Porta. Nella generazione postportiana, durante il periodo del Risorgimento e oltre, si distinsero: Giovanni Ventura (1801-1869), di sentimentalità grossiana, non scompagnata dalla caustica satira tradizionale (A un brutt bagai; On' oggiada al ciel; El tramont; Un passarin); il medico Giovanni Rajberti (1805-1861), che tradusse in meneghino l'Arte poetica d'Orazio e piacque molto per il Cholera e i medegh de Milan (1836), la Bottega del Caffé, Fraa noeuv gésa noeuva, per i versi in morte del fedele cane Pill (il Rajberti è l'autore del famoso saggio sul Gatto); Antonio Picozzi (1824-1893), garibaldino, poi bibliotecario di Brera, autore di novelle in verso, ispirate a sensi ambrosiani; altri garibaldini e patrioti: F. Bussi, A. Molina, G. Uberti, M. De Cristoforis; infine Gaetano Crespi (1851-1913), che, caratteristico rappresentante del periodo moderno, poetò in "lingua milanese" e in "milanese rustico" (bosino o brianzolo), dipingendo di preferenza i costumi del contado, appoggiò l'iniziativa del concorso per la canzone lombarda e fondò la Collezione portiana. Tutta una schiera di verseggiatori moderni rispose con vivo impegno al coro generale di voci dialettali italiane: R. Parravini, E. Pozzi, C. F. Risi, C. Chiesa, F. Fontana, editore dell'Antologia Meneghina, F. Angiolini, autore anche di un Vocabolario milanese, ecc. Ma nessuno di questi poeti ha raggiunto l'altezza dell'arte portiana. Oggi poi si parla di decadenza. Certo è decaduta la scena dialettale, la quale, fino dall'istituzione del teatro milanese (1872), era salita in onore, per opera di apprezzati scrittori (C. Cima, C. Righetti, G. Sbodio, G. Duroni, infine C. Bertolazzi, e altri ancora, persino il Rovetta, l'Illica, S. Zambaldi, milanese d'adozione), e aveva acquistato grande voga all'epoca del fortunato dominio ferravilliano: onore e voga che si è tentato invano di rinnovare. Fra i poeti dialettali del nostro tempo, menzioniamo G. Barrella, C. Baslini, E. Bertini, G. Bolza, A. Curti, C. Cima, S. Crepaldi, G. Decio, S. Della Chiesa, A. Donegana, R. Massara De Capitani, L. Medici, L. Pellegatta, P. Preda, G. Sessa. Degne di rilievo le attività a favore delle tradizioni meneghine di enti locali di cultura e arte: interessanti, tra l'altro, le collane di storia locale e di linguistica e le belle edizioni di classici del dialetto (Maggi e Porta) della Famiglia Meneghina, le accademie poetiche dell'università popolare (1928-1933) e l'iniziativa del 1° congresso dei dialetti (Milano 19-21 aprile 1925).
Bibl.: F. Cherubini, Collezione delle migliori opere scritte in dialetto milanese, Milano 1816; G. Ferrari, Studio sulla letteratura dialettale, in Revue des Deux Mondes, 1839-40; B. Biondelli, Saggio sui dialetti gallo-italici, Milano 1853; V. Ottolini, Principali poeti vernacoli milanesi, Milano 1881; P. Rajna, Il dialetto milanese, in Mediolanum, II (1881); F. Fontana, Antologia Meneghina, Bellinzona 1900, Milano 1915; E. Levi, Poeti antichi lombardi, nella collez. Scrittori milanesi, Milano 1921; A. Ottolini, G. Birago, "Donna Perla" e poesie dialettali, nella stessa collez., Milano 1925; A. Visconti, I Lombardi, nella collez. Canti e novelle, tradizioni d'Italia, diretta da L. Sorrento, Milano [1926]; S. Zambaldi, Il teatro milanese, Milano 1927; L. Sorrento, La letteratura dialettale, in Aevum, 1929.
Luigi Sorrento
Storia
Antichità. - La regione paludosa fra il Po e le Alpi, in cui Milano doveva sorgere, era già abitata, quando i suoi fondatori vi pervennero, da popoli che costruivano le loro abitazioni sulle terremare e sulle palafitte. La tradizione letteraria ci ha tramandato i nomi dei Liguri e degli Umbri che, venutivi in tempo imprecisabile, avrebbero occupato qua e là il territorio prima del sec. VI a. C., epoca in cui s'iniziano, secondo Livio (V, 34), le parziali immigrazioni dei Celti, che culminarono nella loro grande invasione del sec. IV, in cui, duce Belloveso, essi scesero per vie diverse dalle Alpi nella pianura lombarda chiamata Insubria dai suoi abitatori Insubri (Insombri di Polibio, II, 16; III, 86; Sumbri di Strabone, V, 9). E poiché un loro pago aveva questo nome, ritenendo essi tale concomitanza un felice augurio, vi si fermarono e fondarono una città.
I rinvenimenti preistorici, che nella regione lombarda risalgono all'età neolitica, diventano imponenti nell'età del bronzo con le terremare (zone di Mantova e di Cremona) e con le palafitte (zona di Varese), nell'età del ferro con la civiltà di Golasecca, mentre assai scarse sono le tracce della dominazione etrusca che pure vi aveva città importanti come Mantova e Melpo (Melzo?). Anche nell'ambito della città di Milano e nelle immediate vicinanze, l'età del bronzo ha lasciato le sue tracce nel ricco ripostiglio della Cascina Ranza, a un chilometro e mezzo da Porta Ticinese, e nelle tombe della Cattabrega presso Crescenzago; quella del ferro nelle tombe del cortile dell'ospedale di S. Antonino. Ma solo coi Celti Insubri si afferma l'esistenza della città di Milano e insieme l'elezione sua a centro dei vici che vi si andarono fondando, ed è con essi che s'inizia la sua storia antica, di cui gli otto secoli (400 a. C.- 400 d. C.) possono essere divisi in tre periodi. Nel primo (400-222 a. C.) cadono le sue imprese contro il popolo dei Taurini Liguri e contro l'etrusca Melpo, la cui distruzione (396 a. C.), mentre assicurò la sua vita, pose fine alla dominazione etrusca nel nord d'Italia; le guerre mosse anche dai suoi Insubri come da tutti i Celti contro Roma, che dalla presa di Roma (390) vanno alle battaglie sanguinosissime terminate nel 222 con l'assoggettamento da parte dei Romani di tutta la Transpadana, dopo l'assalto e la resa di Milano e della minore Como. Nel secondo periodo (222-42 a. C.) la lotta non è cessata del tutto, ma vi assume carattere di ribellione; poiché Insubri e Boi, presi accordi con Annibale, gli aprono i valichi delle Alpi, partecipano con lui, ora vincitori ora vinti, a non poche battaglie, finché, traditi dai vicini Cenomani, e sconfitti presso il Mincio (197), Milano è ancora una volta assalita e presa dalle armi romane e la Gallia Cisalpina definitivamente pacificata (196). S'inizia così per gradi la trasformazione di Milano da capitale celtica a città romana e nell'89 a. C. la lex Pompeia le concede lo ius Latii minus, aggregandole una vicina zona di tribù alpine; nel 49 la lex Rubria, ispirata da Cesare, ne riordina l'organizzazione giudiziaria, collegandola a Roma; nello stesso anno essa beneficia del diritto di città e del regime municipale concesso alla Transpadana da Cesare (Dione, XLI, 36); nel 42, infine, viene unita con tutta la Transpadana all'Italia e, con Augusto, chiamata a far parte dell'XI regione. Da questa data, con cui ha principio il terzo periodo della sua storia (42 a. C.-404 d. C.), fino a tutto il primo secolo dell'impero, essa è un libero comune, municipium. La tribù in cui è iscritta è l'Oufentina, i suoi magistrati sono quatuorviri e duumviri, sebbene di essi non ci restino che due e incerte lapidi. Assume più tardi, come pare con gli Antonini, il titolo di Colonia Antoniniana Aelia o Aurelia Augusta Mediolanum, nome mutato più tardi in Colonia Gallieniana Augusta Felix Mediolanum. Divenuta così da povero vicus insuber ricca colonia romana, prima fra le città di Occidente dopo Roma per grandezza e popolazione, viene da Massimiano scelta a sua sede e nel 292, per la ripartizione dell'impero fatta da Diocleziano, designata a residenza di uno degl'imperatori e, fra altri magistrati, del prefetto del pretorio (praefectus Italiae) e di uno dei due vicarî (vicarius Italiae), finché nel 404 la sede dell'impero è trasportata a Ravenna.
Attorno a Milano più volte si combattè vittoriosamente. Gallieno vi assedia l'usurpatore Aureolo nel 268 d. C. La prima devastazione di barbari avviene sotto Aureliano, quando i Marcomanni si spingono verso la ricca Mediolanum.
Nel sec. IV Milano presenta un quadro di grande attività e accanto a questo sviluppo d'industrie e di commerci s'aggiunge una febbre di godimenti, una smania d'accumulare patrimonî a cui si contrappongono le violente invettive dei predicatori.
A dimostrare come il traffico del denaro fosse attivo e lucroso, basta ricordare l'esistenza di una colonia israelita abbastanza numerosa, la cui presenza fu segnalata ai funerali di S. Ambrogio. Si sfoggiava a Milano grande lusso, specialmente nel periodo decadente - anzi a cagione della decadenza - e indice dei godimenti era la fama che circondava i comici e i mimi, ai quali si dedicavano monumenti solenni.
Dopo la morte di Teodosio la corte imperiale si ferma a Milano, che esercita pertanto una potente egemonia sull'Italia occidentale. Questa fortuna di Milano fu, forse, mal giudicata dal Gabotto, il quale ne fece la sfruttatrice dell'Italia superiore che tendeva ad assorbire con la sua forza espansiva. Infatti la diminuzione del traffico, inflitta dalle piraterie vandaliche a Genova, a Marsiglia, a tutti i porti della costiera gallo-italica del Mediterraneo, aumentava a sua volta il commercio e la fortuna di Milano. Gli scambî fra l'Oriente e le Gallie seguivano le vie terrestri e fluviali dell'Italia superiore. La grande ricchezza di Milano si palesa specialmente negli avvenimenti di cui è pieno il sec. V. Molto presero i Goti, ma gli Unni, giunti dopo, trovarono tanta preda che, soddisfatti, risparmiarono le persone e non guastarono neppure gli edifici.
Vent'anni di pace, dopo l'invasione degli Unni, avevano ridato a Mediolanum il suo splendore. Ma erano gli ultimi sprazzi di una civiltà al suo tramonto: le classi politiche erano esaurite; la ricchezza in poche mani aveva distrutto la classe media, cemento della società, ed era rimasta una plebe anonima rinchiusa a forza nei collegia accanto a un'aristocrazia di plutocrati. L'energia più sana e più forte, l'energia che aveva in sé i veri elementi ricostruttori in mezzo allo sfacelo della società, era il Cristianesimo, il quale, per quanto lacerato da profondi dissidî ed eresie, era pur sempre una forza sociale di prim'ordine. Nel torbido Medioevo, saranno i vescovi che salveranno la città e favoriranno, consapevolmente o inconsapevolmente, le prime libertà comunali.
Milano prima della costituzione comunale. - Del fosco periodo barbarico, poche memorie della città sopravvivono. Tuttavia, benché rimasta in seconda linea durante il regno di Teodorico, di Amalasunta e di Teodato, Milano era venuta riparando le immense iatture sofferte e riprendeva, sotto il regno di Vitige, il suo posto di prima città dell'Occidente, dopo Roma. Ma quando Belisario sbarcò in Italia, i Milanesi accolsero festosi una schiera di Greci giunti come liberatori. La vendetta di Vitige fu terribile. Uraia, nipote del re, assediò con ausiliarî franchi la città, e presala nel 539, dopo valido assedio e ancor più eroica difesa, la metteva a sacco e fuoco. La memoria della strage si conservò a lungo nelle tradizioni e nelle fonti locali. Col dominio bizantino, lentamente Milano risorse; ma non fu più la superba e splendida città imperiale.
Qui appare per la prima volta l'alto grado di autorità e di potenza a cui erano giunti i vescovi. Essi sono partecipi all'elezione dei maggiori magistrati: ad essi è deferito il controllo delle rendite e delle spese municipali: ad essi medesimi qualche volta sono affidati l'ufficio e l'autorità di difensore, così da sembrare - come scrive A. Ratti - quasi il punto di passaggio dalla costituzione romana municipale a quella del Medioevo.
E la nobile funzione del vescovo appare in tutta la sua grandezza e pietà nel momento dell'invasione longobarda, specialmente durante l'interregno dei 36 duchi, quando, tra la morte di Alboino e l'assunzione al trono di Clefi, si scatenarono le stragi.
Pare che a Milano sedesse un duca e permane ancora il ricordo di questo magistrato longobardo nella denominazione di Cordusio, ossia curia ducis. Erano scomparse le magistrature romane, le corporazioni forse non sopravvivevano più: la città spoglia dei suoi templi e palazzi si serrava attorno alla cattedrale la cui piazza serbando il nome di forum, diventava il luogo del mercato minuto e piccolo, dove si vendevano le derrate e gli oggetti più comuni alla vita.
A Milano si sa che nel sec. VIII la pietà e la carità erano molto in onore. Si sa che un ricco chierico, Dateo (arciprete della Chiesa Maggiore), fondò un ospizio per raccogliere i bambini esposti: si sa dell'istituzione di opere pie a vantaggio dei miseri. Ma la città doveva essere squallida: le mura diroccate; vaste piazze erbose, dove prima erano cospicui monumenti, prendono il nome di pasquee (pasquari), brere, brolî.
Tuttavia la città non muore: trova in sé le energie per risorgere e Milano deve la sua risurrezione nel Medioevo agli arcivescovi (v. Ambrosiana, chiesa). Spiccano nelle tenebre dei tempi le figure di Angilberto II (824-860) e di Ansperto da Biassono (868-881) che preparò la prevalenza politica degli arcivescovi milanesi, che avrebbe più tardi culminato con Ariberto da Antimiano. Ansperto presiede l'assemblea di Pavia che riconosce Carlo il Calvo re d'Italia; Ansperto restaura le mura di Milano.
Verso la seconda metà del sec. X si nota un'energica ripresa della vita cittadina. Tra il sec. IX e il X i negociatores o mercanti appaiono fra ì principali cittadini: lentamente e sicuramente si costituisce una nuova aristocrazia. Il governo comitale essendo debole e lontano, ne profittavano personaggi locali saliti in notorietà per le ricchezze: costoro finiscono per avere nelle loro mani gl'interessi maggiori della città, i quali probabilmente si rannodavano attorno a certi gruppi familiari diventati col tempo assai potenti, indipendentemente dai grandi magnati dello stato. La vita milanese si svolgeva su una base economica e commerciale di una notevolissima entità e per niente inquinata da forme o da tendenze feudali. L'infeudamento delle pievi dell'archidiocesi avvenuto sotto Landolfo da Carcano può aver giovato a qualcuna di queste famiglie doviziose le quali entrarono a far parte dell'aristocrazia feudale (capitanei). Non è tuttavia da escludere un inurbanamento di famiglie feudali della campagna, le quali, prendendo stanza nella città, parteciparono ben presto alle lotte politiche e religiose. Ma non bastava essere in città per partecipare alla vita cittadina. C'era una differenza fra l'habitator e il de civitate. Questi ultimi erano veri cittadini che potevano vantare l'origo milanese. Ma probabilmente tale cittadinanza si poteva, in certi casi, acquistare indipendentemente dall'origo. L'autorità dei capitani, appoggiati dall'arcivescovo, andò sempre aumentando così che finirono con l'accentrare in sé tutta l'attività politica, giudiziaria e amministrativa della città. Scrittori contemporanei, come Bonizone, dànno rilievo a tale partecipazione dei capitani alla vita pubblica con esclusione di altri elementi cittadini. Naturalmente doveva nascere un urto. E il primo fu tra nobili primarî (capitanei) e secondi nobili (valvassores); il secondo avvenne fra i due ceti nobiliari riuniti e la borghesia (pataria); e il conflitto fu aggravato dalla lotta fra il clero romano e il clero simoniaco e concubinario. I capitani furono la causa del passaggio di fatto dal governo del conte a quello, cosiddetto, dell'arcivescovo. Infatti se in campagna e nelle pievi a loro infeudate erano feudatarî dell'arcivescovo, in città erano in sostanza cittadini; ma, dati i loro rapporti diretti con l'arcivescovo, non avevano più ragione di trovarsi nella curia ducis (Cordusio) dove aveva sede il governo del conte, ma nello stesso broletto dell'arcivescovo dove si sposterà il centro della vita cittadina, dove troveremo notari e giudici; e, lì presso, nella cattedrale, anche una scuola d'arti liberali. E sarà tale l'influenza esercitata anche materialmente dal luogo, che più tardi - quando il comune si costruirà la sua sede indipendente - non la chiamerà più curia, come sarebbe stato più logico e più conforme anche a una reminiscenza romana, ma broletto: e sarà il Broletto nuovo del Comune.
I valvassori costituivano una seconda categoria di nobili, la cui origine non si presenta così chiara come per i capitani. Per i valvassori le fonti milanesi non lasciano adito a ipotesi ragionevoli. Gli scrittori non sono mai riusciti a ben isolare questa classe nei suoi proprî caratteri. Parrebbe secondo Wipone, cronista tedesco, che anche costoro, come i capitani, avessero avuto origine prevalentemente cittadina. Ma potrebbero essere stati piccoli nobili di campagna che dopo avere avuto un beneficio, come subfeudo, dai capitani, s'inurbano in parte, e in parte rimangono in campagna a custodire le loro terre. I valvassori compaiono sempre insieme con i capitani come classe sociale; ma il fatto di essere sempre con i capitani e di formare con loro la nobilitas, li pone in seconda linea specialmente dopo il 1037, quando Corrado il Salico estese anche a questa minore categoria di nobili l'ereditarietà del beneficio.
I cives sono invece bene individuabili. Si vollero far diventare gli esponenti di un vero partito democratico, ma in sostanza erano gente ricca non feudataria. Nella grande lotta contro il clero simoniaco e concubinario è un ricco borghese di Milano, lo zecchiere Nazario, che fornisce i mezzi finanziarî per l'impresa ad Arialdo dopo un comizio tenuto nel 1057, in occasione della traslazione di S. Nazaro. Quest'alta borghesia fu prevalentemente con la pataria fino a quando non fu disgustata dai metodi violenti usati dagli estremisti del partito romano e cattolico. Questo motivo, accompagnato da un altro motivo politico nato dalle conseguenze della lotta delle investiture, spinse i cives a un accordo con i nobili: da questo accordo trae appunto origine il comune.
Con Ariberto da Antimiano, il potere politico dell'arcivescovo tocca l'apogeo. I nobili minori si sollevano contro Ariberto e i nobili maggiori: dai quali poi lo stesso arcivescovo, preoccupato dall'appoggio che Corrado il Salico, imperatore, dà ai nobili minori, si distacca; arma il popolo e gli dà il carroccio. Ariberto diventa per il popolo un nuovo S. Ambrogio. Ma Corrado assedia Milano; e tale è la difesa compiuta dai cittadini che l'imperatore deve levar l'assedio. Intanto le parti s'accordano; ai valvassori è garantita la successione nei feudi. Un fatto volgare di cronaca fa divampare l'odio fra nobili e plebei. Lanzone da Corte sposa generosamente la causa del popolo. Segue un periodo torbido di violenze. Il vecchio arcivescovo Ariberto già è messo in disparte; i nobili cacciati. Nel 1045 si fa la pace. Ma scoppiano tosto nuovi conflitti. Si venne ad atrocissime lotte a cui s'immischiarono arcivescovi e papi e l'imperatore Arrigo IV, e in cui eccellono le figure di Arialdo e di Erlembaldo. Nel 1098 la contesa era finita: un altro avvenimento storico era in quegli anni maturato; la prima crociata aveva rivolto verso l'Oriente l'attività lombarda e lo spirito d'avventura dei suoi nobili guerrieri.
La causa vera dell'origine del comune va ricercata, oltreché negli elementi sociali che abbiamo veduto, anche nel potere arcivescovile. L'arcivescovo divenne, di fatto, l'autorità politica direttiva della città. Con l'aiuto della classe dei capitani dominatrice in città e feudataria dell'arcivescovo in campagna, e senza che vi fosse un fondamento giuridico preciso proveniente da un titolo, il metropolita di Milano poteva di fatto diventare il capo politico della città. A questo giovò la decadenza di Pavia come capitale del regno d'Italia. Le origini della grandezza di Milano e anche del potere temporale dell'arcivescovo sono da ricercare verso il principio del sec. XI. Con Ariberto, Milano si era ormai assicurata la supremazia di fatto nel regno d' Italia, specialmente dopo l'avvenuta distruzione in Pavia del palazzo regio. Con ciò Milano assunse una posizione elevatissima senza che vi fosse mai stato un trasferimento reale di diritti regi nell'arcivescovo. L'attività giusdizionale e amministrativa si spostò dalla curia ducis al broletto e qui si accentuò ogni attività di giudici e notari; e forse la scuola episcopale fiorì anche nelle lettere e nel diritto, come ne è prova un documento del sec. XI che parla di un Otto notarius sacri palatii ac legis lector.
Intanto il godimento delle regalie passò dal conte alla città con questa limitazione: che prima chi ne godette furono l'arcivescovo e i capitani, poi in seguito a lotte civili fu esteso anche ai valvassori. I cives rimasero fuori: ed è qui che comincia la grande contesa che finirà con l'accordo delle tre classi: capitanei, valvassores e cives.
La ricchezza dell'arcivescovo a Milano fu la causa prima della sua potenza politica. Ma il marchese di Milano, anche se materialmente non c'è, è tuttavia presente nelle istituzioni di diritto pubblico, le quali lo presuppongono. Infatti esso appare nei placiti; e anche - sebbene più intensamente - nella vita pubblica. L'arcivescovo Ariberto, pur avendo molta influenza politica, non si è mai sentito il capo legale della città. Un più evidente avviamento verso il governo arcivescovile vero e proprio avviene in seguito.
Il successore di Ariberto, Guido da Velate, non è ben voluto dall'aristocrazia: ma egli sa parteggiare, si volge verso i sostenitori del clero simoniaco, avversa la pataria e combatte. Diventato, sotto un certo aspetto, capo parte, si presenta come il campione del patriottismo puro contro le innovazioni di Roma e come il difensore della Chiesa ambrosiana: anzi sotto questo aspetto egli acquista, in un determinato momento, una certa popolarità, quando specialmente la controversia è più accanita. Da qui si vede come faticosamente l'arcivescovo mirasse a conquistare il predominio sulla città. Nella lontananza dell'imperatore, impegnato nella gigantesca lotta delle investiture, nello sfacelo ormai completo della unità del Regnum Italiae, quale autorità può invocare Milano? In un momento particolare della sua storia un dittatore con pieni poteri, Erlembaldo, tiene effettivamente il governo della città: ma neppur lui trova una base giuridica al suo potere. Infatti gli organi della vita cittadina rimangono nel Broletto e non nel palazzo pubblico da lui occupato presso S. Vittore ai Quaranta Martiri. D'altra parte è spontaneo il moto di tutti i cittadini - e speeialmente dei maggiori - verso l'arcivescovo, quando difende l'integrità della Chiesa ambrosiana. Ma questo stesso bisogno di cercarsi una base in uno dei partiti in cui la città è divisa, dimostra che l'arcivescovo non era di diritto il capo della città.
Nel 1066 l'arcivescovo Guido, per cattivarsi l'animo dei Milanesi, parla come un demagogo; e li fa insorgere per spirito di patriottismo, dicendo che si voleva assoggettare Ambrogio a Roma. Più tardi, trovandosi a mal partito, convoca i nobili che, oltre ad essere suoi vassalli, sono anche potenti cittadini e usa l'oro per trarli a sé. Dall'altro lato Erlembaldo non ha altra base che la curia di Roma. Come si vede da questi atti, le due forze in contrasto sapevano di non avere un'autorità giuridica da far valere per giustificare le loro azioni; e questo perché l'unica autorità legittima era sempre il vecchio marchese Azzone che, al concilio di Roma convocato da Gregorio VII, intervenne ufficialmente insieme con la contessa Matilde.
Ma invece dal 1075 al 1117 assistiamo a una progressiva legalizzazione del governo arcivescovile. Proprio nel momento in cui maggiormente fervevano le lotte tra la Chiesa e l'Impero, l'arcivescovo si sentì veramente capo della città (dominus in temporalibus, frase che diventerà tecnica e sarà usata anche dai cronisti per indicare una situazione di diritto oltreché di fatto). Allora tutti i cittadini lo seguirono; sia che passassero, con l'arcivescovo Tealdo, al partito imperiale, sia che ritornassero guelfi con Anselmo da Bovisio alleandosi con Cremona, Lodi, Piacenza (1097). Non vi sono più marchesi o conti a rappresentare una larva di potere regio, non ci sono più dittatori del popolo. Il clima storico è cambiato e non ammette più gli esperimenti di Lanzone e di Erlembaldo.
L'arcivescovo, ormai senza più contrasto, governa con l'appoggio delle tre classi dei cittadini, così che i primi consoli non sarebbero altro che i consiglieri dell'arcivescovo tratti dalle tre classi di cittadini, e per ciò non sarebbe errato riportare al 1097 l'origine del consolato. Ma è da ritenersi che l'istituto del consolato, come consigliatore dell'arcivescovo, si possa riportare indietro di qualche anno; in un'epoca che si può anche precisare - anno più anno meno - attorno al 1085. Per questo il documento, ben noto, del 1097 può parlare di un consulatus civium prope ecclesiam S. Mariae come di cosa già esistente da qualche tempo. Non a torto G. Giulini usa l'espressione "il vescovo coi consoli a capo della repubblica" in cui egli vede l'essenza del vero governo arcivescovile condiviso con i cittadini. A maggior ragione, A. Solmi nel suo volume Il comune e la storia del diritto offre molti argomenti a sostegno di questa ipotesi. Egli ricerca nella istituzione consolare un'origine imperiale e romana.
Ora proprio nel 1081 Milano si volge alla parte imperiale; e se si decide a questo passo, dopo tante lotte, certamente avrà avuto qualche vantaggio da Enrico IV e tale vantaggio non poteva consistere che in un riconoscimento giuridico dell'autonomia cittadina di fatto conquistata durante il sec. XI, che vide sorgere e organizzarsi le tre tipiche classi cittadine: capitanei, valvassores, cives. Le stesse due dittature di Lanzone e di Erlembaldo devono aver avuto un valore pressoché negativo agli effetti della conquista dell'autonomia e della formazione giuridica del comune. Infatti se Milano accede alla parte imperiale, è per il disgusto degli eccessi a cui arrivò specialmente Erlembaldo: i ricchi cives abbandonarono, anche prima del 1075, la pataria e affrettarono la conciliazione, ottenendo in compenso di partecipare con i capitani e con i valvassori al governo e all'amministrazione della città. In questi anni in cui si afferma il consolato, tanto Tealdo quanto Anselmo da Bovisio, i due arcivescovi, sono nominati col favore dell'imperatore. Anselmo, più tardi, si pente e trascina con sé, alla parte guelfa, tutta la città concorde. Ma ormai la costituzione comunale è affermata; e la figura dell'arcivescovo appare come quella di un capo stabile e sicuro della città, in quanto le tre classi dei cittadini lo riconoscono; e questo avviene in un modo ben più esatto e preciso che non ai tempi di Ariberto e di Guido, quando il predominio dell'arcivescovo è incerto e senza una base solida nelle varie classi cittadine, continuamente ondeggianti e quindi soggette a mutamenti, crisi, dittature. Con la costituzione consolare è possibile l'ordine: e il governo arcivescovile, dal punto di vista del diritto autonomo della città, è riconosciuto e quindi, in certo modo, è legittimo: ma non è così e non sarà mai dal punto di vista del diritto regio e imperiale. È questo il punto debole del governo arcivescovile. Ne abbiamo una prova nel testo del trattato di pace che prende il nome da Costanza.
Infatti nel cap. VIII del trattato stesso si fa una distinzione esatta fra le città in cui il vescovo "per privilegium imperatoris vel regis comitatum habet" e quelle che tale privilegio non hanno. Dunque intanto si ammette, come base della distinzione dei comuni, la natura del governo vescovile (che può esser di fatto o di diritto, ossia per privilegio). Proseguendo, il cap. VIII dice che nel caso in cui il vescovo abbia il comitato per concessione regia, se i consoli sogliono ricevere "consulatum per ipsum episcopum, ab ipso recipiant sicut recipere consueverunt" - come a Milano - un governo di fatto "unaqueque civitas a nobis consulatum recipiet". Che cosa vuol dir questo? Che il consolato, come magistratura, è legittimo e legale: che però esso deve ricevere la conferma da un'autorità di stato: delegata se il vescovo abbia avuto l'investitura del comitatus; diretta se il vescovo tale investitura non aveva.
Questa disposizione doveva segnare il punto di partenza della fine progressiva del governo arcivescovile di Milano: non prima l'arcivescovo fu eliminato dalla vita politica di Milano.
La magistratura consolare forma l'organo principale del comune con funzioni giudiziarie, amministrative e politiche. Più tardi l'amministrazione della giustizia si differenzierà dalle altre funzioni e sarà esercitata da consoli di giustizia. Probabilmente le elezioni avvenivano per ceti e ogni ceto eleggeva - come crede C. Manaresi - nel proprio seno quel dato numero di consoli stabilito negli accordi presi tra i ceti stessi. Forse le elezioni si facevano per porta, dato anche il costante multiplo di sei (perché sei erano le porte) che si trova negli elenchi consolari. Probabilmente i eonsoli duravano in carica un anno: neppure è certo il numero dei consoli.
Altro organo del comune era il consiglio generale. Antica è la consuetudine delle adunanze del popolo e il documento dell'879, che contiene il testamento di Ansperto arcivescovo, cita una località milanese con queste parole: "in foro publico quod vocatur Asamblatorio". Durante la lotta della pataria i cronisti parlano di frequenti adunanze a cui partecipava tutto il popolo dal 1045 al 1057. Nel sec. XII le adunanze, dette conciones, s'indicono per notificare al popolo gli atti principali della vita politica interna ed estera. Ma di mano in mano che il governo consolare si rafforza, le adunanze dell'assemblea si fanno più rare. Intanto anche l'assemblea tumultuaria si organizza in forma giuridica. Si costituisce cioè la credentia o consiglio generale di 800 membri eletti fra i cittadini.
Gli anni che passarono dalla formazione storica e giuridica del comune fino alla grande crisi che mise alla prova la bontà dei suoi istituti, cioè la lotta con Federico I, ci attestano il perdurare, quasi il rafforzarsi di questa forma di governo che con poca esattezza può dirsi repubblicano: una repubblica sotto l'alta signoria dell'arcivescovo. Il comune però nei primi anni del sec. XII risulta formato con l'unione delle tre classi le quali nominano ciascuna un certo numero di consoli sotto la presidenza, per dir così, dell'arcivescovo. I comuni furono l'ultima conseguenza della disgregazione del regnum Italiae e la loro gelosa autonomia fu la causa della loro profonda debolezza. Milano, che ritentò a suo profitto di fare l'unità che la distruzione del Palatium pavese aveva frantumato, vide subito coalizzarsi contro di lei le altre città lombarde.
Negli anni che precedettero l'avvento al regno di Federico I, l'autorità del vescovo era assai forte. La guerra di Como dimostra con grande evidenza la massima ingerenza dell'arcivescovo nella politica del comune e il suo grande potere. Del resto a Roncaglia nel 1158 i Milanesi andarono con il loro arcivescovo e con i loro consoli. Ma da quella riunione, per tutto il tempo che durò la crisi politica, il perno della controversia, oltre che nella questione delle regalie, fu tutto nel principio di staccare il governo consolare dall'influenza dell'arcivescovo per riportarlo alla diretta dipendenza dall'impero.
Resasi sempre più difficile la situazione, Federico Barbarossa pose l'assedio a Milano aiutatò dalle milizie lombarde. Nel 1162 i Milanesi si arresero e i patti della resa furono severissimi: abbattute le fortificazioni e qualche palazzo pubblico, gli abitanti furono costretti a risiedere in quattro borghi costruiti alla meglio fuori della città, con mattoni, travi e paglia; là vissero quattro anni una vita misera che però servì d'esempio anche alle città nemiche le quali s'accorsero quanto fosse dura l'oppressione germanica (v. lega, XX, p. 734). La guerra divampò ancora e fu lunga e con alterne vicende (v. Legnano). Dopo il 1176 incominciarono le trattative e nel 1183 si firmò la pace a Costanza. Ma la pace del 1183 che avrebbe dovuto aprire alla vita comunale una via lunga e tranquilla preparò invece una serie di torbidi.
Difficile diventa seguire le linee del diritto pubblico attraverso l'aggrovigliarsi degli avvenimenti politici. La costituzione del primo comune non reggeva più, una volta che i patti di Costanza avevano riconosciuto il comune di Milano, mettendo in certo modo fuori della sua costituzione l'arcivescovo. Svanita ogni sua ingerenza nella elezione dei consoli, anche l'aristocrazia feudale avvezza a disporre del comune come di cosa sua si vede messa da parte. Tutta la città acquista cosi il diritto di eleggersi i consoli, salva una formale investitura imperiale. Ecco le classi popolari farsi avanti, subito alla fine del sec. XII: e incomincia l'instabilità del governo, che passa dalla magistratura plurima consolare a quella unica del podestà. I nobili si stringono sempre più all'arcivescovo, formando l'opposizione alla motta, associazione composta di negozianti e di ex-feudatarî, che s'inserisce prima fra i nobili e il popolo, avvicinandosi col tempo alla classe popolare, la quale si inquadrerà nella Credenza di S. Ambrogio (1198). I nobili organizzano squadre dette dei gagliardi che si urtano con i popolari. Una pace si rabbercia per opera del podestà Aveno da Mantova nel 1225. La Credenza partecipa alla vita politica attraverso la corporazione di mestiere.
Sono di quest'epoca i regolamenti o statuti sull'utenza delle acque; alla quale utenza partecipano i popolani sullo stesso piede di uguaglianza dei nobili, che prima, come soli titolari delle regalie, cedevano l'uso di queste agli artefici a prezzi alti e quasi monopolistici.
La politica del comune democratico avrà tre scopi: accogliere con larghezza nel comune, come cittadini, i foresi; ripartire equamente il peso delle imposte su tutti mediante il catasto; acquistare nell'interesse del comune molte regalie rimaste come monopolio della classe nobiliare. Si fanno pure notevoli opere pubbliche nel sec. XIII. Il risanamento della zona fra porta Romana e la Chiusa è del 1269. Non parliamo del catasto che fu un'opera condotta con grande energia fra l'ostilità dei nobili e del clero. Sono del 1216 le Consuetudini di Milano raccolte da giureconsulti milanesi sotto le podesterie di Brunasio Porca e Iacopo Malacorrigia.
La classe del popolo nei primi anni del Duecento fino alla pace di Uberto di Vidalta nel 1214 è in continuo incremento. Nel 1204 incominciano le secessioni della nobiltà; nel 1212 si espellono gli ordinarî della chiesa milanese, nel 1221 l'arcivescovo esula con tutta la nobiltà. Questo dimostra come il rapporto che lega capitani e valvassori col vescovo sia tutto di natura feudale: l'arcivescovo per aumentare la forza del suo partito è costretto a fare enormi concessioni ai laici, così che le sue rendite diminuiscono.
In mezzo a queste lotte intestine s'inserisce una nuova crisi con l'impero la quale darà luogo a nuove controversie e a un'altra lega di città lombarde: è la guerra della seconda lega lombarda contro Federico II di Svevia, che per Milano significa il momentaneo disastro di Cortenuova sull'Oglio (1237). Quasi non bastassero i tumulti politico-sociali e le guerre esterne, si aggiunsero anche le violente controversie provocate dall'intolleranza religiosa e in una di queste rimase ucciso Pietro da Verona, domenicano, zelantissimo persecutore di eretici, che fu poi venerato con il nome di S. Pietro Martire. E così si chiude il convulso periodo comunale.
La signoria. - Torriani e Visconti. - Un tentativo fatto dall'arcivescovo Leone da Perego nel 1256 per restaurare un governo aristocratico andò a vuoto, ma mise in allarme la parte popolare, la quale impensierita si diede un capo nella persona di Martino della Torre, già benemerito dei Milanesi perché aveva raccolto e riordinato l'esercito battuto da Federico II, accogliendolo nella Valsassina di cui i Torriani erano signori.
Gli avvenimenti politici che inquadrano tutto il vasto movimento dell'ultimo trentennio del sec. XIII si raccolgono attorno all'antagonismo di due grandi famiglie, alla testa del movimento, Torriani e Visconti. Capi del popolo i primi e guelfi; capi dell'aristocrazia i secondi e ghibellini. Martino della Torre fu anziano del popolo, carica che celava una signoria di fatto (1241), Filippo fu podestà perpetuo del popolo; ma nel 1277 Ottone Visconti, arcivescovo di Milano dal 1262, con l'appoggio di nobili della città e del contado, riesce ad aver ragione degli avversarî nella famosa battaglia di Desio, dove Napo della Torre è preso prigioniero e finirà i suoi giorni in una gabbia del castello Baradello di Como. A Ottone Visconti succede il nipote Matteo, come capitano del popolo (1287). Il ritorno dei Torriani con Guido (1302) fece crollare momentaneamente le fortune viscontee: ma fidando in Arrigo VII - speranza di Dante e dei ghibellini d'Italia - Matteo riebbe il potere nel 1311.
L'esaurimento dello stato repubblicano - assiso su basi costituzionali mal sicure - non permise altri ritorni offensivi e i successori di Matteo Visconti regnarono assoluti signori della città e dello stato. Azzone nel 1330 si fece conferire solennemente la signoria col titolo di dominus generalis.
Da quello storico avvenimento, il comune cessa e si costituisce il governo di un solo: del signore. Al comune subentra un organismo statale che si avvia a formare lo stato moderno. Milano diventa la capitale di un esteso dominio, assai incerto nei confini, ma che giunge sino a Verona a E., al Monferrato a O., e a S. si spinge, in un certo momento, fino a Perugia, minacciando la stessa Firenze: così la signoria si prestò allo sviluppo dell'economia industriale e mercantile, e divenne terreno favorevole a una coalizione di forti interessi economici.
Nel 1330 ebbe termine la legislazione frammentaria autonoma per via di statuti, poiché si provvide alle necessità giuridiche con decreti di principi e con le ordinanze dei magistrati che dai Visconti traevano l'autorità loro. Decreti e ordini che si copiavano nei volumina statutorum e in piccola parte si trascrivevano nelle successive compilazioni e riforme degli statuti. Sorge così una nuova fonte di diritto: i decreti dei signori di Milano. Le compilazioni di statuti risalgono ad Azzone Visconti (1330), all'arcivescovo Giovanni (1351) e infine a Gian Galeazzo (1396). Quest'ultima è la raccolta che fu tramandata a noi: le altre, fuse in questa, andarono disperse.
Il più celebre dei dodici Visconti fu Gian Galeazzo, che, impadronitosi del potere a danno dello zio Bernabò, ottenne dall'imperatore il titolo di duca di Milano (1395), trasformato nel 1397 in quello di duca di Lombardia, che comprendeva allora 30 città e andava dalle Alpi centrali a Bologna, da Alessandria a Belluno. Fu il periodo aureo del ducato: sorsero allora i due più superbi monumenti del periodo glorioso della signoria: il Duomo di Milano (1386) e la Certosa di Pavia (1396). Imparentata con le corti d'Europa, la dinastia era fra le prime d'Italia. Gian Galeazzo, l'uomo dalle cento fila, come lo chiamava il Capponi, morì nel 1402 di peste. Successero Giovanni Maria (m. 1412) e Filippo Maria (m. 1447).
Il popolo, ormai dato alla mercatura e ai negozî, alle arti e ai godimenti raffinati, si era con gioia liberato dal servizio militare di cui tanto s'era gloriato nel periodo comunale e pagava volentieri le costose compagnie di ventura pur di non combattere più.
Nel 1447 moriva Filippo Maria nel Castello di Porta Giovia senza legittimi eredi. Il partito contrario ai Visconti profittò del momento per proclamare la repubblica ambrosiana; che fu una misera cosa. Inetti gli uomini giunti al governo, sfrenate le ambizioni di potere, insidiata la repubblica all'interno, minacciata all'estero da Venezia, non poteva durare (v. Ambrosiana, repubblica). Lo Sforza fu chiamato a difenderla. Questi batté i Veneziani a Casalmaggiore; ma i capitani e difensori della libertà, così si chiamavano i capi della repubblica, che erano 24, s'ingelosirono del valoroso condottiero, che, infine, ribellatosi, pose l'assedio a Milano. Questa per fame si arrese: nel 1450 lo Sforza faceva il suo ingresso trionfale in città.
Gli Sforza. - Così s'instaurò la dinastia sforzesca. Incominciò per Milano un periodo di grande prosperità. Il Rinascimento italiano vi colse alcuni dei suoi più splendidi fiori. Il Castello risorto fu tra le regge più imponenti d'Italia. Si edificarono palazzi e chiese (ad es. le Grazie) gioielli d'arte. Morto nel 1466 Francesco Sforza, che aveva consolidato lo stato, successe Galeazzo Maria, che mori sotto il pugnale di tre nobili congiurati nel 1476. Seguì un periodo d'interregno, per la minorità del figlio Gian Galeazzo, sotto l'energica direzione della madre duchessa Bona di Savoia, secondata dalla fermezza e intelligenza di Cicco Simonetta, che seppe riordinare l'amministrazione dello stato. Ma Ludovico il Moro, zio del minore Gian Galeazzo, montando abilmente l'opinione pubblica contro il Simonetta, cancelliere forestiero (era calabrese), poté impadronirsi del ducato nel 1479, atteggiandosi a tutore del giovane duca. Sennonché con la fine del secolo, la stella sforzesca tramontava ad opera di quella potenza straniera, la Francia, del cui intervento nelle cose italiane, nel 1494-95 non piccola parte di responsabilità aveva avuto proprio il duca di Milano.
Nel 1499 Milano, con il suo dominio, cadeva in potere di Luigi XII re di Francia. Ludovico il Moro tentò di riprendere lo stato e vi riuscì per un momento nel febbraio 1500; ma tradito dagli Svizzeri fu battuto a Novara (aprile 1500). Milano rimase ai Francesi da allora sino al 1513, quando, cacciati i Francesi (v. lega: Lega santa, XX, p. 736), a reggere il ducato fu preposto Massimiliano Sforza, figlio del Moro. Francesco I di Francia, successo a Luigi XII, riacquistava Milano vincendo la famosa battaglia di Marignano (1515): ma ormai Milano, divenuta oggetto di politica europea, centro di convergenza della lotta fra Asburgo e Valois, doveva entrare in un periodo di rapide vicissitudini. Riconquistata ai Francesi e ridata a Francesco II, ultimo degli Sforza, la città dovette attraversare, nel 1525-1530, il periodo più triste della sua storia; assedio del 1526 ad opera delle truppe della lega di Cognac contro gli Spagnoli del Borbone, chiusi in Castello; tumulti popolari violentissimi (nell'aprile 1526) contro le angherie delle milizie tedesche e spagnole stabilitesi in città, rovina di edifici pubblici e privati; spopolamento grave, per la peste che infuriò proprio in quegli anni.
Quando, nel 1529, per effetto della pace, Milano ritornò a Francesco II - duca nominale, dominato dal volere di Carlo V - la città era squallida e desolata. Pochi anni appresso, nel novembre 1535, la morte improvvisa del duca faceva passare Milano e lo stato milanese sotto il dominio spagnolo.
Il periodo sforzesco fu splendido per tante opere d'arte, ma non va dimenticata la grande opera di beneficenza svolta dai duchi, specialmente quella ospitaliera. Il sorgere degli ospedali milanesi aveva coinciso quasi con l'albeggiare del comune, moltissimi ospedali per poveri avendo vantato Milano sempre benefica; ma verso la metà del secolo XV avvenne la concentrazione degli ospedali in un unico istituto, detto la Cà granda, fondato da Francesco Sforza e da Bianca Maria Visconti. Ludovico il Moro, nel 1483, istituiva il Monte di pietà, aggiungendovi l'aiuto del proprio erario. La sede fu donata da Tomaso Grasso in S. Maria Segreta. Altri antichi istituti di beneficenza troviamo in pro dei poveri e dei derelitti, quali gl'istituti della Misericordia, delle quattro Marie e simili, ora concentrati nella Congregazione di carità.
Sotto il dominio spagnolo, quel poco che si poté salvare dell'organizzazione politica e sociale dello stato si dovette alle autorità locali (vicario e dodici di provvisione a Milano) e a magistrature supreme, come il senato, che contesero aspramente la loro autonomia di fronte alle pretese spagnole.
Nello scadimento della cultura, se qualche cosa si salva, è dovuto alla privata energia: spicca fra tutti Federico Borromeo, nipote di S. Carlo, a cui si deve la Biblioteca Ambrosiana, da lui ideata con animosa lautezza ed eretta con gran dispendio dai fondamenti, riuscendo a radunarvi trentamila volumi stampati e quattordicimila manoscritti, oltre a notevoli collezioni d'arte. Carlo Maria Maggi, segretario del senato, poeta in vernacolo e in lingua italiana, dottissimo professore nelle scuole palatine, è la figura più simpatica e più geniale di Milano nel sec. XVII.
Guerre e pestilenze (1630) completano l'esaurimento di questo paese infelice, descritto con vivezza drammatica dal Manzoni nei Promessi Sposi.
Milano imbarbariva con la sua nobiltà spavalda e piena di spagnolesca boria, tanto diversa dalla nobiltà del Rinascimento; le campagne erano corse da bande brigantesche, composte di gente esasperata dalla miseria, dalla fame e da una legislazione penale draconiana, che inaspriva e rendeva disperati i delinquenti invece di avviarli verso la correzione.
Però il Seicento fu un'epoca assai più ricostruttiva di quanto non sia sembrato finora. Il particolarismo municipale si attenua, si forma nella penisola, proprio in quel secolo, l'unità spirituale d'Italia: si forma la pittura italiana, come si forma la letteratura italiana, come si costituisce, pur attraverso a particolarismi locali, una unità di giurisprudenza.
Ma con la morte di Carlo II di Spagna scoppiò la grande guerra europea, detta di successione di Spagna. Si combatteva dovunque: il 24 settembre del 1706 Eugenio di Savoia fu alle porte di Milano: l'ultimo governatore spagnolo, il gaudente principe di Vaudemont, abbandonò precipitosamente il governo lasciando - come sempre nei momenti gravi - lo stato nelle mani delle autorità locali: senato e vicario e XII di provvisione. Eugenio di Savoia fu il primo governatore austriaco. Seguì il principe M. C. di Löwenstein, che per prima cosa ricostruì il Teatro di corte, distrutto da un incendio del 1708. Da allora, a prescindere da una parentesi di tre anni in cui Milano passò al re di Sardegna (1733-36), con un mite governo, l'Austria si affermò sovrana nel Milanese (v. appresso).
Ma il sec. XVIII è per Milano un secolo di rifiorimento, percepibilissimo specialmente nel campo culturale; si riaffermano gli studî di storiografia (Giulini, Muratori e la società palatina); rifulgono i nomi di Pietro Verri, di Cesare Beccaria, di Paolo Frisi, e attorno a costoro una numerosa serie di intellettuali, che poi accetteranno i postulati della rivoluzione francese e appariranno fra 4 dirigenti la Cisalpina e più tardi del Regno italico.
La cultura milanese, in quei tempi, fiorì in modo inusitato, e mentre Parini frustava gl'imbelli aristocratici, altri giovani rampolli di nobile sangue si rivolgevano allo studio dei nuovi problemi di economia, di filosofia, di scienze. Le Scuole palatine diventano un centro vivace di cultura. Accanto a Cesare Beccaria splendono il Longo, economista, e Pietro Moscati, scienziato e medico insigne. Così si preparavano i tempi nuovi.
Dominio napoleonico. - La brillante campagna d'Italia, incominciata nell'aprile del 1796 sugli Appennini del Genovesato, costrinse il pacifico arciduca Ferdinando a lasciare Milano il 9 maggio, mentre i decurioni armavano in fretta l'antiquata milizia civica. Appaiono allora sulla scena altri uomini: il conte Gaetano Porro, il duca G. G. Serbelloni, gli avvocati L. Sopransi e G. B. Sommariva, il conte Francesco Melzi d'Eril. L'ingresso dell'esercito repubblicano (15 maggio), così tipico nei suoi cenci, suscita un delirio d'entusiasmo. Si attraversa un periodo di follia giacobina, con una municipalità di cialtroni urlanti, mentre i cittadini serî attendono in disparte tempi migliori.
La prepotenza militare fece sorgere qua e là torbidi e repressioni violente. Un po' d'ordine lo ridiede la costituzione della Cisalpina (1797): ma per breve tempo perché, partito Napoleone per altre imprese, si tornò al giacobinismo. Intanto il ritorno degli Austro-Russi nel 1799 fece provare ai Milanesi le delizie della reazione cieca e violenta; così che il ritorno di Napoleone, primo console, aureolato della vittoria di Marengo, diede luogo a nuovi scoppî di entusiasmo (1800). Ricostituita la Cisalpina, questa cedette a una nuova costituzione repubblicana, nel 1802 (Repubblica italiana), che ebbe a vice presidente Francesco Melzi (il presidente era Bonaparte) futuro duca di Lodi, e persone moderate e colte come Carlo Verri, Pietro Moscati, Giuseppe Prina. Nel 1805, con la proclamazione di Napoleone imperatore, Milano diventa la capitale del Regno italico.
Un vero risveglio appare nelle coscienze dei cittadini; il movimento era già segnato dagli spiriti imbevuti d'idee francesi, sulla fine del sec. XVIII, ma il regime napoleonico dando, sia pure in apparenza, istituzioni, esercito, bandiera, finanze proprie al Regno italico, ridestò le addormentate coscienze in un fervore di vita nuova.
I Francesi, però, non furono mai ben visti a Milano: è per questo che il ritorno degli Austriaci nel 1814 - cantato anche in versi da Vincenzo Monti - fu quasi visto con benevolenza, perché si sperava ingenuamente che la Santa Alleanza avrebbe mantenuto il Regno italico. Ma dopo i tumulti del 20 aprile 1814, in cui Giuseppe Prina, ministro delle Finanze, fu trucidato dalla plebaglia inferocita, che lo rese responsabile dell'oppressione fiscale di cui invece aveva colpa l'impero, il generale F. H. Bellegarde, austriaco, intervenne con le sue truppe a Milano a ristabilire l'ordine. Fu la fine del Regno italico.
Governò a Milano una reggenza di austriacanti, presieduta dal Bellegarde. A Parigi, una deputazione d'Italia, che avrebbe dovuto rappresentare il regno al congresso della pace, offrì la corona d'Italia a Francesco I: a Milano si abolirono senza proteste i ministeri. Poche tasse soppresse o ridotte bastarono per contenere dapprima ogni velleità di opposizione: indice che la crisi era soprattutto economica. Ma l'Austria fece sentire ben presto il tremendo peso della sua potenza.
Il Risorgimento. - Il governo austriaco divenne presto intollerabile. Esorbitanti le gravezze, oppressiva e tirannica la polizia, tutta l'amministrazione assunse - come dice il Cattaneo - un'indole di colonia. "Il sistema continentale (protezionismo) fu stabilito a sussidio delle tardigrade industrie della Boemia e della Moravia. Spinto il prezzo delle ferrarecce al doppio di quello a cui le forniva l'Inghilterra, ci fu resa quasi impossibile la costruzione delle vie ferrate. Divenne necessità avvilire la stampa, interdire le discussioni politiche e amministrative, angustiare l'insegnamento".
I moti del '21 trovano Milano preparata ad accogliere il fermento rivoluzionario. Le congiure dei carbonari e dei federati determinano una possente reazione austriaca: Silvio Pellico, Pietro Maroncelli, Federico Confalonieri, Giorgio Pallavicino, Pietro Borsieri sono processati e mandati allo Spielberg. Nel 1833 altri moti provocati dalla Giovine Italia preparano l'alba del 1848. Gli occhi si rivolgono al Piemonte. Mentre l'Italia nel '47-'48 è percossa da un fremito di riforme e di rivoluzione, l'Austria raddoppia i sospetti e l'oppressione. Scoppia il meraviglioso, entusiastico moto di popolo che porta alla fuga dell'esercito austriaco. Milano, dopo cinque giorni di battaglia (18-23 marzo 1848), si libera da sola, mentre Carlo Alberto varca il Ticino inalberando il tricolore della rivoluzione. Ma l'episodio ha breve durata. L'Austria, rafforzatasi nell'interno, dedica le sue forze alla ripresa della Lombardia. Il 6 agosto 1848 Radetzky è di nuovo a Milano. L'esercito piemontese, in piena ritirata, accampa sul Ticino in seguito all'armistizio.
Milano ricade sotto il pesante giogo militare austriaco. Qui il 6 agosto 1849, i plenipotenziarî piemontesi firmano la pace con l'Austria. Ma quanta esperienza in questi tempi hanno fatto i Milanesi! Ormai l'Austria sente d'accampare in territorio nemico. Non valgono le blandizie, non vale la severità nel punire i ribelli (moti del 6 febbraio del 1853): lo stesso arciduca Massimiliano, mite e buono, è schivato da ognuno. Né hanno più presa le promesse di riforme. La gioventù emigra in Piemonte e si arruola in quell'esercito. Anni d'ansie e di fremiti; e quando l'esercito franco-piemontese passa il Ticino nel 1859 e Garibaldi ridesta le popolazioni delle Prealpi, Milano è pronta: il suo cuore è una cosa sola col cuore dell'Italia.
Nella nuova Italia Milano si segnala per l'operosità e la complessità di lavoro, che ne fanno il massimo centro industriale e commerciale della penisola (come dimostrarono le due esposizioni del 1881 e del 1906, e come dimostra ora l'annuale Fiera campionaria); ma anche per l'alto senso patriottico e la partecipazione attivissima a tutte le manifestazioni della vita nazionale. Sede, dal 1915, del Popolo d'Italia, Milano vedeva, il 23 marzo 1919, costituirsi i Fasci di combattimento.
Fonti: I cronisti milanesi. - Le fonti della storia milanese non mancano di cronache antiche: tuttavia non possiamo dire che siano abbondanti o imparziali. Fra le fonti più antiche è un'operetta che non ha alcuno scopo politico, ma solo encomiastico; notevole peraltro per la sua antichità. È il ritmo latino trovato in un antico codice veronese dal Muratori e da lui pubblicato nei Rerum (II) col titolo Versus de Mediolano. Con ogni probabilità è del sec. VIII: e da qualche allusione politica si può ritenere posteriore all'anno 739: perché i Longobardi in quell'epoca mandarono aiuti a Carlo Martello nella guerra contro i Saraceni. Il ritmo contiene una descrizione un po' sommaria ed elogiativa di Milano e una lode a re Liutprando e all'arcivescovo Teodoro.
I tre cronisti più importanti del periodo più drammatico della storia milanese (sec. XI e primi anni del sec. XII) sono tre: Landolfo il Vecchio, Arnolfo e Landolfo il Giovane. La cronaca di Landolfo detto seniore, si arresta al 1085 e non contiene che un accenno all'esumazione del corpo di S. Arialdo e dell'onorata sepoltura che gli apprestò l'arcivescovo Anselmo IV nel 1099 e nel 1100. Il suo stile è gonfio e prolisso: l'opera è divisa in quattro libri dove si narra particolarmente la lotta fra il clero simoniaco e quello riformato con una grande parzialità verso il primo.
Arnolfo è partigiano dell'aristocrazia. La sua cronaca s'intitola Gesta Archiepiscoporum mediolanensium (925-1076). In essa egli narra quel periodo agitato di ansie e di contrasti fra l'alto clero e il basso clero, fra l'aristocrazia e il popolo. Con lui e con Landolfo s'inizia la cronaca municipale.
Landolfo il Giovane, nato verso la fine del sec. XI, cronista di ben diversa tempra dai primi due, scrisse una storia di Milano dal 1095 al 1137, dove appare una maggior moderazione che nelle cronache dei suoi predecessori, maggior dottrina e diligenza. Spirito colto e buono scrittore, serviva ai consoli per scrivere loro le lettere ufficiali e per fare loro come da segretario.
L'epoca convulsa e appassionata che corrisponde alla lotta contro l'imperatore Federico I non dà di cronisti milanesi che il cosiddetto "Sire Raoul" di cui non si sapeva nulla oltre il nome: ma dagli studî del Holder-Egger neppure il nome si salvò e la cronaca è anonima. Su Milano, scrissero invece i lodigiani Ottone e Acerbo Moreno e specialmente il tedesco Ottone, vescovo di Frisinga e zio di Federico Barbarossa. Nel sec. XIII gli scrittori aumentano: il domenicano Stefanardo da Vimercate è buona fonte - poetica - per l'epoca di Ottone Visconti; Galvano Fiamma col Manipolus florum, il Chronicon Maius e la Galvagnana. Sono compilazioni indigeste e parzialissime per la famiglia Visconti; di modo che vanno studiate con prudenza. Bonvesin de la Riva nel De magnalibus urbis Mediolani ha molte notizie statistiche sulla città alla fine del Duecento. Il trecentesco Pietro Azario da Novara è buona fonte per la storia viscontea. Incominciano ora gli storici veri fra cui ricorderemo Tristano Calco e Bernardino Corio molto utili per la storia sforzesca.
La cronachistica ha tuttavia ancora notevoli rappresentanti, verso la fine del Quattrocento e la prima metà del Cinquecento in G. P. Cagnola, G. A. Prato, G. M. Burigozzo (in Arch. storico italiano, III, 1842).
Tra le fonti documentarie sono specialmente importanti: per il periodo dell'origine del comune Gli atti del comune di Milano fino al 1216, a cura di C. Manaresi, Milano 1919. Per il periodo visconteo: Documenti diplomatici tratti dagli archivi milanesi, a cura di L. Osio, voll. 3, Milano 1864; il Repertorio diplomatico visconteo, voll. 2, Milano 1911; i Registri viscontei a cura di C. Manaresi, e Gli atti cancellereschi viscontei, a cura di G. Vittani, voll. 2, Milano 1915-1929 (Inventari e regesti del R. Archivio di stato di Milano, I, 1 e 2); i Registri dell'Ufficio di provvisione e dell'Ufficio dei sindaci sotto la dominazione viscontea, a cura di C. Santoro, Milano 1932 (Inventari e regesti dell'Archivio civico di Milano, I). Per la politica estera degli Sforza le Dépêches des ambassadeurs milanais à la cour de Louis XI, a cura di B. de Mandrot, voll. 4, Parigi 1917-1924.
Bibl.: C. Amati, Antichità di Milano, Milano 1821; Corpus Inscript. Lat., V, pp. 633-635, nn. 5672-6343 b; A. De Marchi, Le antiche epigrafi di Milano, Milano 1917, p. 183 segg. e p. 227 segg.; A. Colombo, Milano preromana, romana e barbarica, Milano 1928.
Sempre fondamentale, per il Medioevo, l'opera di G. Giulini, Memorie spettanti alla storia della città e della campagna di Milano, voll. 9, Milano 1760-1775 (sino al 1447; 2ª ed. a cura di M. Fabi, Milano 1854-57, voll. 7, con aggiunta di una parte inedita sino al 1481). E pure P. Verri, Storia di Milano, n. ed. a cura di P. Custodi, voll. 4, Milano 1824-25 (continuata sino al 1848 da E. De Magri e A. Lissoni, voll. 5, Milano 1851); F. Cusani, Storia compendiata di Milano dall'origine ai giorni nostri, voll. 8, Milano 1861-84.
Per l'alto Medioevo e l'età comunale cfr. A. Amati, Ariberto e Lanzone, o il risorgimento del comune di Milano, Milano 1865; E. Anemüller, Geschichte der Verfassung Mailands in den Jahren 1075-1117. Nebst einem Anhang über dans Consulat zu Cremona, Halle 1881; M. A. Bethmann-Hollweg, Ursprung der Lombardischen Städtfreiheit, Bonn 1846; P. Del Giudice, Di un recente opuscolo intorno alla prima costituzione di Milano, in Studi di storia e diritto, I, Milano 1889; C. Hegel, Storia della costituzione dei municipi italiani (trad. italiana), Milano-Torino 1861; A. Lattes, Diritto consuetudinario nelle città lombarde, Milano 1899; E. Leo, Vicende della costituzione delle città lombarde (trad. ital.), Torino 1836; C. Pellegrini, I santi Arialdo ed Erlembaldo, Milano 1897; F. Schupfer, La società milanese all'epoca del risorgimento del comune, Bologna 1869; C. Vignati, Storia diplomatica della lega Lombarda, Milano 1867; A. Visconti, Ricerche sul diritto pubblico milanese nell'alto Medioevo, parte 1ª, in Annali della R. Università di Macerata, III (1928); id., Ricerche, ecc., parte 2ª, in Annali della R. Università di Macerata, VII (1931); A. Bosisio, Origini del comune di Milano, Messina-Milano 1933. Per la costituzione comunale, specialmente C. Manaresi, introd. all'ed. de Gli atti del comune di Milano, sopra cit.
Per l'età visconteo-sforzesca e l'età spagnolo-austriaca, v. oltre: Il ducato di Milano.
Per la storia dei costumi, ecc. v. E. Verga, Storia della vita milanese, 2ª ed., Milano 1930; per l'età sforzesca F. Malaguzzi-Valeri, La corte di Ludovico il Moro, voll. 4, Milano 1913 segg.
Le Cinque giornate di Milano
È passata alla storia, con questo nome, la lotta combattuta dal 18 al 22 marzo 1848 in Milano, tra la popolazione pressoché inerme e le agguerrite truppe austriache. Militarmente, le Cinque giornate costituiscono un esempio tipico di guerra entro le mura di una città, tra una popolazione insorta e l'esercito di una potenza straniera; nella storia delle nazionalità, le Cinque Giornate sono un episodio fulgidissimo di quanto sappia ottenere un popolo sostenuto dalla volontà di scuotere il giogo straniero e di rivendicare la propria libertà.
In Milano, il Maresciallo Radetzky, senza contare un migliaio circa di poliziotti, disponeva di tre brigate di fanteria, di sei squadroni di cavalleria, di sei batterie di artiglieria: in totale di poco meno di 14 mila uomini con 40 cannoni. Altri 5 mila uomini all'incirca furono richiamati, durante la lotta, dalle vicine città e dal confine piemontese e svizzero. Le caserme eran tutte entro le mura e nella parte occidentale della città. Ciò facilitò l'attacco di Porta Tosa e diede agio ai cittadini di ordinare il caposaldo della difesa nella parte orientale.
A questa possente organizzazione i Milanesi non potevano contrapporre che quattrocento fucili, in gran parte da caccia; gli altri d'ogni foggia e d'ogni epoca; non avevano ordinamenti militari, non avevano grandi scorte di munizioni e mancavano di una sufficiente preparazione.
Per comprendere il vero carattere dell'insurrezione delle Cinque giornate e per poterne valutare in modo storicamente esatto le conseguenze, che non furono tutte quali la meravigliosa riscossa avrebbe fatto sperare, è necessario conoscere le aspirazioni e le idee dei Milanesi nel momento in cui la rivoluzione ruppe gli argini.
La rivoluzione europea, propagatasi all'Italia nel 1848, trovava i Milanesi concordi nel bisogno di scuotere il giogo del dominio austriaco, ma divisi da un contrasto profondo, causa certamente gravissima fra quelle che concorsero a frustrare le generose audacie delle Cinque giornate. Mentre alcuni avevano camminato con la rivoluzione, spesso anche precedendola e poi mettendosi, per così dire, ai suoi ordini ogni qualvolta essa aveva tentato d'infrangere i ceppi della restaurazione e della Santa Alleanza, altri s'erano invece sostanzialmente fermati alle idee e ai principî anteriori al 1848, non accogliendo, delle nuove teorie e dei nuovi bisogni, che l'aspirazione all'indipendenza del paese e a una maggiore libertà di stampa e di associazione. Fra questi due estremi partiti fluttuava la massa del popolo lombardo, ancora troppo inconsapevole e immatura per essere capace di un moto spontaneo, ma tuttavia tenuta desta e attiva - non resa però esasperata - dalle diffidenze e dalle vessazioni del governo austriaco, non meno che dalle dimostrazioni e dagli ostruzionismi patriottici.
I primi, che potremmo anche chiamare rivoluzionarî, guardavano con fiducia alla Francia, culla della rivoluzione. Ma quanto era profonda la simpatia per la Francia, altrettanto viva era in costoro la diffidenza per Carlo Alberto, sia per la palese sua avversione alla Francia, sia per la sua condotta del 1821 e del 1834. Carlo Alberto si era bensì riabilitato agli occhi di molti con le sue riforme e con la profferta d'essere il campione dell'indipendenza italiana, la "spada d'Italia"; ma la maggioranza dei suoi avversarî non mancava tuttavia di vedere in lui l'uomo sospinto sulla nuova via dal desiderio d'accrescere la potenza della sua casa, desiderio che, a loro credere, lo teneva legato alle iniziative liberali di Pio IX assai più di quanto non lo stimolasse, a loro giudizio, l'aspirazione all'indipendenza d'Italia. Da ciò un'invincibile ripugnanza per la monarchia e per una eventuale fusione della Lombardia col Piemonte, da essi considerato come uno degli stati meno liberali d'Italia, e la preferenza invece per il regime repubblicano unitario o federalistico. Coi loro scritti, con le loro intese, essi lavoravano strenuamente per il sopravvento della rivoluzione sulle idee retrive straniere o nazionali, ma allo scoppio delle Cinque giornate non ritenevano prossima, imminente anzi - come pure era - l'insurrezione; non si trovavano, per così dire, al loro posto di combattimento, e non furono perciò in grado di prendere in mano il governo degl'insorti e di guidarli alla rivoluzione.
Tenevano il campo opposto i liberali, fautori dell'indipendenza come fine a sé stessa, monarchici convinti e tenaci come erano allora i Lombardi, cioè per tradizione e per l'indimenticato ricordo degli eccessi verificatisi durante il primo periodo repubblicano (1796-1798). I liberali monarchici guardavano con fiducia a Carlo Alberto, rappresentante dell'unica casa prettamente nazionale e ricca di una tradizione militare gloriosa, e diventata anche più benevisa da quando il re sardo, vincendo le sue ripugnanze per il regime costituzionale, s'era messo sulla via che apparentemente era stata segnata da Pio IX. L'entusiamo per Pio IX si estendeva dunque a Carlo Alberto, e i suoi fautori lombardi pigliavano risolutamente posizione contro eventuali tentativi repubblicani, mediante il compromesso col Piemonte. Alla sorpresa insurrezionale, gli uomini di questo partito coprivano già cariche eminenti, costituivano la Congregazione municipale, ed essendo questa l'unica autorità rimasta dopo il crollo del governo austriaco, intorno a essa si radunò il popolo insorto.
La scintilla che produsse il grande incendio delle Cinque giornate partì dalla Francia, donde giunse la notizia della rivoluzione del febbraio 1848, che aveva rovesciata la monarchia orleanista e proclamata la repubblica. Ripercussioni gravissime di questi moti si ebbero in Austria, in Ungheria, in Boemia e in Croazia: e il Lombardo-Veneto conosciute le notizie di Vienna tra il 16 e il 17 marzo, si trovò trascinato nel turbine dell'azione. Ora è opportuno notare che i primi atti con i quali la rivoluzione esplose nel Lombardo-Veneto, furono l'insurrezione dei Veneziani che liberarono il Manin e il Tommaseo dalla prigione, e la fuga da Milano del viceré Raineri, con la viceregina; scortati da 50 usseri, essi abbandonavano Milano, alle 5 ant. del 17 marzo, per stabilirsi a Verona, lasciando il governo nelle mani del vicegovernatore M. O' Donnell.
La cronistoria delle Cinque giornate può essere così riassunta:
Prima giornata (sabato, 18 marzo). - Alle 9 del mattino viene pubblicato in Milano un manifesto imperiale annunciante l'abolizione della censura e la convocazione, per il luglio, dei rappresentanti lombardo-veneti. Le riforme cominciano, ma troppo tardi e troppo modeste. I Milanesi lacerano senz'altro quella notificazione sotto gli occhi dei poliziotti, poi traggono tumultuando al palazzo municipale. Il podestà Gabrio Casati dal balcone invita alla calma, poi, insieme agli assessori Marco Greppi e Antonio Beretta, scende a capitanare la dimostrazione, che al grido: "viva l'Italia, viva Pio IX", continuamente ingrossando e sventolando bandiere tricolori, s'avvia dal vicegovernatore per chiedere armi e riforme più serie di quelle concesse. Una grossa pattuglia di gendarmi a cavallo, spedita a contrastare la marcia, non osa attaccare il popolo, e si allontana ringuainando le sciabole. Dopo una breve sosta al largo di S. Babila, l'avanguardia è appena arrivata davanti al palazzo del governo, quando s'ode un colpo di fucile. Una sentinella aveva fatto fuoco sul popolo. In men che non si dica è uccisa, e tutta la guardia assalita e disarmata. Furono questi il primo sparo e la prima vittima della rivoluzione. Per impedire un'irruzione della cavalleria, la folla si protegge rovesciando il casotto della sentinella e le carrozze trovatesi a passare per la strada dal lato dei bastioni; con le panche della vicina chiesa della Passione la si chiude verso il Conservatorio; con un carro di botti, che in quel momento passava, si ostruisce la comunicazione dalla parte del ponte. E queste furono le prime barricate. Intanto i capi, saliti da M. O' Donnell, gli avevano presentato da firmare i seguenti decreti: "Il vicegovernatore, vista la necessità assoluta di mantenere l'ordine, accorda al municipio di armare la guardia civica. La polizia consegnerà immediatamente le armi. La direzione della polizia è destituita e la sicurezza della città è affidata al municipio".
Ottenute le desiderate concessioni, la folla, traendo in ostaggio il vicegovernatore, si dirige al palazzo municipale. Mentre sbocca sul corso, è accolta da una scarica di moschetteria e tosto centinaia di barricate sorgono dappertutto, mentre si aprono le iscrizioni nella guardia civica. In giornata gli Austriaci s'impossessano a cannonate del palazzo municipale (Broletto) e alla sera la città è stretta d'assedio. I cittadini ebbero trenta morti, senza contare quelli uccisi in Castello.
Seconda giornata (domenica, 19 marzo). - Il popolo resiste dappertutto con valore, espugna il primo circondario di polizia, conquista un cannone e vince ai portoni di Porta Nuova e altrove, mentre incominciano ad affluire i suburbani e i provinciali. Il Radetzky scrive a Vienna: "Le truppe sono affaticate e spossate". E nella notte ordina lo sgombro dei posti più centrali, che si effettua nelle prime ore del mattino seguente. Approfittando delle tenebre, i soldati tentano sorprese in parecchi punti, avanzando scalzi fin sotto le barricate per distruggerle, ma i civici vigilano e li mettono in fuga. Caddero in questo giorno un centinaio di cittadini, la maggior parte vecchi, donne e fanciulli, trucidati dalla feroce soldatesca nelle case indifese.
Terza giornata (lunedì, 20 marzo). - È la giornata in cui le due forze in lotta riescono per un momento a equilibrarsi. Ciò avviene nelle ore del mattino, ma nel pomeriggio gl'insorti riportano nuovi successi e verso sera hanno un deciso sopravvento sugli Austriaci. Cadono nelle mani dei Milanesi il centro della città, il palazzo del viceré, il palazzo di polizia, la via Larga, le adiacenze del Castello, il Monte di Pietà col quadrivio che vi confluisce, e la bandiera tricolore viene issata per opera di Luigi Torelli sulla guglia maggiore del duomo. La lotta, combattutasi fino a questo momento con capi improvvisati e nella quale, più per istinto che per ordini emanati, la popolazione si era orientata verso i capi del municipio, incomincia a essere disciplinata da un consiglio di guerra e da comitati, che il municipio si associa come collaboratori. Così, quando al tramonto di questa storica giornata, il maresciallo Radetzky fa domandare un armistizio agl'insorti, la proposta viene respinta legittimamente dai capi, sostenuti dalla fiducia degl'insorti. A Carlo Cattaneo specialmente si deve se prevale il partito di respingere la proposta di venire a patti con l'oppressore.
Quarta giornata (martedì, 21 marzo). - La vittoria si delinea sempre più in favore dei Milanesi; gli episodî culminanti sono certamente la espugnazione del palazzo del genio, per opera specialmente di Augusto Anfossi e per il coraggio del popolano Pasquale Sottocorni, e l'arrivo in città del conte Enrico Martini che, proveniente da Torino, annunzia le favorevoli disposizioni del re Carlo Alberto. Ciò provoca un appello dei primarî cittadini al re per un pronto intervento armato. Gli Austriaci sono ridotti a poche caserme, ai bastioni e alla circonvallazione; una loro seconda proposta di armistizio è respinta e si prepara l'assalto della Porta Tosa. Nella notte la congregazione municipale si costituisce ufficialmente in governo provvisorio, confermando tutti i comitati e altri nominandone, esempio, non frequente nella storia, di una rivoluzione che crea un governo quando sta per esaurire il proprio compito.
Quinta giornata (mercoledì, 22 marzo). - Il governo provvisorio emana i primi proclami, i cittadini conquistano tutte le caserme e tutte le posizioni tenute ancora dagli Austriaci, s'impadroniscono di Porta Tosa, e verso le ore 21 un fragoroso cannoneggiamento dalla parte del Castello dissimula e protegge la ritirata di Radetzky e di tutte le sue truppe, che si allontanano dal Castello e da Milano, trascinando seco gli ostaggi politici arrestati fino dal 18. All'alba del giorno 23 Milano, aperte le porte, esulta per la propria liberazione e accoglie i primi volontarî di Genova e di Torino. Carlo Alberto emana il proclama annunziante ai popoli della Lombardia e della Venezia che accorre in loro soccorso.
Bibl.: Archivio triennale delle cose d'Italia, Dall'avvenimento di Pio IX all'abbandono di Venezia, Capolago 1850-55; A. Comandini, L'Italia nei cento anni del secolo XIX giorno per giorno illustrata, Milano 1900 segg.; C. Fabris, Gli avvenimenti militari del 1848 e 1849, Torino 1898-1904; A. Luzio, Le cinque giornate di Milano nelle narrazini di fonte austriaca, Roma 1899; A. Monti, Carteggio del Governo provvisorio di Lombardia con i suoi rappresentanti al Quartier generale di Carlo Alberto: 22 marzo-26 luglio 1848, Milano 1923; V. Ottolini, Le cinque giornate milanesi del 18-22 marzo 1848, con nuovi documenti e coll'aggiunta delle Cinque giornate particolari di Porta Ticinese, Milano 1899; C. Pagani, Uomini e cose in Milano dal marzo all'agosto 1848, Milano 1906; A. Sandonà, Il preludio delle cinque giornate di Milano, in Rivista d'Italia, 1927, fasc. 1°; C. Tivaroni, L'Italia durante il dom. austr., Torino 1894; A. Monti, Il conte L. Torelli, Milano 1931; id., Un italiano: F. Restelli, Milano 1933. Si vedano anche nel Museo del Risorg. di Milano le memorie autografe e inedite dei veterani delle Cinque giornate, raccolte dal municipio nel 1898, in occasione del cinquantenario della rivoluzione del 1848. Nella biblioteca del museo si consultino pure le opere sotto la voce: Cinque giornate del 1848.
Antonio Monti
Il ducato di Milano
La formazione territoriale dello stato visconteo, imperniato su Milano (v. sopra; visconti) riceve il riconoscimento ufficiale nel 1395 quando l'imperatore Venceslao concede a Gian Galeazzo Visconti il titolo ducale per sé e i successori.
Nel diploma 2 maggio 1395 è indicata l'estensione del ducato di Milano e del suo territorio. In quello del 1396 sono elencate le città e terre di Brescia, Bergamo, Como, Novara, Vercelli, Alessandria, Tortona, Bobbio, Piacenza, Reggio, Parma, Cremona, Lodi, Trento, Crema, Soncino, Bormio, Borgo S. Donnino, Pontremoli, Massa Nuova, Feliciano, Rocca d'Arazzo con tutto quello che era compreso nel territorio d'Asti, Serravalle, contadi e giurisdizioni spettanti al Sacro Impero, Verona, Vicenza, Feltre, Belluno, Bassano, Val Leventina, Sarzana, Carrara, San Stefano, fortezze e terre della diocesi di Luni. Nel 1397 con un altro diploma Gian Galeazzo era fatto duca della Lombardia. Con queste concessioni imperiali si erano messe le basi giuridiche del nuovo stato dell'Italia settentrionale. Non già che la signoria dei predecessori di Gian Galeazzo mancasse di base giuridica - perché v'era da un lato il vicariato imperiale che la legittimava di fronte all'impero e dall'altro vi era una dichiarazione di volontà del populus che riconosceva il Dominus generalis come legittimo; ma con l'erezione del ducato si troncava un'incertezza di diritto che non poteva durare. Per l'innanzi, le città avevano formalmente mantenuta la loro autonomia e forse anche la loro sovranità originaria; mentre il vicario imperiale e Dominus non era, formalmente, che un capo, una specie di presidente a vita delle repubbliche. Il rafforzarsi delle pubbliche istituzioni richiedeva una forma statale più semplice e nello stesso tempo più autoritaria. Col ducato finisce giuridicamente l'autonomia municipale, che sostanzialmente era già finita da tempo; e si forma uno stato in senso moderno. Milano non è più la città dominante su altre città conquistate e umiliate, ma la capitale di uno stato nuovo, lo stato visconteo. A Milano è la sede del governo centrale, degli uffici di stato. Si esaurisce la fonte legislativa statutaria in tutte le città del dominio visconteo; mentre si afferma il principe come fonte di diritto nuova e pienamente efficace su tutto il territorio del vasto ducato. È questa la legislazione per decreta. Con questo mezzo si poté plasmare una nuova forma statale che si erigesse sul groviglio di autonomie e di privilegi che indebolivano, invece di rafforzare, la convivenza politica. Gian Galeazzo obbliga le città a riformare gli statuti cercando di renderli più uniformi fra loro. Milano riforma definitivamente la sua legislazione statutaria nel 1396.
Lo stesso duca riorganizza la burocrazia, i servizî e fa grandiose opere pubbliche. Ma la morte inopinata interrompe nel 1402 l'opera sua e lo stato nuovo non è ancora che un abbozzo. Così si spiega il ridestarsi dello spirito di autonomia comunale e signorile dopo la sua morte e il pericolo che l'opera sua vada perduta. Filippo Maria, mal giudicato da contemporanei e da posteri, durante il lungo suo regno riordina e rafforza gl'istituti dello stato, di modo che - dopo la breve parentesi repubblicana - gli Sforzeschi poterono sulle basi dello stato visconteo ricostruire il loro. Ma è un errore credere che lo stato sforzesco sia una cosa diversa da quello visconteo; l'eredità di Filippo Maria non andò del tutto perduta.
Il periodo aureo del ducato milanese dura soltanto un secolo: il sec. XV; ma è il più bel secolo della vita lombarda, che si rispecchia sulle istituzioni pubbliche, sull'economia, sulla cultura e sulla politica estera. Le riforme amministrative di Gian Galeazzo rivelano in lui una nozione esatta dell'unità dello stato a cui mirava e che avrebbe senza dubbio raggiunto, se il corso della sua vita non fosse stato interrotto innanzi tempo. Ma la base del sistema giuridico e amministrativo resistette a più di tre secoli di dominazione straniera; esso era cosa tutta nostra - come scrive il Formentini - non importata dagli stessi stranieri, i quali anzi ne approfittarono per metterla in attività nei loro paesi.
Già prima dell'erezione della signoria in ducato, il Visconti aveva ordinato, con decreto 21 settembre 1388, che non si potessero chiedere privilegi, esenzioni, immunità, da principi, baroni e signori senza consenso del principe. E ordinò pure la demolizione di castelli e rocche dei privati, vietandone la costruzione di nuovi senza speciale concessione (16 ottobre 1392). Non è l'abolizione degli abusi feudali, ma ne è il principio, perché la concessione di privilegi era subordinata al beneplacito del principe. In materia ecclesiastica, Gian Galeazzo fin dai primi tempi della sua signoria detta norme regolatrici. Nel 1386 rinnovò la proibizione, già esistente nel diritto milanese, di impetrare benefici senza speciale licenza del principe; nel 1395 rendeva obbligatoria la licenza del duca per qualsiasi beneficio che si volesse impetrare dalla curia pontificia. Con queste norme, il diritto di placitazione si affermava come un diritto dello stato e per tutta la durata del dominio visconteo queste leggi rimasero in vigore come garanzia efficace dello Stato di fronte alla Chiesa. Nel 1412 si ha la nomina del primo economo dei benefici vacanti.
L'istituzione della segreteria ducale che, a un dipresso, assomiglia più al concistorium principis dell'impero romano che all'odierno consiglio dei ministri, afforza il potere centrale. Un'altra istituzione, che dimostra quale programma di riorganizzazione statale avesse Gian Galeazzo, è quella del Magistrato delle entrate diviso in due rami: entrate ordinarie e straordinarie, con funzioni anche giurisdizionali in materia finanziaria. Può darsi che l'origine di questo dicastero, o la sua riorganizzazione se l'origine è più remota, risalga al 1389.
Per opera di Gian Galeazzo si creano, o forse si riordinano su basi definitive, i consigli segreto e di giustizia, che stanno vicino al principe con attribuzioni giudiziarie civili e criminali e anche politiche; queste ultime specialmente erano particolari al consiglio segreto: il che gli dava una maggiore autorità. Questi consigli durarono anche sotto la dinastia sforzesca. Nel 1499 i due consigli ducali vennero fusi in un solo corpo e da quell'anno - a parere del Del Giudice - assunsero la denominazione ufficiale e definitiva di senato, che continuerà fino al 1876. Naturalmente - come vedremo - le attribuzioni politiche andarono sempre più riducendosi nel periodo successivo, mentre si affermarono quelle giudiziarie, facendone un tribunale supremo di stato.
Ma le maggiori difficoltà nel suo lavoro di ricostruzione venivano dalla resistenza opposta dalle ultime trincee in cui si difendeva l'autonomia della città; e dall'aristocrazia feudale, non domata ancora, la quale poneva un'opposizione formidabile alla formazione dello stato moderno. Di qui la pretesa crudeltà dei duchi di Milano, che erano inesorabili nel reprimere ogni rivolta. Dall'altro lato, gli elementi borghesi e mercantili furono favorevoli alla politica interna dei duchi tanto Viscontei quanto Sforzeschi. Ne è prova il fatto che due soli mercanti poterono offrire al duca Filippo Maria l'armamento di ben 1000 uomini d'arme. Né la Repubblica ambrosiana, né l'uccisione di Galeazzo Maria Sforza ebbero rispondenza nell'animo del popolo e della borghesia mercantile; entrambi gli avvenimenti non scalfirono la sensibilità delle masse e furono sterili di conseguenze. Forse il Cognasso non ha torto quando osserva che nel campo della politica italiana una monarchia di stampo visconteo poteva essere favorevole alle libertà popolari, più che non le aristocrazie mercantili di Venezia e di Firenze.
La lotta contro il ducato di Milano da parte di nemici esterni si palesa fin dai primi anni del sec. XV come un contrasto fra il principio unitario e le forze separatiste minacciate dallo stato visconteo. Il ducato, con la forza d'espansione che dimostrava specialmente nel periodo di Gian Galeazzo, ma anche nel periodo di Filippo Maria Visconti, era un pericolo per gli stati sorti nel secolo XV, gelosissimi della loro autonomia, che essi chiamavano "libertà d'Italia" e nel nome della quale provocarono la crisi della fine del secolo stesso e l'asservimento in quello successivo. La lega italica era riuscita finalmente - a prezzo però di grandi sforzi - con l'aver ragione della resistenza di Filippo Maria Visconti. Tuttavia da questo momento, cioè dalla metà del secolo XV gli alleati vedono nei Veneziani, ingranditi dalle spoglie del duca, un pericolo per loro; e pertanto s'incomincia a fare strada l'idea non di distruggere il ducato, bensì di lasciarlo in vita entro certi determinati confini, per contrapporlo ai progressi veneziani in terra ferma. È il principio della politica di equilibrio che durerà per tutto il sec. XV e che, portato alle ultime conseguenze dopo la lega del 31 marzo 1495 (sorta, come scrive l'Ercole, con scopi puramente italiani), si tramuterà in coalizione europea a scopi europei. Infatti con la pace di Vercelli del 10 ottobre 1495 fra Carlo VIII e Ludovico il Moro, quest'ultimo usciva dalla lega; ma nel 1496 vi entrava il re d'Inghilterra. Francia, Spagna, Austria, Inghilterra saranno i protagonisti delle grandi guerre durate oltre mezzo secolo; mentre l'Italia e i suoi stati saranno l'oggetto delle competizioni di queste quattro grandi potenze.
Fino a quando Venezia non riuscì a portare il confine della terraferma all'Adda, questa potenza fu la nemica giurata dello stato milanese. E si può dire che l'esito della lunga guerra fu tutto a favore di Venezia, la quale rappresenta il più forte campione dell'equilibrio politico d'Italia contro il pericolo dell'egemonia milanese.
Filippo Maria moriva nel 1447 senza aver risolto il problema dei rapporti con la potente repubblica: la quale l'anno prima aveva veduto le sue bandiere vittoriose sotto le mura della stessa Milano.
Francesco Sforza, ereditando lo stato milanese, ne eredita pure la politica; e nel 1452 è nuovamente in guerra con Venezia, la quale ha per alleati il re di Napoli e l'imperatore; mentre Firenze si allea allo Sforza e ai Francesi. La pace di Lodi del 9 aprile 1454 chiuse le ostilità; e l'Adda fu il confine orientale del ducato di Milano, restando però allo Sforza la Ghiara d'Adda, Mozzanica e altri luoghi del Cremonese. Tutte le potenze italiane ratificarono questa pace d'equilibrio. Venezia intanto, preoccupata dei progressi dei Turchi - nel 1453 era caduta Costantinopoli - poteva aver le mani libere per sorvegliare i suoi possessi in Oriente.
Ma se la politica ducale con Venezia ha un grande interesse, quella verso la Svizzera non è meno importante. Per ammissione degli stessi storici svizzeri come il Martin, il traffico delle Alpi era nettamente dominato dai duchi di Milano, i quali potevano intralciarlo come volevano con pedaggi e angherie. Gli Svizzeri non avevano che due vie: trattare coi duchi o strappar loro i territorî. Le seguirono entrambe; approfittando del disordine avvenuto dopo la morte repentina di Gian Galeazzo Visconti, gli Svizzeri s'impadronirono nel 1403 della Val Leventina. Occuparono e sottomisero anche la Val d'Ossola nel 1410; nel 1407 per via di trattati coi baroni di Sax-Misox erano di fatto padroni di Blenio e di Mesocco, e di Bellinzona. Però nel 1442 Filippo Maria faceva occupare Bellinzona: e, con la battaglia d'Arbedo, dove le truppe federali furono battute, riacquistava tutte le valli a sud delle Alpi. Col trattato di Bellinzona del luglio 1426 la confederazione rinunciò ai possessi transalpini in cambio di vantaggi commerciali e di esenzioni di pedaggi specialmente sulla strada di Milano. La turbolenta Leventina fu occupata nuovamente nel 1440, fino a quando, col trattato di Lodi, anche questa questione venne regolata. Perdurò fra le popolazioni leventinesi uno stato di turbolenza, di modo che la sola Bellinzona si poteva dire fedele ai duchi di Milano.
La guerra, scoppiata nel 1478-79, essendo reggente Bona di Savoia, si chiuse con una tremenda sconfitta ricevuta dagli sforzeschi a Giornico e da allora la Leventina fu acquisita alla confederazione. Bellinzona, chiave del Gottardo, rimaneva tuttora nelle mani dei duchi di Milano. Quando Luigi XII chiese agli Svizzeri aiuto per impadronirsi del ducato, questi si fecero promettere Bellinzona, Lugano e Locarno come compenso. Ma Luigi XII non avendo mantenuto la parola, gli Svizzeri presero di forza Bellinzona e posero l'assedio ad Arona. Allora il re di Francia cedette: così quei territorî milanesi divennero per sempre svizzeri. Nel 1512 i Grigioni si presero le signorie di Bormio e di Chiavenna che conservarono fino al 1797. Dopo la sconfitta di Marignano nel 1515, dove le fanterie svizzere soccombettero sotto la nuova arma, l'artiglieria, gli Svizzeri perdettero la Val d'Ossola che fu nuovamente incorporata al Ducato di Milano. La Mesolcina venne a far parte dei Grigioni per l'alleanza conclusa con la Lega grigia nel 1496: tuttavia mantenne stretti rapporti col ducato quando Gian Giacomo Trivulzio se ne rese signore, fino al 1551, anno in cui fu incorporata alla Lega grigia.
Gli avvenimenti politici e guerreschi di cui il ducato di Milano fu testimonio e attore sono troppo legati con la storia d'Italia per essere esposti fuor dalla connessione con le altre vicende della penisola (v. italia: Storia). La spedizione di Carlo VIII di Francia fu caldeggiata da Ludovico il Moro in un primo tempo; mentre nel 1493 ne era già pentito. Il ducato infatti divenne preda degli stranieri ad eccezione di due restaurazioni sforzesche nelle persone di Massimiliano e di Francesco II entrambi figli di Ludovico il Moro, finito prigioniero dei Francesi nel Castello di Loche. Massimiliano regnò pochissimo e fece qualche riforma amministrativa ma non riuscì a iniziare la codificazione sistematica dei decreti viscontei e sforzeschi; i quali - data la tendenza umanistica - venivano chiamati "costituzioni" come le leggi imperiali romane.
Quest'opera, ideata da Ludovico il Moro, fu ripresa sotto Francesco II e fu finita per ordine di Carlo V che la fece pubblicare, dandole vigore per tutto lo stato, il 27 agosto 1541. È un notevole testo di leggi che durò fino al 1796. Vi lavorò una commissione presieduta da Giacomo Filippo Sacchì giureconsulto. Se ne fecero nel corso di due secoli 1a edizioni.
La lotta tra la Francia e l'impero per il possesso del ducato si basava su due titoli giuridici contrastanti. Seguendo un principio patrimoniale dello stato francese, Luigi XII si considerava l'erede legittimo di Valentina Visconti che aveva sposato poco più d'un secolo prima il duca d'Orléans; seguendo i diritti dell'impero, l'imperatore Massimiliano voleva per sè il ducato - e quindi per gli eredi legittimi di Ludovico il Moro fin che ce n'era - essendo il ducato un feudo dell'impero. La controversia fu risolta dalle armi con la vittoria imperiale di Pavia (1525) e il ducato passò a Francesco lI Sforza come vassallo dell'impero. La devoluzione all'impero del ducato come feudo imperiale avvenne nel 1535 dopo la morte di Francesco II senza eredi diretti. Tuttavia non fu senza opposizione; poiché fra la nobiltà si era formato un partito che propendeva per l'unione dello stato milanese con quello del duca di Savoia.
I confini del ducato, in questo momento critico della sua storia, erano ridotti di molto da quelli che Francesco Sforza lasciava al suo successore. Nel 1466 infatti, a nord erano le vette alpine, a ovest la Sesia, a est il corso superiore dell'Adda poi l'Oglio fino al suo sbocco nel Po, e, sulla riva destra di questo fiume, il torrente Enza per tutta la sua lunghezza. Comprendeva: Milano, Pavia, Lodi, Cremona, Como, Novara Vigevano, Alessandria, Tortona, Valenza, Bobbio, Piacenza e Parma coi loro territorî. Il duca aveva la signoria su Genova e col possesso di questo porto una parte del traffico mondiale, prima della scoperta delle vie oceaniche, passava attraverso il ducato di Milano. Quando dall'ultimo Sforza il ducato pervenne a Carlo V, i confini erano mutati. A nord il confine con gli Svizzeri corrispondeva all'attuale; Parma e Piacenza erano diventati stati della Chiesa e infeudati ai Farnese: verso oriente seguirono un tracciato irrazionale. Crema apparteneva alla repubblica veneta incuneata nel cuore dello stato di Milano; d'altra parte Treviglio apparteneva a Milano. A sud Stradella e Broni oltre Po erano del ducato che andava fino a Novi, comprendendo Tortona, Alessandria e Valenza e arrivava al Po al punto in cui sbocca la Sesia, che seguiva fino al Monte Rosa.
Quando Carlo V divise il suo impero fra i due rami d'Asburgo, il ducato passò al re Filippo II, ossia alla Spagna. Se, formalmente, il ducato mantiene la sua fisionomia autonoma, ormai è di fatto una provincia spagnola e una terra di sfruttamento. Bisogna tuttavia riconoscere che molto si è esagerato nel giudizio sul dominio spagnolo. Il ducato di Milano conserva il suo carattere di stato - se non di fatto almeno di diritto - autonomo.
Più che l'espressione "ducato", prevale quella di stato di Milano. La parola "ducato" si restringe a una vasta zona della Lombardia, un poco meno ampia della diocesi, ma che a un di presso vi corrisponde. Sarebbe, in un certo senso, la provincia di Milano; mentre i territorî delle altre città - corrispondenti con variazioni territoriali alle moderne provincie - formavano circoscrizioni storiche dai nomi di contado per Como, di principato per Pavia, ecc. Già nel linguaggio ufficiale si fa strada il termine "provincia" contrapponendolo a città: "città e provincie di questo stato" dicono i documenti. Già si nota un forte conflitto fra città e contado per la ripartizione delle imposte, in conseguenza del catasto fatto eseguire da Carlo V che durò fino a quello di Maria Teresa, in base al quale si ebbe una nuova organizzazione territoriale.
Il governatore era il capo dell'amministrazione e della giurisdizione: a lui mettevano capo tutti gli organi dello stato; aveva un potere normativo, ma non propriamente legislativo e aveva il diritto di grazia. Emanava disposizioni con pieni effetti giuridici dette "gride". Esse - come l'editto del pretore romano - scadevano con lo scadere dalla carica del governatore; ma potevano essere riconfermate dal successore. Obbligano i sudditi all'osservanza, ma non hanno la forza di modificare la costituzione dello stato e neppure il diritto privato o il diritto pubblico. Soltanto in materia di polizia in genere e di diritto penale possono aggravare o diminuire le pene portate dalle nuove costituzioni che rimangono la base del diritto pubblico milanese, insieme con alcune costituzioni di Carlo V dette "Ordini di Vormazia" (Worms) a cui seguirono altre di Filippo II per regolare l'ordinamento costituzionale dello stato. Il governatore aveva una cancelleria segreta a cui era preposto il gran cancelliere. Il consiglio segreto presieduto dal governatore era composto, oltre che dal gran cancelliere, anche dal presidente del senato, dal capitano di giustizia e dal tesoriere di stato. Per importanza veniva subito dopo il senato come supremo tribunale civile e criminale dello stato munito di un particolare diritto detto di "interinazione", in virtù del quale poteva questo supremo collegio resistere a un ordine regio negandogli efficacia nello stato, mediante il rifiuto della "interinazione" cioè registrazione e apposizione della formula esecutiva. Le finanze dipendevano da un magistrato camerale diviso in due rami: magistrato ordinario (delle rendite ordinarie) e magistrato straordinario (delle rendite straordinarie). Infine fra le magistrature collegiali ultime era il magistrato di sanità. Il capitano di giustizia - la cui origine risale probabilmente a Filippo Maria Visconti, se non è la trasformazione di un precedente istituto - è un magistrato con attribuzioni giurisdizionali e di polizia. È giudice penale, ma può essere anche delegato a giudicare in alcune controversie civili. Vengono poi i giudici delle strade, delle vettovaglie, delle monete, tutti con funzioni amministrative e giudiziarie. Nelle città provinciali, lo stato manda dei funzionarî detti "podestà" con funzioni giudiziarie, amministrative e soprattutto fiscali. L'autonomia delle città era ormai pienamente scomparsa: le loro funzioni erano puramente amministrative.
L'amministrazione finanziaria era inesorabile: enorme la pressione tributaria, mentre la depressione economica era giunta agli estremi. Inoltre lo stato moderno in formazione doveva lottare per vincere le velleità autonomistiche delle comunità, la riottosità dei nobili che non volevano sottostare alla legge comune. La violenza e il disordine erano sistematici. Di qui la severità spesso mostruosa delle leggi.
Con la guerra di successione di Spagna anche il ducato di Milano dovette subirne le vicende politiche e diplomatiche e ne uscì - in conseguenza dell'alleanza fra il duca di Savoia e l'impero - mutilato dell'Alessandrino, del Valenzano, della Lomellina, di Mortara e della Valsesia. Dopo la pace di Vienna del 1738 perdette - sempre a favore del re di Sardegna - il Tortonese e il Novarese: finalmente, in seguito alla pace di Worms nel 1744, venne privato del Bobbiese, dell'Oltrepò, del Vigevanasco, del Lago Maggiore e della Val d'Ossola. Per effetto di queste successive amputazioni - come osserva il Pugliese - lo stato di Milano si era ridotto di quasi la metà, a tutto vantaggio del regno di Sardegna, il quale aveva portato la frontiera al Lago Maggiore, al Ticino da Sesto Calende fino al Po, da Pavia fino all'incontro del confine piacentino. Più tardi fu annessa Mantova col suo territorio allo stato milanese. Il periodo delle riforme, nella seconda metà del sec. XVIII, segna una nuova fase nella storia dello stato milanese, che si riassume nella tendenza livellatrice del governo austriaco diretta a sopprimerne l'autonomia per ridurlo alla condizione di una provincia dell'impero. Tale è l'opera di Maria Teresa, di Giuseppe II e del principe di Kaunitz, ministro dell'impero. L'accentramento culmina con le riforme del 1786 con le quali viene abolita la magistratura del senato.
L'opera più notevole che si connette direttamente con le riforme di Maria Teresa è il censimento dello stato affidato a una Giunta del censimento, che incominciò i suoi lavori nel 1750 e portò alla riforma amministrativa delle comunità e delle provincie nel 1757. Mentre una corrente di avanguardia applaudiva alle riforme, la vecchia aristocrazia, che da secoli sedeva alle cariche pubbliche, lottava invano per conservare, oltre che sé stessa, l'ultimo brandello d'indipendenza: l'autonomia amministrativa dello stato.
L'Austria tuttavia tentò invano di snazionalizzare la Lombardia per farne una provincia dell'impero. Tra le riforme utili ricorderemo l'istituzione del supremo consiglio d'economia, nel 1765, presieduto dal conte Carli. Si disgregava così l'antico senato, a cui si sottrassero a poco a poco altre attribuzioni, come l'istruzione superiore, gli affari ecclesiastici (1767). Nel 1770, si creò la camera dei conti. Ma nel 1687 il movimento riformatore, sotto l'impulso di Giuseppe II, successo nel 1780 a Maria Teresa divenne vertiginoso.
Magistrato camerale, commissione ecclesiastica, tribunale di sanità e congregazione di stato scomparvero per far posto al consiglio di governo, diviso in dipartimenti, di cui celebre è il III, presieduto da Cesare Beccaria, con attribuzioni economiche e, ora si direbbe, sociali. Tutte le storiche magistrature antichissime, a cominciare dal senato e venendo giù al capitano di giustizia, giudici del gallo, del cavallo, delle monete, furono aboliti, formandosi una magistratura divisa in tre istanze. L'istruzione pubblica ricevette nuovo impulso con l'istituzione di scuole elementari per il popolo.
Lo studio dell'economia pubblica permise che si affrontassero nuovi quesiti sulla produzione e circolazione delle ricchezze, sulla base del tiionfante liberismo economico: i grani poterono liberamente circolare senza i divieti del periodo precedente; si assunsero lavori pubblici nell'interesse generale, si proclamò la libertà delle professioni, abolendosi le vecchie corporazioni d'arti e mestieri (1773-1787) e riformandosi la camera mercantile, da cui derivò la Camera di commercio.
I rapporti con la Chiesa nel periodo sforzesco erano regolati da una concessione che Francesco Sforza ottenne da Nicolò V, per la quale non si eleggevano ai benefici ecclesiastici se non coloro che il duca avesse prima designati al pontefice. Per questo fatto venne a modificarsi l'intima natura dell'istituto di placet nello stato milanese. I Visconti l'esercitavano come un diritto dello stato, il quale si assicurava in tal modo che i benefici fossero conferiti a persone degne e di sua fiducia; sotto gli Sforza invece assume il carattere di una tutela degl'interessi della Chiesa esercitata dal principe per delegazione del papa. Quando le condizioni del ducato furono incerte, nel 1498, Ludovico il Moro, per ragioni politiche, abolì tutti i decreti contro la libertà ecclesiastica. Ma ciò non impedì l'alleanza di Alessandro VI con Luigi XII ai danni del duca di Milano.
Coi re di Spagna non si ebbero debolezze; la politica ecclesiastica si mantenne su una linea energica difendendo i diritti dello Stato di fronte alla Chiesa. Il placet si applicava con tutto il rigore; tanto che nel 1556 veniva negato all'arcivescovo Filippo Archinto, il quale non poté prendere possesso dell'arcivescovato; il placet giunse nel 1568, ma l'Archinto era già morto. La lotta scoppiò quando a reggere la diocesi venne chiamato San Carlo Borromeo, strenuo assertore delle riforme del concilio di Trento e della superiorità della Chiesa sullo Stato. La lotta giurisdizionale prese allora un aspetto acuto, giungendo fino alla scomunica del presidente del senato e del governatore.
Col governo austriaco, prevalsero i criterî giurisdizionalistici; venne creata nel 1765 una giunta economale a cui fece seguito un'energica e assoluta politica ecclesiastica che è una delle principali caratteristiche dell'assolutismo illuminato.
Le condizioni economiche e sociali del ducato milanese si sogliono distinguere in tre periodi. Nel primo, che va dagli ultimi anni del secolo XIV alla fine del XV, si suole vedere un'epoca fortunata di benessere e di attività; nel secondo, morte e rovina: e questo corrisponde al dominio spagnolo. Il governo austriaco sarebbe stato l'autore della rinascita nel sec. XVIII. È questo un modo di ragionare a schemi prestabiliti.
Dicono i cronisti che sotto i primi duchi c'erano a Milano 70 lanifici producenti quindicimila pezze di panno, e che davano lavoro a 60.000 operai. Venezia traeva da questa sola città 4000 pezze di panno fino; 6000 ne acquistava a Monza, 12.000 a Como, 3000 a Pavia, mentre da Cremona acquistava 4000 pezze di fustagno. Nella sola Milano si contavano 14.600 botteghe dove si vendevano armi, cristalli, oreficerie e oggetti di lusso; 630 mulini da seta lavoravano ancora nel primo '500 a Milano. Como rivaleggiava con Milano nelle sete, la lana si lavorava in altre città lombarde, le tele e i formaggi si producevano a Lodi, le pelli si lavoravano a Novara e a Cremona. Nelle montagne, e specialmente in Valcavargna si cavava ferro di buona qualità che alimentava le ferriere sulla riviera di Lecco; oro, argento, marmo e granito si estraevano dalle montagne dell'Ossola.
Pochi dati si hanno sulla condizione dell'agricoltura in quel secolo. Certo è che l'apertura del canale della Martesana, che aveva anche scopi agricoli, favorì l'agricoltura. In quegli anni, dal 1476 al 1500, si diffonde la coltura del riso nei terreni bassi, e quella del gelso nei terreni asciutti verso le colline. Un provvedimento ducale del 1404 proibiva di sequestrare e di far vendere i buoi destinati all'agricoltura. Nell'età sforzesca s'incominciò a distribuire le acque sotto determinate discipline e orarî, regolati in modo da poter giovare a diverse irrigazioni simultanee.
La cultura, aiutata dalla presenza di una delle più fastose corti d'Italia in Milano, era nel massimo fiore. Poeti, artisti e musici fiorivano alla corte sforzesca, dove il grande Leonardo da Vinci era la più alta e nobile figura campeggiante fra quella splendida accolta d'ingegni.
Al dominio spagnolo si addossa la colpa di tutta la successiva crisi economica. Il ducato usciva dissanguato da mezzo secolo di guerre. L'economia era malata - forse i germi già operavano sotto la lussuosa e sfarzosa veste di gala messa addosso allo stato milanese dai duchi - per cause complesse fra cui non ultima quella che il commercio d'Europa si spostava verso l'Atlantico. Certo contribuì parecchio a sviare il commercio di transito l'imposizione di esorbitanti tariffe sulle merci fatta dagli Spagnoli fra il 1560 e il 1566; mentre sui produttori gravava l'imposta del mercimonio. Le industrie s'impiantano in campagna per ridurre i costi, nei borghi si vedono sorgere mulini da seta; lanifici a Busto Arsizio, fabbriche di cappelli a Monza, Corbetta, Abbiategrasso. Poi viene l'emigrazione delle iniziative e dei capitali in Piemonte, nel Veneto, in Francia. E con questi emigrano pure gli operai. Si vietò nel 1593 ai nobili l'esercizio della mercatura; così si diede un altro colpo a chi poteva fornire capitali e iniziative all'industria. I rimedî tentati - divieto di emigrare agli operai, esenzioni agl'immigrati operai, ecc. - non approdarono a nulla: tanto meno giovarono i sistemi protezionisti a oltranza che inaridivano le già povere fonti di produzione. Ma la vita economica, nonostante le descrizioni di economisti e di storici e nonostante i continui reclami degl'interessati, non si poteva dire morta del tutto.
Un avventuriero onorato - come scriveva il Novati - del sec. XVIII, Filippo Mazzei da Poggio a Caiano, che girò tutto il vecchio e il nuovo mondo, ricordava d'aver udito nel 1766 a Milano un patrizio celebrare la fertilità e la dovizia della campagna milanese e concludere: "Ma per farsi una idea della ricchezza naturale di questo paese, basta riflettere che son più di duecento anni che la casa d'Austria fa tutto il possibile per rovinarlo e non vi è ancora riuscita". Infatti una reazione fra gli scrittori di storia lombarda si è verificata con lo scopo di rivedere i giudizî non sempre spassionati di autori come Pietro Verri, Cesare Beccaria, Gian Rinaldo Carli, Melchiorre Gioia e tutti i loro seguaci dell'Ottocento. Già il Verga, in più scritti dedicati a studiare il movimento industriale e commerciale milanese alla fine del sec. XVI e all'inizio del XVII, si è sforzato di provare che se la Milano spagnola risulta molto meno ricca, meno abbondante di ogni dovizia di quanto fosse stata la sforzesca, ciò si deve a molte e varie cagioni contro le quali la popolazione lombarda cercò di reagire con vigoria che non venne mai interamente a mancare.
Nell'epoca compresa fra le due pestilenze 1576-1630, epoca che, secondo alcuni, avrebbe segnato la morte economica dello stato milanese, noi troviamo un'infinità d'artisti a Milano e altrove che prosperano e fanno fortuna. I privati costruiscono e rifanno la fisionomia delle città: pare che nei grandi centri la vita non sia difficile. Un componimento poetico popolaresco rimesso in luce dal Novati, descrive una Milano piena di opere attive e di ogni ben di Dio, dopo il 1630. Onofrio Castelli da Terni, che si trovò a Milano nel cuore della peste, lasciò di Milano e dello stato milanese una descrizione tutt'altro che misera: "Ho veduto che Milano per i terreni ricchi di biade, colmi di uve, fecondissimi di frutti, abbondanti di herbe, copiosi di armenti, greggi, già vive di proprie vettovaglie et i vini sono sani". Anche il conte Gualdo Priorato nella sua Relatione della città e Stato di Milano non fa che esprimere lodi per la ricchezza e il benessere dello stato milanese. Gli economisti della fine del sec. XVIII si fecero l'idea delle condizioni della Lombardia sui reclami dei cittadini e degli enti gravati da imposte; ma non tennero conto di altri fattori. Come si spiega la ricostruzione edilizia se non con mezzi adeguati. Fiorivano industrie di lusso, gemevano torchi, lavoravano i pittori. E anche di questi elementi occorre tener conto.
Le riforme del governo austriaco nel sec. XVIII non sono affatto una panacea universale; esse tuttavia risentono delle nuove tendenze economiche del secolo e rappresentano un progresso innegabile sul passato. Nel 1765 si parla già d'imprese economiche a tipo capitalistico e si cercano i capitali. Nel 1786 poi, Giuseppe II, per favorite l'industria e l'agricoltura assicurandone i mezzi per un razionale sviluppo, emana un editto che praticamente abolisce il fedecommesso e spinge le pingui sostanze patrizie a trasformarsi in capitale circolante. Effettivamente nella seconda metà del sec. XVIII si andava preparando l'ambiente adatto allo sviluppo della grande industria: anzi il governo stesso si dichiarava contrario alle corporazioni e per agevolare le industrie libere accentuava il suo carattere mercantilista. Così in quegli anni si profila in Lombardia una questione operaia e il governo accenna pure a qualche timido intervento nelle questioni sorgenti fra datori e prestatori di lavoro.
È l'età dell'assolutismo illuminato: ma l'Austria mancò sempre alle speranze della borghesia lombarda e, se fu sollecita nel sopprimere gli abusi del clero e nel frenare le arroganze dei nobili ricavandone forza per il suo dispotismo, non apparve - come osserva il Rota - ugualmente disposta a promuovere lo sviluppo economico e tanto meno quello politico delle energie borghesi. Il problema della Lombardia nell'ultimo Settecento era quello territoriale. Le mutilazioni subite l'avevano annientata o quasi. La prepotenza e l'arbitrio politico l'avevano spezzata in parti diverse forzando ognuna a vita separata.
Infatti, nel corso del sec. XVIII, Milano aveva perduto in tre riprese 8.402.786 pertiche fra le più fertili e circa mezzo milione di abitanti rimanendo con la parte più ristretta ma più popolosa (circa 900.000 abitanti) e perciò più bisognevole d'industria e di derrate alimentari. Si comprende come sia stata più accetta la politica francese dopo il 1796 che aveva un programma di aumenti territoriali, di espansione e di unità; programma che era la via maestra del Risorgimento italiano.
Con la conquista francese la storia del ducato finisce: dopo la breve parentesi luminosa ed eroica del regno italico con capitale Milano, si ha uno pseudo regno Lombardo-Veneto ma già dai primi anni del sec. XIX l'idea italiana è in cammino.
Alessandro Visconti
Bibl.: Oltre le opere del Giulini, Verri ecc., dedicate a Milano (v.), ma fondamentali anche per la storia del ducato, cfr.: F. Cognasso, Note e documenti sulla formazione dello stato veneto, in Bibl. Soc. pavese storia patria, 1923, e Ricerche per la storia dello stato visconteo, ibid., 1925; G. Romano, Delle relazioni tra Pavia e Milano nella formazione della signoria viscontea, in Arch. storico lombardo, 1902; Daverio, Memorie sulla storia dell'ex ducato di Milano, Milano 1808; M. Formentini, Il ducato di Milano, Milano 1877; id., La dominazione spagnuola in Lombardia, ivi 1881; S. Pugliese, Condizioni economiche e finanziarie della Lombardia nella prima metà del sec. XVIII (Miscellanea di storia ital., XXI), Torino 1924; E. Rota, L'Austria in Lombardia, Milano 1911; A. Visconti, La pubblica amministrazione nello Stato milanese, durante il predominio straniero, Roma 1913; D. Muir, A History of Mlan under the Visconti, Londra 1924; C.M. Ady, A History of Milan under the Sforza, Londra 1923; Archivio stor. lomb.: s. 3ª, studî di: G. Romano, Contributi alla storia della ricostruzione del ducato milanese, VI, p. 231; F. Fossati, Milano e una fallita alleanza contro i Turchi, XVI, p. 49; s. 4ª, studi di: A. Colombo, L'ingresso di Francesco Sforza a Milano e l'inizio di un nuovo principato, III, p. 297; IV, p. 33; N. Ferorelli, Schema di un tentato accordo tra Alfonso d'Aragona e Francesco Sforza (1442), XII, p. 212; A. Luzio, I preliminari della lega di Cambray concordati a Milano e a Mantova, XVI, p. 245; L. Rossi, Lega fra il duca di Milano e i fiorentini e Carlo VII di Francia (1452), V, p. 246; G. Seregni, Un disegno federale di Bernabò, XVI, p. 162; s. 5ª, studî di: P. Negri, Milano, Ferrara e Impero durante l'impresa di Carlo VIII, IV, p. 423; id., Studî sulla crisi italiana alla fine del sec. XV, X, p. i.
Archivio storico della Svizzera italiana: studî di A. Solmi, La guerra di Giornico e le sue conseguenze, IV, p. 22; E. Pometta, I primi contatti dei Ticinesi con gli Svizzeri, III, p. 130; id., Il Ticino da Giornico alla dedizione agli Svizzeri, II, p. 115; E. Besta, Bormio avanti il dominio grigione, II, p. 77; A. Solmi, La formazione territoriale della Svizzera italiana, I, pp. 5, 97; II, p. 3.
La provincia di Milano
È per superficie (2761,11 kmq.) la quarta della Lombardia (dopo Brescia, Sondrio e Pavia), ma di gran lunga la prima per popolazione assoluta (2.002.059 ab. secondo il censimento del 1931, ed è perciò superata nel regno solo dalla provincia di Napoli) e relativa (725 ab. per kmq.); sotto quest' ultimo riguardo viene in testa a tutte le provincie italiane (Napoli compresa) e rappresenta una delle zone più densamente popolate d'Europa.
Il territorio abbraccia la maggior parte della bassa pianura chiusa fra Ticino, Adda e Po; il Po ne segna il limite meridionale e orientale (foce dell'Adda a Brevia, dove è anche il punto più basso della provincia: 39 m. s. m.), mentre a N. il confine, verso le provincie di Como e di Varese, corre sulle colline moreniche (l'altezza massima entro la provincia supera di poco i 260 m.) che precedono i terrazzi diluviali coi quali le Prealpi trapassano alla pianura alluvionale vera e propria. In questa soprattutto è disteso il territorio della provincia, mentre la parte dell'altipiano asciutto (a N. del canale Villoresi) che rientra nei suoi confini, s'è assai ridotta dopo l'assegnazione dell'ex-circondario di Gallarate alla nuova provincia di Varese.
Dal punto di vista agricolo, la regione partecipa dei caratteri propri alla bassa pianura lombarda, presentando cioè una spiccata industrializzazione, e perciò con colture intensive (frumento, granturco), alti rendimenti per ettaro, e soprattutto largo sviluppo delle foraggere, a cui sono intimamente legati l'allevamento e le industrie alimentari (del latte, casearie) che ne derivano. In complesso, alla parte meridionale della provincia (Lodigiano), a tipo prevalentemente agricolo, fa contrasto, attorno a Milano e a N. della città, il prevalere delle industrie, sia nella forma tradizionale, che comporta un certo frazionamento delle imprese (industria del legno in Brianza), sia, ancor più, come grande industria, massime in alcuni rami (tessili, siderurgiche, metallurgiche, chimiche, poligrafiche, ecc.). Si può dire che tutte le industrie siano rappresentate; sul totale prevalgono tuttavia di gran lunga le tessili (36% delle maestranze impiegate nella provincia, che ammontano a 478,8 mila persone), e le siderurgiche, metallurgiche e meccaniche (23%), seguite a distanza dalle edili (9,3%), da quelle dei trasporti e comunicazioni (7%), dalle chimiche (5,5%), ecc.
Il peso che la provincia di Milano ha nell'economia non solo lombarda, ma nazionale appare anche solo da qualche cifra; così, p. es., questa provincia, che rappresenta, quanto a superficie, meno dell'1% del Regno, occupava - secondo l'ultimo censimento industriale eseguito nel 1927 - circa il 12% di tutte le imprese industriali d'Italia e oltre il 18% delle imprese con più di 50 operai. Anche più evidente è la preminenza per alcune speciali industrie: così, p. es., la provincia di Milano assorbe, quanto a maestranze, il 35% delle industrie cotoniere, il 17,4% delle tessili, il 27% delle poligrafiche, il 15% degli addetti al credito, risparmî, assicurazione, ecc., dell'intera nazione.
La provincia di Milano è quella che ha in Italia il maggior numero di comuni (247) dopo Alessandria; la superficie media (11,1 kmq.) è tra le più basse (solo Varese ha una media inferiore) e quattro volte più piccola di quella complessiva del regno; per contro la popolazione media (8105 ab.) supera di molto la media del paese. Di questi comuni i 4/5 hanno una popolazione inferiore ai 5 mila ab., 1/8 tra 5 e 10 mila, 11 superano i 10 mila (Abbiategrasso, Cesano Maderno, Cinisello Balsamo, Codogno, Desio, Lissone, Magenta, Parabiago, Rho, Seregno e Vimercate), tre i 25 mila (Legnano, Lodi e Sesto San Giovanni) e uno i 50 mila (Monza). La popolazione della provincia - anche prescindendo dalla decurtazione dei comuni passati a quella di Varese - ha segnato un rapido aumento dal 1861 ai nostri giorni, passando da 948,3 mila abitanti a 1009,8 nel 1871, a 1175,0 nel 1881, 1450, 2 nel 1901, a 1906,2 nel 1921 (l'aumento è stato, tra queste due ultime date, del 913%, contro solo il 172% nel compartimento); aumento che non è solo dovuto allo sviluppo della sua metropoli.
Giuseppe Caraci