Sociologia
Non c'è forse domanda più imbarazzante da porre a un sociologo di quella di definire l'oggetto della sua disciplina. La risposta più ovvia, e cioè che la sociologia è lo studio scientifico della società, crea più problemi di quanti ne risolva. A parte la difficoltà di distinguere che cosa è scientifico e che cosa non lo è, inevitabilmente la questione si sposta sulla definizione di società, e sappiamo che gli usi possibili di questo termine sia nel linguaggio comune sia nel linguaggio scientifico sono moltissimi. Basta fare qualche esempio per rendersi conto che per società si possono intendere ambiti molto eterogenei: l'unione di un gruppo di finanziatori che mettono insieme i loro capitali per dar vita a un'impresa, la società degli aristocratici francesi alla corte di Luigi XIV, la società milanese o lombarda durante la dominazione spagnola, la società polacca nel periodo di smembramento dello Stato polacco, la società ungherese prima e dopo la caduta dell'Impero asburgico, la società europea e, in un'epoca come la nostra in cui si parla molto di globalizzazione, anche la società mondiale. Poiché la sociologia è nata intorno alla metà del XIX secolo, nell'epoca cioè in cui si è affermato lo Stato nazionale moderno, il riferimento prevalente è alla società compresa nel territorio di uno Stato nazionale, ma questo riferimento, oltre a non essere esclusivo, rischia di veder dissolvere, col declino degli Stati nazionali, l'oggetto stesso della sociologia.
Questa tesi è stata recentemente sostenuta da Dettling (v., 1996).Vi è tuttavia un altro problema in riferimento alla definizione della sociologia come scienza della società. Della società si occupano anche altre scienze sociali che si sono sviluppate prima o quasi contemporaneamente alla sociologia. L'economia, la scienza della politica, l'antropologia culturale, la psicologia sociale, la demografia, per non parlare della storia, sono tutte discipline che si occupano di realtà che hanno evidentemente a che fare con la società. In che modo la sociologia si differenzia dalle altre scienze sociali se gli oggetti di cui queste si occupano rientrano anche nel suo campo di studio? Questa sovrapposizione produce competizione e conflitto e i confini sono contesi, oppure la linea di demarcazione corre su piani diversi? Questi problemi di definizione dell'ambito di studi accompagnano la sociologia fin dalle origini, e le soluzioni che a essi sono state date sono riconducibili fondamentalmente a tre, che chiameremo rispettivamente la soluzione gerarchica, la soluzione residuale e la soluzione analitica o formale.
La soluzione gerarchica risale ad Auguste Comte che, oltre ad aver coniato il termine, come vedremo nel prossimo capitolo, assegna alla nascente sociologia una posizione privilegiata nell'edificio delle scienze. Se i piani inferiori sono occupati via via dall'astronomia, dalla fisica, dalla chimica e dalla biologia, alle scienze sociali e infine alla sociologia è riservato il piano superiore. Proprio perché nata per ultima, la sociologia è destinata a completare il processo che, attraverso i vari stadi (teologico, metafisico e positivo), ha condotto la conoscenza umana ad affrontare oggetti sempre più complessi e a produrre sintesi sempre più ampie. Certo, nessuno più oggi sarebbe disposto ad accogliere la soluzione di Comte, in quanto appare quanto meno assai discutibile stabilire un ordinamento gerarchico tra le scienze. Tuttavia, almeno nel campo delle scienze sociali, non sono mancati i tentativi di assegnare alla sociologia una posizione, se non superiore, almeno di portata più ampia. Ad esempio, nella prospettiva teorica che da Parsons arriva fino a Luhmann, la sociologia ha il compito di elaborare la teoria generale del sistema sociale alla quale le teorie dei sottosistemi (economico, politico, giuridico, culturale, ecc.) risultano in qualche modo subordinate. Sono pochi peraltro i sociologi che oggi nutrono ambizioni teoriche così generali da comprendere sotto un unico mantello teorico le altre scienze sociali.
Diametralmente opposta, ma indubbiamente più realistica, appare invece la soluzione residuale. Con una certa dose di autoironia, il sociologo inglese Runciman (v., 1970) sostiene che rientra nel campo di studio della sociologia tutto quanto non è, o non è ancora, oggetto di un'altra scienza sociale specializzata, tutto quanto è troppo contemporaneo o troppo poco discorsivo per essere chiamato storia, tutto quanto si riferisce a comunità troppo grandi o complesse per essere studiato dall'antropologia, tutto quanto si riferisce alla diagnosi e alla cura di mali socialmente riconosciuti. La sociologia dovrebbe quindi accontentarsi dei resti che sono rimasti sul tavolo dopo che le altre scienze sociali hanno finito di servirsi. È chiaro che anche la soluzione residuale risulta insoddisfacente per giustificare la presenza di una disciplina che possa rivendicare un grado sufficiente di autonomia. Soprattutto, non chiarisce il carattere problematico dei confini con le altre discipline. Non si tratta infatti di assegnare alla sociologia lo studio di quei fenomeni che vengono trascurati dalle altre scienze sociali, in modo che il residuo risulti, per così dire, determinato per differenza. Anche se è vero che vi è una serie di fenomeni che contengono aspetti rilevanti non considerati da altre discipline, resta il fatto che la sociologia studia sostanzialmente lo stesso ambito di fenomeni che è oggetto delle altre scienze sociali. Il residuo non è quindi dato per differenza e risulta problematico per la presenza di consistenti aree di sovrapposizione, territori, cioè, per adottare una metafora spaziale, che appartengono contemporaneamente a campi disciplinari diversi.
Il problema nasce dal fatto che nella determinazione dei confini disciplinari si intersecano due dimensioni diverse che vanno invece tenute accuratamente distinte. La prima è una dimensione analitica. Rispetto a questa dimensione, una disciplina non è definita da una specificazione di campo (una classe particolare di fenomeni), ma da una specificazione del punto di vista in base al quale è possibile isolare (astrarre) una serie di aspetti ritenuti rilevanti (che vengono quindi trattati come 'variabili'), e un'altra serie di aspetti considerati irrilevanti (e quindi trattati come 'costanti'). La seconda è una dimensione concreta, che identifica per ogni disciplina una classe specifica di fenomeni.
È possibile combinare le due dimensioni quando è possibile isolare una classe di fenomeni in cui gli aspetti rilevanti, rispetto a una disciplina particolare, risultano prevalenti. Ad esempio, un'impresa industriale comporta senza dubbio aspetti politici (in quanto in essa vige qualche forma di autorità, oppure essa esercita influenza o potere sull'ambiente che la circonda), oppure aspetti sociologici (in quanto, tra l'altro, elabora regole per la distribuzione di risorse simboliche), o aspetti antropologici (celebra i suoi rituali organizzativi); tuttavia si tratta pur sempre di una realtà in cui gli aspetti economici sono prevalenti e che quindi legittimamente rientra nel campo delle discipline economiche. Così i partiti politici, per quanto importanti siano i loro aspetti economici (come si procurano i finanziamenti), sociologici (quali interessi rappresentano) o culturali (intorno a quali valori mobilitano i loro aderenti), sono un oggetto privilegiato di studio della scienza politica. Lo stesso vale per i sistemi di parentela in riferimento all'antropologia culturale e così via. Anche in questi casi, però, è importante tenere distinte le due dimensioni onde evitare quella che è stata chiamata la 'fallacia della concretezza mal posta', vale a dire, la reificazione delle categorie analitiche.
Interessa rilevare, comunque, che quando prevale una distinzione analitica tende a emergere una concezione residuale della sociologia come disciplina ausiliaria rispetto alle altre scienze sociali, mentre quando prevale una distinzione concreta vi è la tendenza ad assegnare alla sociologia una più specifica delimitazione di campo - ad esempio, lo studio dei sistemi di stratificazione, oppure delle istituzioni in cui domina la funzione di integrazione socioculturale (la famiglia, la scuola, la religione, ecc.). Ritorneremo su questo punto in seguito, quando tratteremo delle cosiddette sociologie speciali (la sociologia economica, politica, giuridica, ecc.) la cui funzione risulta ausiliaria e integrativa rispetto alle altre scienze sociali (economia, scienza politica, diritto, ecc.), in quanto esse considerano come variabili quegli aspetti che il taglio analitico delle varie discipline esclude come residuali o costanti.
La soluzione analitica o formale risale a Georg Simmel (v., 1908), ma ritorna in tutte quelle correnti della sociologia che pongono al centro dell'analisi il concetto di interazione sociale. In base a questa concezione la sociologia è definibile non in base a una classe di oggetti che le sia propria (non ha, cioè, una determinazione di campo), ma piuttosto in base a una prospettiva analitica che dall'infinita varietà dei fenomeni sociali, oggetto delle singole discipline, isoli le forme di associazione separandole dal loro contenuto particolare. La sociologia studierà così le forme di subordinazione e di dominio, la competizione e la concorrenza, l'imitazione, la divisione del lavoro, la formazione di alleanze e coalizioni, le forme della rappresentanza, i conflitti. Un esempio particolarmente illuminante è l'analisi che Simmel conduce delle dinamiche all'interno di una triade, che sono relativamente indipendenti dal fatto che i tre elementi in gioco siano due genitori con un figlio, una coppia con un amante, sindacati e imprenditori con la mediazione dello Stato, oppure nobili, borghesi e monarchia nell'ancien régime, oppure ancora due Stati che si alleano per combatterne un terzo. La sociologia diventa così la grammatica e la geometria della società. Come la grammatica non si occupa del significato semantico del linguaggio e la geometria studia le forme degli oggetti senza curasi della materia di cui sono costituiti, così la sociologia studia pure forme di relazione. La soluzione formale è certo rigorosa, tuttavia risulta anch'essa insoddisfacente: gran parte delle ricerche condotte dai sociologi rientrerebbe con difficoltà nei limiti ristretti di questa definizione.
Formulare una definizione rigorosa e accettabile di che cosa sia la sociologia è un'impresa disperata, ed è probabilmente ragionevole accontentarsi di una definizione tautologica che indica nella sociologia l'insieme delle ricerche di coloro che si riconoscono e sono riconosciuti da altri (istituzioni universitarie, specialisti di altre discipline, opinione pubblica) come sociologi. Max Weber stesso, che a torto o a ragione viene considerato uno dei padri fondatori della disciplina, disse una volta di considerarsi sociologo perché così stava scritto nel decreto di nomina alla cattedra che ricoprì negli ultimi anni di vita presso l'Università di Monaco.Bisogna probabilmente rassegnarsi all'idea che i confini tra la sociologia e le altre discipline (storia e psicologia sociale comprese) sono inevitabilmente sfumati e per di più mutevoli nel tempo. Il sociologo si trova quasi sempre nell'imbarazzante situazione di lavorare con la sensazione di aver valicato i confini della propria disciplina proprio perché non sa bene dove stiano questi confini. Egli vive nel paradosso di essere lo specialista del generale, ben sapendo che una scienza del generale o della totalità è per definizione impossibile. La storia delle origini della sociologia sta del resto a dimostrare come fin dall'inizio la disciplina si sia sviluppata rispondendo a esigenze storicamente determinate alle quali le altre scienze sociali non sembravano in grado di dare risposte soddisfacenti.
Il merito di aver coniato il termine è, come è noto, di Auguste Comte, che lo usa per la prima volta nella lezione n. 47 del suo Cours de philosophie positive (v. Comte, 1830-1842). Si tratta di un neologismo che combina una parola di origine latina (socius, societas) con una di origine greca (logos). Per quanto interessante, tuttavia, a noi non importa tanto ripercorrere la storia della parola e della sua diffusione. Basti sapere che si incomincia a parlare di sociologia nella cultura europea intorno alla metà del XIX secolo e che nei decenni successivi cresce costantemente il numero di studiosi i quali indicano con questo termine la loro produzione intellettuale e si definiscono 'sociologi'. Ma come mai, proprio in quel periodo, nasce l'esigenza di una disciplina scientifica che studi in modo sistematico i fatti sociali, una scienza della società? La risposta a questa domanda fa riferimento a tre 'rivoluzioni' che sono alla base del mondo moderno: l'avvento della scienza moderna, la rivoluzione industriale e la Rivoluzione francese. In primo luogo, il dominio della scienza moderna si estende ai fatti sociali.
Certo non si può dire che prima del XIX secolo la conoscenza dei fatti sociali non sia stata oggetto di attenzione da parte degli studiosi. Senza risalire ai grandi filosofi dell'antichità (primi fra tutti, ovviamente, Platone e Aristotele), non si può certo negare che le opere dei filosofi dell'illuminismo (da Hobbes a Locke, da Hume a Montesquieu), e di molti altri filosofi prima e dopo di loro, non contengano analisi sistematiche delle istituzioni sociali e acute osservazioni dei comportamenti sociali umani. Da questo punto di vista la sociologia segue l'esempio di tutte le scienze moderne che, a partire dalle scienze della natura, si sono staccate dal corpo del pensiero filosofico e hanno così acquistato una loro autonomia.
Il poderoso e accelerato sviluppo delle scienze della natura a partire dal XVII secolo, l'applicazione del metodo sperimentale fondato sull'osservazione dei 'fatti' ad ambiti di indagine sempre più vasti, il succedersi di scoperte capaci di gettare nuova luce sui 'segreti' della natura, i fenomeni cioè che possiamo indicare genericamente come 'rivoluzione scientifica', non potevano lasciare indifferenti coloro che si ponevano interrogativi relativi agli esseri umani, ai loro rapporti e alle loro istituzioni. È verso la fine del XVIII secolo che incomincia a diffondersi la fiducia nella possibilità di estendere allo studio dell'uomo, della società e della cultura gli stessi principî del metodo scientifico che andavano producendo tanto lusinghieri risultati nello studio dei fenomeni naturali. La nascita delle scienze sociali è quindi da inserire in un più ampio movimento culturale che conduce all'affermazione della scienza tout court come via maestra alla conoscenza e al dominio del mondo.
In secondo luogo, le scienze sociali sono un prodotto della 'rivoluzione industriale'. Tra le scienze sociali, la prima ad acquisire un proprio statuto autonomo dalla filosofia fu l'economia politica. Non a caso Adam Smith, il primo tra i grandi economisti classici, scrive anche una storia dell'astronomia nella quale tesse l'elogio del sistema newtoniano e viene annoverato, insieme a Millar e Ferguson, tra i 'moralisti scozzesi', una scuola filosofica alla quale si deve uno dei primi tentativi di applicare ai 'fatti morali' (noi diremmo oggi ai fatti sociali) la logica del ragionamento scientifico. Smith e gli altri economisti classici possono essere considerati, oltre che fondatori dell'economia politica, per un certo verso anche dei sociologi ante litteram; essi riflettono infatti sulle trasformazioni sociali che si andavano verificando sotto i loro occhi nell'Inghilterra del XVIII secolo (la nascita della manifattura capitalistica e le anticipazioni di quella che verrà chiamata 'rivoluzione industriale') e cercano di interpretarle alla luce di un modello capace di cogliere le interdipendenze tra i vari gruppi sociali coinvolti nel processo economico. Alle categorie economiche della terra, del capitale e del lavoro corrispondono infatti i gruppi o classi sociali dei proprietari terrieri, degli imprenditori capitalisti e dei lavoratori salariati, i quali percepiscono rispettivamente rendita, profitto e salario.
Questi gruppi sono legati tra loro essenzialmente da rapporti di scambio, il mercato è l'elemento connettivo della società e sul mercato ogni scambista persegue il proprio interesse egoistico, cioè cerca di vendere la propria merce (sia questa terra, capitale, beni e servizi o lavoro) al prezzo più alto possibile e di comperare quella altrui al prezzo più basso possibile. Il meccanismo della concorrenza assicura tuttavia che a prevalere sia l'interesse collettivo alla massima produzione di ricchezza, una "mano invisibile" - questa è l'espressione impiegata da Smith - la quale opera al di là delle intenzioni dei singoli per realizzare il benessere di tutti. Smith è certo consapevole che lo studio della società non può essere ridotto allo studio del funzionamento dei meccanismi di mercato (egli è tra l'altro autore di una Theory of moral sentiments e di una incompiuta Lectures on jurisprudence che non riflettono senz'altro una visione economicistica della società), tuttavia la sua opera, come quella degli economisti successivi, è stata spesso interpretata nei termini di una teoria della società ridotta ai puri e semplici rapporti di scambio.
Questa interpretazione veniva fatta propria soprattutto da coloro che vedevano e vivevano con sgomento e apprensione l'avvento della rivoluzione industriale.
La sociologia nasce infatti da un atteggiamento ambivalente nei confronti del tipo di società moderna che si andava delineando. Se infatti da un lato le rivoluzioni politiche e la rivoluzione industriale venivano viste come tappe decisive sulla strada dell'emancipazione e del progresso, un progresso che avrebbe realizzato i valori di libertà e uguaglianza, liberato l'umanità dagli incubi della fame e della miseria e sprigionato le forze creative dell'individuo, dall'altro lato erano presenti anche numerose opinioni divergenti. Vi era chi vedeva nelle trasformazioni in atto la tumultuosa irruzione di interessi senza freno che minacciavano di travolgere un ordine sociale, politico e morale sul quale si era fino ad allora fondata la vita sociale. In particolare, apparivano minacciati i rapporti gerarchici consolidati dalla tradizione, nei quali il dominio era temperato dalla solidarietà e dalla protezione dei superiori nei confronti degli inferiori e dal rispetto e dalla deferenza dei secondi nei confronti dei primi. A ciò si aggiungeva lo sradicamento di intere masse della popolazione dai loro luoghi d'origine, dalle loro abitudini di vita e dalle loro reti di relazione, conseguenza questa dei colossali processi di migrazione e di inurbamento, l'indebolimento dei rapporti tra le generazioni dovuto allo smembramento delle famiglie e all'assenza dei genitori impegnati per gran parte della giornata nelle fabbriche, il venir meno dei rapporti di fiducia fondati sulla conoscenza personale, la simpatia e il comune sentire.
L'avvento della società industriale, nella quale dominano i rapporti impersonali di scambio, era quindi interpretato come dissolutore di legami sociali autentici, come sostituzione di ciò che è 'naturale' e 'organico' con ciò che è 'artificiale' e 'meccanico'. Secondo un recente studio della storia delle idee sociali nel periodo della rivoluzione industriale (v. Mazlish, 1989), la nascita della sociologia è stata preceduta, in Inghilterra e sul continente europeo, da un movimento di natura prevalentemente letteraria che esprimeva sia nostalgia per un passato irrevocabilmente perduto, e frequentemente mitizzato, sia disagio per la dissoluzione dei legami sociali tradizionali e la loro riduzione "al nesso monetario" prodotto dall'industrializzazione (l'espressione cash nexus è di Thomas Carlyle, un esponente significativo di questa tendenza). Il romanzo di denuncia sociale dell'Ottocento (si pensi soltanto a Dickens o a Victor Hugo) anticipa senza dubbio temi che saranno successivamente ripresi in prospettiva sociologica, tuttavia l'intento di indurre nel pubblico simpatia e comprensione verso le masse dei derelitti prevale sull'intento puramente conoscitivo.
È certo comunque che la sociologia nasce per rispondere agli interrogativi posti da quella che, senza esagerazione, è stata la più radicale trasformazione che le società umane hanno subito dalla rivoluzione neolitica in poi. La sociologia è quindi figlia del mutamento; la società emerge come oggetto di studio quando i suoi fondamenti sono messi in discussione, quando i suoi ordinamenti non appaiono più stabili, quando i suoi assetti non possono più essere dati per scontati, quando cambiano i rapporti tra gruppi sociali e individui e diventano mobili i punti di riferimento e i criteri che guidano i comportamenti.Decisivi per la nascita e l'affermazione della sociologia furono i decenni a cavallo tra XIX e XX secolo.
È questo il periodo in cui si fondano le prime associazioni professionali dei sociologi, si pubblicano le prime riviste e si istituiscono le prime cattedre universitarie della nuova disciplina. È significativo notare come ciò si verifichi pressoché contemporaneamente in tutti i principali paesi al di qua e al di là dell'Atlantico, nonostante le marcate differenze di impostazione tra le diverse scuole nazionali: dal 1895 si pubblica negli Stati Uniti l'"American journal of sociology"; nel 1896 esce il primo numero dell'"Année sociologique"; la "British Sociological Society" è fondata nel 1903; nel 1910 è fondata la "Deutsche Gesellschaft für Soziologie"; anche in Italia, dove lo sviluppo della sociologia sarà successivamente interrotto dal regime fascista, si pubblica in quegli anni (1897-1922) "La rivista italiana di sociologia".Al di là di questi indizi di un iniziale processo di 'istituzionalizzazione' della disciplina, il fatto più importante è che in quegli stessi anni scrivono le loro opere principali gli autori 'classici', coloro che verranno chiamati i 'padri fondatori' della sociologia: Herbert Spencer in Inghilterra, Émile Durkheim in Francia, Ferdinand Tönnies, Max Weber e Georg Simmel in Germania, Vilfredo Pareto in Italia.
Vi sono alcuni temi che, con formulazioni diverse, attraversano l'opera dei classici della sociologia e che restano tuttora al centro della riflessione sociologica. Ne sceglieremo alcuni, ben sapendo che si tratta di una scelta parziale. Si tratta di temi strettamente connessi tra loro e che ruotano tutti intorno all'interrogativo di fondo, per riprendere il titolo di un famoso scritto di Simmel (v., 1908): come è possibile la società? Se prima degli sconvolgimenti di natura rivoluzionaria, ai quali abbiamo accennato nel capitolo precedente, l'ordine sociale appariva assicurato dalla credenza in una qualche entità trascendente dalla quale emanavano le leggi che governavano sia il mondo della natura sia il mondo umano, in una dimensione quindi essenzialmente religiosa, oppure fondato in qualche dottrina del diritto naturale, una volta infranta la credenza nella sacralità della tradizione, il fondamento dell'ordine sociale doveva essere ricercato altrove, non al di fuori, ma all'interno della società stessa. Hobbes si era già posto lo stesso problema e lo aveva risolto postulando un patto di soggezione mediante il quale gli uomini, sottoponendosi all'autorità coercitiva dello Stato, erano riusciti a controllare la loro natura egoistica e violenta che altrimenti avrebbe condotto alla disgregazione della società. Adam Smith, lo abbiamo visto, aveva invece visto nel mercato e nella 'mano invisibile' che regola gli scambi l'elemento connettivo capace di tenere insieme individui e gruppi che, anch'essi egoisticamente, perseguono interessi diversi. Stato e mercato appaiono come due risposte al problema dell'ordine sociale.
Per i primi sociologi queste due risposte non sono più sufficienti. Al di là della coercizione e dello scambio l'ordine sociale deve trovare fondamento in qualche meccanismo o processo che operi nella struttura interna dell'organismo sociale. Il termine organismo non è fuori luogo: infatti i modelli organicistici di società sono una delle prime proposte di soluzione del problema dell'ordine avanzate nell'ambito della sociologia. Tali modelli saranno destinati a fare una lunga strada e ricompariranno, in versioni modificate sempre più elaborate e complesse, anche nelle più moderne teorie funzionalistiche.
Comte è senz'altro tra i primi a formulare un modello organicistico. Egli suddivide la sociologia (che chiama anche "fisica sociale") in una 'statica' e una 'dinamica', concependo la società come un organismo composto da altri organismi (la famiglia, le associazioni, le imprese economiche, le istituzioni politiche, ecc.) ognuno dei quali assolve una funzione specifica che contribuisce per la sua parte al funzionamento del tutto. Non tutti gli organi, e le funzioni, sono tuttavia da porre sullo stesso piano. Le funzioni di controllo e di coordinamento svolte dal potere politico risultano senza dubbio più importanti. Con ciò Comte si avvicina alla soluzione hobbesiana, per allontanarsene però di nuovo quando assegna agli scienziati il compito di guidare la società e garantirne l'armonico sviluppo.
Un modello organicistico della società di stampo ancor più accentuatamente evoluzionistico è quello formulato da Spencer. Le teorie dell'evoluzione naturale di Lamarck prima e di Darwin poi esercitarono allora una notevole influenza sul pensiero sociologico e, in realtà, questa influenza non è venuta meno neppure ai nostri giorni. A Herbert Spencer va riconosciuto il merito di aver formulato una teoria generale dell'evoluzione della realtà inorganica e organica che si applica per analogia anche alle società animali e umane. Anche per Spencer, come per Comte, la società è un organismo le cui parti sono connesse tra loro da una rete di relazioni di interdipendenza. L'equilibrio che si genera tra le varie parti, tuttavia, non è mai statico bensì dinamico, sottoposto cioè a un continuo processo di evoluzione che si muove dal semplice al complesso, dall'omogeneo all'eterogeneo. Il motore del processo è la competizione, tra le specie e all'interno di ciascuna di esse, che seleziona coloro che dispongono di maggiore capacità di adattamento allo specifico ambiente nel quale si trovano a vivere e alle sue trasformazioni. Anche se Spencer non parla, come Darwin, di selezione naturale e di sopravvivenza del più adatto (survival of the fittest), è chiaro che anche per lui il processo di evoluzione si mette in moto sotto la spinta della competizione: le risposte adattive degli organismi sociali alle sfide poste dall'ambiente generano nuove funzioni, e quindi nuovi organismi, con la conseguenza di innestare processi di differenziazione e di divisione del lavoro (i due termini sono usati come sinonimi).
Con Spencer il problema dell'ordine sociale si declina quindi nei termini della divisione del lavoro, e da allora in poi questo è diventato uno dei temi centrali della teoria sociologica. Simmel, ad esempio, scrive il suo primo impegnativo lavoro sociologico (Die soziale Differenzierung, 1890) richiamandosi ampiamente a Spencer. La divisione del lavoro, producendo differenziazione sociale, fa in modo non solo che i vari compiti e funzioni vengano svolti da organi specializzati e all'interno di questi da singoli individui, ma anche che la conseguente eterogeneità tra gli appartenenti a una società crei le basi per l'accentuata 'individualizzazione' tipica della modernità. Gli esseri umani diventano così sempre più diversi l'uno dall'altro, ma proprio in virtù di questa diversità devono sempre più fare affidamento sugli altri per soddisfare le proprie esigenze, devono stabilire rapporti di interazione reciproca, diretta o - più spesso - indiretta attraverso la mediazione del denaro, con chi è lontano nello spazio fisico e sociale; la diversità, in altre parole, estende e approfondisce le relazioni di interdipendenza. Nelle condizioni della modernità l'ordine sociale non è quindi qualcosa di imposto dall'esterno, ma cresce, per così dire, spontaneamente dall'interno; la società è possibile perché non si può fare a meno di quella rete di interdipendenze che lega insieme individui sempre più diversi l'uno dall'altro.
È significativo che negli stessi anni in cui Simmel affrontava in Germania il tema della differenziazione sociale, Émile Durkheim lavorasse in Francia a quella che diventerà una delle opere più lette della sociologia, De la division du travail social (1893). Anche per Durkheim il problema dell'ordine, di che cosa tiene insieme la società, è il problema centrale della sociologia, ma egli va oltre la lezione di Comte, di cui peraltro si riconosce continuatore, individuando un nesso profondo tra forme della divisione del lavoro e forme della solidarietà sociale. Per Durkheim esistono due forme diverse di solidarietà: quella che si genera tra uguali e quella che si genera tra diversi (di cui il matrimonio è l'esempio tipico). La prima è caratteristica delle società che, sulla scorta degli studi etnografici del tempo, Durkheim chiama "segmentarie": in esse la divisione del lavoro è scarsa e le unità che le compongono sono poco differenziate tra loro. Che si tratti di tribù o clan di società di cacciatori/raccoglitori, di villaggi di società agricole, o di singole unità domestiche all'interno di questi villaggi, nelle società segmentarie dominano condizioni di forte omogeneità, ogni unità è un segmento della stessa retta e la retta (la società) è composta dalla somma di questi segmenti. Ciò che le tiene insieme è un vincolo di solidarietà fondato sulla credenza in una comune origine o identità.
Non essendoci interdipendenza tra le parti, perché le parti non sono differenziate tra loro, il vincolo di solidarietà appare a Durkheim originarsi in un certo senso all'esterno, in una credenza di natura fondamentalmente sacrale e religiosa. La solidarietà, tuttavia, è una dimensione astratta che non si può cogliere empiricamente se non in modo indiretto: essa si manifesta nelle norme giuridiche e, in particolare, nel tipo di sanzioni che colpiscono chi viola tali norme. Nelle società segmentarie prevalgono le norme del diritto penale a sanzione 'repressiva', poiché chi viola la norma infrange il vincolo sacrale che tiene unita la società e deve quindi essere punito in modo esemplare. Durkheim chiama "meccanica" questa forma di solidarietà.
Diversamente, nelle società moderne dove prevale la divisione del lavoro il vincolo di solidarietà è di natura interna, è fondato cioè sui nessi di interdipendenza tra le varie funzioni e professioni svolte da individui e gruppi sociali; le norme giuridiche prevalenti sono quelle del diritto civile (in particolare di quello commerciale) e le sanzioni sono di tipo 'restitutivo', tendono cioè non tanto a punire il colpevole della violazione quanto a ristabilire le condizioni di equilibrio turbate dalla violazione stessa (tipica la sanzione che impone l'obbligo di risarcimento a chi ha prodotto un danno). A differenza della precedente, questa forma di solidarietà è chiamata "organica".A dire il vero, il pensiero di Durkheim sulla divisione del lavoro è più complesso. Egli ammette, tra l'altro, che non sempre essa genera solidarietà, ma può condurre anche a condizioni di anomia (di assenza di norme o di disordine normativo), e per far fronte a queste anomalie invoca la rivitalizzazione degli ordinamenti delle corporazioni professionali, capaci di ristabilire dei vincoli di natura morale che le forze libere del mercato rischiano di distruggere. È vero, inoltre, che nelle sue ultime opere (in particolare in Les formes élémentaires de la vie religieuse e negli scritti sull'educazione civile) egli ritorna sul problema del vincolo di natura morale di cui neppure le società moderne potrebbero fare a meno.
A noi però in questa sede interessa soprattutto cogliere la struttura analitica della soluzione che egli dà al problema dell'ordine sociale e sottolineare come questa soluzione sfoci in una teoria (o forse sarebbe meglio dire in una tassonomia di tipo dicotomico) del mutamento sociale. Il problema dell'ordine si pone cioè in termini sostanzialmente diversi per le società moderne (quelle uscite dai cambiamenti del XVIII e XIX secolo) e per le società tradizionali. Il problema del mutamento rappresenta l'altra faccia del problema dell'ordine.Anche Tönnies affronta lo stesso problema con un modello dicotomico, ma con connotazioni ideologiche di segno contrario. Mentre per Durkheim, come per Comte e Spencer, il mutamento è sostanzialmente progressivo, Tönnies guarda all'avvento della modernità, ancorché giudicato ineluttabile, con un misto di apprensione e di nostalgia per il passato.
È lo stesso atteggiamento che ritroviamo tra gli esponenti della scuola storica e che costituisce il parallelo, sul versante delle scienze sociali, di quel movimento letterario che nel XIX secolo aveva mostrato una resistenza ideologica al portato dell'età delle rivoluzioni. Tönnies prende le mosse da Hobbes (al quale aveva dedicato uno dei suoi primi studi); anche per lui l'uomo è dominato da una volontà di sopraffazione che soltanto nella vita sociale trova limite e attenuazione. Questo avviene, tuttavia, in forme storicamente diverse, forme che danno il titolo all'opera più famosa di questo autore, Gemeinschaft und Gesellschaft (1887). Per Tönnies i termini 'organico' e 'meccanico' hanno un significato diametralmente opposto a quello loro attribuito da Durkheim. Organica è la comunità, che emerge in forme embrionali in seno alla famiglia nei rapporti tra madre e bambino, tra moglie e marito, tra fratelli e sorelle, per estendersi poi ai rapporti di vicinato e di amicizia. Questi rapporti sono improntati a intimità, riconoscenza, condivisione di linguaggi, significati, abitudini, spazi, ricordi ed esperienze comuni.
I vincoli di sangue (famiglia e parentela), di luogo (vicinato) e di spirito (amicizia) contribuiscono a formare delle 'unità organiche', nelle quali gli esseri umani si sentono uniti in modo permanente da fattori che li rendono simili gli uni agli altri. All'interno della comunità i rapporti non sono segmentati in termini di ruoli specializzati, ma comportano che i membri siano presenti con la totalità del loro essere. Nella comunità si esprime quella che Tönnies chiama "volontà essenziale" (Wesenwillen).
Nulla di tutto questo avviene nell'ambito della società. Nella società gli individui vivono isolati, in stato di tensione con gli altri, e ogni tentativo di entrare nella loro sfera privata viene percepito come un atto di intrusione. Il rapporto societario tipico è il rapporto di scambio, dove i contraenti non sono mai disposti a dare qualcosa di più di quello che ricevono, e che mette in relazione non gli individui nella loro totalità, ma soltanto le loro prestazioni: chi vende non è interessato al compratore come individuo, né all'uso che farà del bene scambiato, ma solo alla sua capacità di pagare il prezzo stabilito. La società è quindi una costruzione artificiale e convenzionale, composta da individui separati, ognuno dei quali persegue il proprio interesse personale; essa entra in gioco soltanto come garante del fatto che le obbligazioni che i contraenti si sono reciprocamente assunti verranno onorate e nulla viene fatto senza aspettarsi una contropartita, sia nei rapporti interpersonali, sia nei rapporti tra individui e istituzioni. In essa domina quella che Tönnies chiama la "volontà arbitraria" (Kurwillen).
Le dicotomie solidarietà organica/solidarietà meccanica e comunità/società, se servono per descrivere il mutamento sociale, non servono tuttavia per spiegarlo. In Durkheim e Tönnies manca una vera e propria teoria del mutamento, anche se Durkheim indica nell'aumento della "densità sociale" (un concetto abbastanza oscuro) la causa che fa progredire la divisione del lavoro. Per trovare negli autori classici elementi di una teoria del mutamento bisogna rivolgersi ad altri filoni teorici e, in particolare, a coloro che hanno tematizzato il conflitto sociale. Il riferimento a Marx è ovviamente d'obbligo, anche se a rigore non si può considerarlo un classico della sociologia (altre discipline possono con uguale se non maggior fondamento annoverarlo tra i loro classici). Marx è stato però senz'altro un precursore della sociologia, e la sua influenza sul pensiero sociologico è stata sicuramente notevole. In questa sede ci interessa in particolare il suo contributo a una teoria del conflitto e del mutamento sociale.
Per Marx in ogni società i rapporti sociali fondamentali sono quelli che si instaurano nella sfera della produzione e distribuzione dei beni e servizi che servono alla società stessa per funzionare e riprodursi. I rapporti tra schiavo e padrone nell'antichità, tra servo della gleba e signore fondiario nell'età feudale, tra lavoratore salariato e capitalista nella fase storica caratterizzata dalla grande industria determinano la struttura portante delle rispettive società, ovvero la loro struttura di classe. Questi rapporti sono essenzialmente rapporti di dominio e sfruttamento e quindi intrinsecamente conflittuali, in quanto gli interessi delle classi contrapposte sono inevitabilmente antagonistici. Le idee religiose, filosofiche e politiche, così come le istituzioni giuridiche, svolgono una funzione ideologica e sono in ultima istanza riconducibili alle strutture di classe e alle esigenze di stabilizzare le strutture del dominio e dello sfruttamento; esse sono quindi viste come mere sovrastrutture.
La storia - scrivono Marx ed Engels nel Manifesto del partito comunista del 1848 - è stata finora storia della lotta di classe. Il conflitto di classe è la grande forza della storia, il motore del mutamento sociale. Il meccanismo che mette in moto il mutamento è di natura dialettica nel senso che ogni sistema sociale (Marx parla di "modo di produzione") produce nel suo seno le forze destinate deterministicamente a negarlo e alla fine a superarlo. Il proletariato industriale è il prodotto del sistema capitalistico, ma anche il fattore che condurrà alla sua distruzione e all'instaurazione (questo è l'elemento profetico) di una società senza classi dove verranno meno anche le ragioni del conflitto.
L'altra grande teorizzazione che pone il conflitto al centro dell'analisi sociale è quella weberiana. A differenza di Marx, per Weber il conflitto non si riduce alla lotta di classe. Le classi non sono l'unica (e neppure la prevalente) struttura intorno alla quale si organizzano gli interessi in conflitto. Esse nascono dalla contrapposizione di interessi economici che si scontrano là dove si formano dei mercati. Così nell'antichità si può parlare di lotta di classe tra creditori e debitori dove si era formato un mercato dei prestiti; nel Medioevo di lotta di classe tra città e campagna, cioè tra contadini e cittadini, intorno alla fissazione del prezzo delle derrate alimentari; nell'età moderna la lotta di classe si manifesta principalmente sui mercati dove si scambia forza lavoro. Determinante per stabilire l'esito del conflitto è quindi il potere di mercato, che a sua volta dipende dal rapporto domanda-offerta e, in particolare, dalla capacità di una classe di monopolizzare l'offerta della risorsa scambiata. Un conflitto di classe generalizzato tra capitale e lavoro come quello preconizzato da Marx appare quanto mai improbabile, sia perché il mercato del lavoro è di fatto frazionato in una pluralità di mercati (localmente e per tipo di qualifica), sia perché il grado di organizzazione degli interessi è variabile da mercato a mercato.
La sfera economica non è l'unica nella quale si manifesta il conflitto. Accanto a essa si collocano le sfere della politica, del diritto, della religione, dell'onore e del prestigio. Le poste in gioco intorno alle quali si mobilitano gli interessi in conflitto possono quindi essere molteplici. Le varie sfere non sono isolate l'una dall'altra, ma reciprocamente connesse, anche se ognuna mantiene una sua relativa autonomia. I conflitti che si manifestano in una sfera, ad esempio la sfera economica dei rapporti di classe, si ripercuotono e possono estendersi anche alle altre, senza però che tra le varie sfere si possano stabilire dei rapporti di determinazione unilaterali. Come è noto, lo studio delle connessioni tra economia, politica, diritto, religione forma l'oggetto del grande affresco disegnato da Weber nell'opera Wirtschaft und Gesellschaft (pubblicata postuma nel 1922). In questa luce deve essere letta anche la tesi weberiana sulle origini protestanti dello spirito del capitalismo.
Il conflitto nasce in questo caso nella sfera religiosa e su un terreno squisitamente teologico e morale; tuttavia le nuove credenze e le nuove sette producono conseguenze sugli atteggiamenti dei credenti verso l'attività economica e mettono in moto delle dinamiche che risulteranno favorevoli allo sviluppo dell'imprenditorialità capitalistica. Il conflitto non è per Weber una condizione patologica della società, ma la sua condizione normale. Esso non conduce alla disgregazione della società, ma alla creazione di strutture istituzionali (quelle che Weber chiama gli "ordinamenti sociali") le quali esprimono i rapporti di forza che si sono provvisoriamente consolidati e che quindi, fino a quando non vengono messe in discussione, svolgono la funzione di regolazione del conflitto. La formazione della città medievale, ad esempio, che tanto peso avrebbe avuto nel fondare i moderni diritti di cittadinanza, fu l'esito di una lotta tra il nascente ceto borghese urbano e il ceto aristocratico. I cittadini che si armavano per affermare e difendere le loro libertà contro i signori feudali commettevano certo un atto di usurpazione per sottrarsi agli obblighi imposti dal potere feudale, ma non per questo perseguivano intenzionalmente la meta della sua distruzione. Questa lotta non ebbe ovunque lo stesso esito; in certi casi prevalse decisamente l'elemento urbano, in altri sfociò in un compromesso di volta in volta più o meno favorevole all'una o all'altra parte, e ciò spiega la grande varietà delle costituzioni cittadine nelle diverse regioni d'Europa.
Ogni assetto istituzionale è solo provvisoriamente stabile; prima o poi a coloro che sono interessati al suo mantenimento si contrapporranno altri gruppi interessati invece alla sua trasformazione. Nuovi conflitti, nuovi movimenti, nuove alleanze, nuovi vincitori e nuovi vinti si affacceranno sulla scena, e così fino alla fine dei secoli. Non c'è in Weber, come in Marx, un esito finale dove i conflitti si placano e regna l'armonia; non c'è, in altre parole, una filosofia che assegna un fine al corso della storia. Il conflitto genera sia ordine sia mutamento. L'ordine è l'assetto delle istituzioni che regolano temporaneamente il conflitto; il mutamento trasforma le istituzioni esistenti o dà vita a nuove istituzioni. La società stessa non è altro che l'insieme delle istituzioni e dei conflitti che si intrecciano su piani e in sfere diverse, e gli attori sociali si muovono in questo spazio dovendo scegliere continuamente da che parte stare.Anche Pareto (v., 1916), e con lui quella che viene chiamata la 'scuola elitistica', sviluppa una concezione sostanzialmente conflittuale della società. Egli scrive che "la storia è un cimitero di aristocrazie", è cioè lotta tra élites di governo ed élites che cercano di usurpare il potere delle prime e sostituirsi a esse. In questa lotta incessante le élites sono animate da istinti (Pareto li chiama "residui") di dominio e di sopraffazione che possono manifestarsi sia con la forza sia con l'astuzia.
Non bisogna lasciarsi trarre in inganno, dice Pareto, dai valori e dagli ideali che le parti dichiarano di perseguire; dietro queste dichiarazioni (chiamate "derivazioni") si nasconde la dura realtà della lotta per il potere. Il concetto paretiano di derivazione presenta non poche somiglianze col concetto marxiano di ideologia, poiché in entrambi i casi si tratta di costruzioni di idee che hanno la funzione di 'velare' la realtà sottostante agli occhi degli attori coinvolti. La sociologia assume quindi la funzione critica di 'svelare' la realtà nascosta dalle apparenze.
L'uomo comune rimane in genere sconcertato di fronte alle discussioni tra esperti di scienze sociali, perché assai spesso questi non sono d'accordo sui presupposti dai quali partire e, sulla base dei risultati delle loro ricerche, giungono a conclusioni anche fortemente discordanti. A dire il vero ciò non accade solo nel campo delle scienze sociali. Anche gli scienziati naturali (o addirittura i matematici) formulano a volte teorie divergenti e risolvono in modi alternativi i 'rompicapo' che si presentano nel corso della ricerca; ma tra di essi tuttavia è più facile che prima o poi si arrivi a un consenso (almeno temporaneo) su quali sono gli assunti di base, le teorie e i metodi di ricerca e quindi sulle interpretazioni da dare ai risultati ottenuti.
Nel 1962, in un'opera molto influente e discussa (The structure of scientific revolutions), Thomas Kuhn, uno storico della scienza americano, ha proposto di chiamare "paradigmi scientifici" quegli assunti di base di natura teorica e metodologica sui quali una comunità di scienziati, in un determinato campo, sviluppa un consenso storicamente accettato da tutti (o quasi) i suoi membri. Quando ciò accade vuol dire che ci si trova in una fase di "scienza normale", mentre nelle fasi delle "rivoluzioni scientifiche" emerge un nuovo paradigma che, se ha successo, è destinato a sostituire quello precedente.Nelle scienze sociali questo modello è difficilmente applicabile, perché siamo sempre di fronte a una pluralità di paradigmi in competizione tra loro e, quando uno di essi tende a prevalere, la sua egemonia è sempre solo parziale e temporanea. Se ciò è vero per le scienze sociali più consolidate, come l'economia politica, lo è a maggior ragione per la sociologia.
Nel capitolo precedente abbiamo visto come sia diverso assumere come punto di partenza il problema dell'ordine, oppure il problema del conflitto. Si possono considerare ordine e conflitto come appartenenti a due diversi paradigmi; il primo accomuna Comte, Spencer e Durkheim, il secondo Marx, Weber e Pareto.In questo capitolo illustreremo altri due paradigmi che attraversano la storia della disciplina dalle origini fino ai nostri giorni e che forniscono due modi alternativi di accostarsi alla realtà sociale. Il fatto che questi paradigmi si siano presentati come contrapposti non esclude la possibilità di una sintesi e, in realtà, diversi tentativi sono stati fatti di recente proprio in questa direzione. Chiameremo, come è ormai d'uso, il primo 'paradigma della struttura' e il secondo 'paradigma dell'azione'.
I sostenitori del paradigma della struttura prendono le mosse dall'assunto che per spiegare i comportamenti umani bisogna partire dalla società. Ogni uomo (o donna) nasce in un mondo sociale preformato, cresce in un determinato ambiente, assume i valori, le credenze, le visioni del mondo, i modi di pensare e le abitudini che vigono nella società in cui è nato e nell'ambiente specifico in cui vive, si trova a frequentare scuole adeguate alla sua condizione, entrerà in un ruolo lavorativo dove si aspettano da lui determinate prestazioni, costruirà una famiglia secondo i canoni prescritti, svilupperà preferenze, stili di vita, ma anche idee politiche, che saranno fortemente condizionate dalla sua esperienza. L'intera sua esistenza seguirà un percorso largamente prevedibile, in quanto non potrà fare altro che battere strade già tracciate. La struttura sociale altro non è che il reticolo di queste strade. Ciò non vuol dire che l'individuo non sia libero di compiere delle scelte, ma la sua libertà rimane tuttavia confinata nei limiti ristretti consentiti dalla struttura sociale.
Tutte le volte che imputiamo alla società le cause del comportamento di un individuo o di un gruppo, seguiamo, magari senza rendercene conto, un approccio che parte dalla struttura sociale per arrivare all'individuo. Prendiamo, ad esempio, una spiegazione frequente dell'insorgere di comportamenti devianti. Quando un individuo commette un reato grave si va a scavare nella sua biografia per scoprire fatti o circostanze che possono averlo indotto sulla via del crimine; si scopre che i suoi genitori erano immigrati, che il padre aveva abbandonato la famiglia quando lui era piccolo, che la madre doveva lavorare tutto il giorno fuori casa per mantenere una prole numerosa, che ha abbandonato dopo pochi anni la scuola per scarso profitto, che è entrato in contatto con una banda di ragazzi di quartiere in situazioni simili alla sua, che ha compiuto piccoli furti nei negozi del quartiere, che ha passato alcuni mesi in un centro correzionale e così via. Si dice allora che le cause del crimine sono cause sociali; infatti, la probabilità che un individuo vissuto nelle condizioni che abbiamo appena indicato diventi criminale è molto più elevata che non nel caso di un individuo che ha avuto una biografia meno accidentata.
I modelli di spiegazione utilizzati da Marx e da Durkheim sono chiaramente classificabili nell'ambito del paradigma della struttura. Quando Marx analizza i rapporti tra le classi e parla di sfruttamento da parte dei capitalisti nei confronti dei lavoratori salariati non pensa certo che i membri delle due classi abbiano la possibilità di comportarsi in modo diverso; la posizione che essi occupano nella struttura sociale impone agli uni di fare tutto il possibile per accrescere i profitti e agli altri di vendere la forza lavoro a un prezzo che garantisce loro appena la sopravvivenza. Se un imprenditore, mosso da sentimenti filantropici, decidesse di aumentare i salari dei propri operai, sarebbe presto costretto a uscire dal mercato schiacciato dalla concorrenza.
Durkheim teorizza esplicitamente, in Les règles de la méthode sociologique (1895), che la società viene prima degli individui, che i 'fatti sociali' possono essere spiegati solo da altri fatti sociali e che non si può partire dal comportamento degli individui, dalle loro motivazioni e dalla loro personalità, per arrivare alla società. La sua polemica contro le spiegazioni psicologiche dei fatti sociali raggiunge il culmine nello studio sul suicidio (1897). Non vi è forse comportamento più individuale di quello messo in atto da chi decide di togliersi la vita. Eppure, sulla base della più ampia documentazione statistica disponibile al suo tempo, Durkheim mostra che nel suicidio operano cause sociali. Queste non possono certo spiegare in modo esaustivo il singolo caso di suicidio, ma possono spiegare come in certe condizioni sociali, che riducono il livello di integrazione di un individuo nelle reti di rapporti sociali, aumenti la probabilità che egli giunga alla decisione di togliersi la vita. Si può spiegare così perché l'incidenza dei suicidi sia più elevata tra i protestanti (che mancano del conforto protettivo della Chiesa) che non fra i cattolici, tra i vedovi, nubili e senza figli che non tra gli sposati e con prole, in periodi di pace rispetto ai periodi di guerra (dove le solidarietà si rafforzano di fronte al pericolo), in periodi di forte espansione economica rispetto a periodi di stabilità e così via.Le spiegazioni strutturali fanno sempre riferimento a qualche forza che agisce alle spalle degli individui (spesso a loro insaputa) e li spinge a comportarsi in un determinato modo. La scelta del coniuge (o del partner) sembra, ad esempio, un comportamento strettamente legato alle caratteristiche più schiettamente individuali delle persone coinvolte e infatti, almeno nelle società moderne, si fonda sull'amore romantico, un sentimento fortemente soggettivo. Tuttavia, come scrive Peter Berger (v., 1963, p. 42), Cupido non colpisce mai del tutto a caso: l'amore romantico ha molta più probabilità di nascere tra persone della stessa razza, religione, nazionalità, ceto sociale, grado di istruzione, che abitano nella stessa città e che frequentano gli stessi luoghi e le stesse amicizie.
Le teorie funzionalistiche operano anch'esse con un modello di spiegazione di tipo 'strutturale': le parti sono spiegate in relazione alle funzioni che svolgono per il tutto, il percorso non è dalle parti al tutto, ma dal tutto alle parti. La teoria dei ruoli, in quanto parte dell'apparato teorico funzionalistico, spiega il comportamento degli individui in base alla posizione (lo status) che occupano in uno dei sottosistemi che compongono il sistema sociale. I ruoli sono strutture normative che determinano le aspettative, vale a dire l'insieme dei diritti e doveri, nei confronti di chi occupa una determinata posizione sociale. Quando sono noti i ruoli che un individuo svolge, sappiamo già quali sono le costrizioni alle quali è sottoposto il suo comportamento e quindi siamo in grado di prevederlo con un notevole grado di certezza.
In altri termini, è la società che spiega gli individui e non viceversa. Non sono tanto gli individui che scelgono la posizione sociale che occupano e i ruoli che svolgono, ma è piuttosto la struttura sociale che seleziona e forma gli individui adatti a ricoprire quei ruoli e occupare quelle posizioni. Per questa ragione il paradigma della struttura riflette una concezione olistica del sociale, in quanto concepisce la società come l'unità prioritaria di analisi e gli individui come veicoli attraverso i quali la società si esprime.
Se il paradigma della struttura è nato nella tradizione della sociologia positivista francese (che da Comte attraverso Durkheim arriverà poi fino all'antropologia di Lévi-Strauss), il paradigma dell'azione nasce in Germania nel contesto del dibattito metodologico (Methodenstreit) sui fondamenti della scienza economica, dibattito che vede la contrapposizione tra l'impostazione storicistica rappresentata dagli esponenti della cosiddetta nuova scuola storica dell'economia (in particolare, Gustav von Schmoller), i quali negano la possibilità di una conoscenza generalizzante dei fenomeni sociali, e l'impostazione analitica degli esponenti della cosiddetta scuola austriaca (in particolare Carl Menger), che sostengono invece la possibilità di formulare concetti e leggi generali basate sullo studio del comportamento dei singoli attori.
Max Weber, al quale è attribuito il merito di aver posto i fondamenti del paradigma dell'azione, non si schiera da nessuna delle parti contrapposte, ma opera una sintesi originale. Egli sostiene che la conoscenza storica, se vuole essere una scienza e non una semplice narrazione di fatti, non può fare a meno di utilizzare strumenti concettuali di natura teorica, e rivendica per le scienze sociali (in particolare nel suo caso economia e sociologia) il compito di elaborare un apparato teorico-concettuale che possa servire ai fini dell'imputazione causale. Per spiegare causalmente i fenomeni sociali, di qualsiasi natura essi siano, è tuttavia sempre necessario ricondurli ad atteggiamenti, credenze e comportamenti individuali, e di questi si deve cogliere il significato che rivestono per l'attore. I principî del paradigma dell'azione sono quindi due:
1) i fenomeni macroscopici devono essere ricondotti alle loro cause microscopiche (le azioni individuali);
2) per spiegare le azioni individuali è necessario tener conto dei motivi degli attori.
Questi due principî richiedono qualche chiarimento.
Se per il paradigma della struttura abbiamo parlato di olismo, in riferimento al paradigma dell'azione si parla di individualismo metodologico. Come si legge in una lettera che Weber scrisse nel 1920 all'economista Liefmann (citata da Mommsen: v., 1974) "anche la sociologia (come l'economia) non può procedere che dalle azioni di uno, alcuni o parecchi individui separati. È questa la ragione per cui essa deve dotarsi di metodi strettamente individualistici". Il termine 'individualismo' non deve trarre in inganno. A esso non è attribuito nessun significato valutativo o morale, positivo o negativo, ma soltanto un significato logico. Esso indica che non si possono imputare azioni a entità astratte o ad attori collettivi di cui si ipostatizza l'unità. Secondo i canoni dell'individualismo metodologico, ad esempio, non è corretto affermare che "la classe operaia nutriva sentimenti di risentimento nei confronti della classe borghese", oppure che "la Germania subì un'umiliazione a Versailles", mentre è lecito affermare che "il sindacato dei metalmeccanici proclamò uno sciopero", oppure che "il Partito democratico negli Stati Uniti si schierò a favore delle leggi contro la segregazione razziale". Nei primi due casi si postula l'esistenza di attori collettivi che non sono in grado di esprimere sentimenti e volontà, nel secondo caso si tratta sempre di attori collettivi, ma questa volta dotati di organi e procedure capaci di produrre decisioni vincolanti per tutti i loro aderenti. Il secondo principio indica che per spiegare un'azione si deve tener conto dei motivi dell'attore (Weber usa il termine "senso intenzionato"), vale a dire che bisogna mettere in atto un processo di 'comprensione'.
È evidente che alla base di questo approccio vi è una sorta di antropologia filosofica, cioè una concezione dell'uomo come essere dotato della capacità di compiere delle scelte e di dare un senso alle sue azioni. Ciò non vuol dire che l'individuo non sia vincolato nelle sue scelte: come scrive Boudon, uno dei maggiori esponenti attuali di questa corrente di pensiero, "l'individualismo metodologico riconosce indiscutibilmente che l'attore sociale si muove in un contesto che in buona parte gli si impone" (v. Boudon, 1992, p. 34). L'attore si muove sempre in situazioni che comportano vincoli e condizionamenti, ma non si riduce mai a essere un burattino mosso da forze esterne che non è in grado di controllare. Nell'ambito dei vincoli contestuali (strutturali o contingenti) egli persegue mete ed elabora strategie che possono avere più o meno successo, ma che comunque danno un 'senso' alla sua azione.
Può capitare, e di fatto ciò accade abbastanza spesso, di osservare azioni che ci appaiono prive di senso. Prima di tutto è necessario chiedersi se esse sono prive di senso per noi che le osserviamo, oppure anche per colui che le compie. Gli psichiatri, ad esempio, sanno che il comportamento di un malato di mente ci può apparire insensato, ma non lo è affatto per chi lo adotta; solo che in questi casi ci riesce particolarmente difficile 'penetrare nella mente' dell'attore e quindi 'comprendere' il senso della sua azione. Lo stesso accade quando gli antropologi cercano di 'comprendere' le pratiche di qualche società ancora scarsamente conosciuta, che a prima vista appaiono insensate solo per il fatto che la familiarità dell'osservatore con la cultura di quella società è insufficiente. Inoltre, gli attori non sempre sono consapevoli del senso delle proprie azioni, oppure il senso che vi attribuiscono è diverso da quello che appare a un osservatore esterno. Capita frequentemente, ad esempio, che due coniugi litighino per 'futili motivi', mentre in realtà, senza confessarlo neppure a se stessi, stanno scaricando sull'altro motivi di tensione di altra natura. Non solo gli esseri umani non sono del tutto trasparenti a se stessi (non sanno dare ragioni plausibili dei loro comportamenti), ma spesso si autoingannano su quali sono le 'vere' ragioni.Se da un lato la comprensione delle ragioni degli attori può presentare le difficoltà alle quali abbiamo fatto cenno, dall'altro vi sono molti tipi di azione le cui ragioni appaiono evidenti.
Secondo Weber, la comprensione raggiunge il massimo grado di evidenza nel caso delle azioni razionali. Gli economisti, e in particolare gli economisti di scuola marginalistica da Menger in poi, avevano costruito sul postulato della razionalità un imponente impianto teorico. Weber ha senz'altro presente questo impianto teorico quando parla di "schemi di azione razionale". Del resto, il tema della razionalità era ampiamente dibattuto nei primi decenni del XX secolo. Un altro grande economista e sociologo, Vilfredo Pareto, aveva elaborato sulla base del modello marginalista una teoria dell'equilibrio economico e, nella sua opera sociologica (il Traité de sociologie générale del 1916), aveva proposto di distinguere tra azioni logiche (l'oggetto specifico della scienza economica) e azioni non logiche, di cui avrebbe dovuto prevalentemente occuparsi la sociologia.
Tuttavia la razionalità di cui parlano gli economisti si riferisce a una nozione ristretta del concetto, riguarda cioè soltanto la razionalità strumentale o teleologica (Zweckrationalität) che Weber distingue dalla razionalità rispetto al valore o assiologica (Wertrationalität). Il primo tipo di razionalità si riferisce a quelle forme di comportamento che sono orientate intenzionalmente verso uno scopo (in questo caso vi è coincidenza tra senso e scopo dell'azione), il secondo tipo riguarda invece i comportamenti rigorosamente conformi a scelte valutative che l'attore ha adottato come criteri assoluti di orientamento dell'azione, a prescindere dalle conseguenze che da tali comportamenti potrebbero derivare. Tipiche azioni razionali del primo tipo sono quelle che si realizzano nello scambio di mercato in cui gli attori coinvolti perseguono un obiettivo di ottimizzazione (ad esempio, la massimizzazione dell'utilità). Altrettanto razionali in senso strumentale possono essere, ad esempio, anche i comportamenti di deferenza nei confronti di qualcuno per ingraziarsi i suoi favori, oppure le promesse del leader politico per ottenere consenso. Si tratta in ogni caso di azioni improntate a un principio utilitaristico. Razionale rispetto al valore è, invece, ad esempio, il comportamento del militante pacifista che si rifiuta di impugnare le armi anche quando si tratta di difendere la patria contro un aggressore esterno, oppure del credente disposto a subire qualsiasi sofferenza piuttosto che abiurare alla sua fede, e in genere qualsiasi comportamento improntato al criterio che non si può venir meno ai propri principî e venire a compromessi con la propria coscienza, anche se ciò può provocare un danno a sé o ad altri.
L'accento posto da Weber sulla razionalità non implica una concezione dell'uomo come essere razionale. Non solo perché i tipi di razionalità, come abbiamo visto, sono assai diversi tra loro e conducono ad azioni di significato anche diametralmente opposto, ma perché accanto all'agire razionale Weber colloca altre forme di agire (come l'agire affettivo o l'agire tradizionale) che razionali non sono. All'agire razionale Weber, e dopo di lui tutti coloro che hanno continuato questa linea teorica, assegna tuttavia una priorità metodologica. L'uomo non è un essere razionale, ma è un essere capace di agire razionalmente, ogni sua azione concreta può quindi avvicinarsi o discostarsi dal modello dell'azione razionale ed essere dunque interpretabile e spiegabile causalmente alla luce dei motivi che possono averla fatta convergere verso o deviare da tale modello.
Lasciamo tuttavia provvisoriamente da parte il tema della razionalità, che riprenderemo in seguito, e chiediamoci se e come i paradigmi della struttura e dell'azione siano tra loro compatibili. Il paradigma della struttura vede nella società prevalentemente l'elemento della costrizione e gli individui come esseri che devono, volenti o nolenti, adattarsi alle circostanze che vengono loro imposte. Le metafore comunemente utilizzate in proposito sono quelle del teatro dei pupi, dove le marionette sono mosse da chi tiene i fili della situazione, oppure del teatro vero e proprio, dove gli attori si limitano a recitare (più o meno bene) un copione che non hanno contribuito a scrivere. All'attore viene lasciato quindi nessuno o poco spazio. Il paradigma dell'azione, al contrario, concede spazio all'attore, non solo nel senso che questi può scegliere diversi corsi di azione, pur nell'ambito dei vincoli posti dalla struttura, ma con la sua azione pone in essere la struttura stessa. Le strutture sociali, le istituzioni, infatti, altro non sono che aggregati di azioni che si sono consolidate nel tempo, ma che, così come sono state prodotte, possono anche essere modificate nel tempo da altre azioni.
Il passaggio dall'azione alla struttura, dal livello micro al livello macro, è teoricamente decisivo nel quadro del paradigma dell'azione. Il concetto di 'effetto non intenzionale' è in questo contesto di grande importanza. Un tipico 'effetto non intenzionale' è presente nell'ipotesi weberiana sul rapporto tra etica protestante e spirito del capitalismo. Secondo Weber il dogma della predestinazione metteva i credenti in una situazione di angoscia relativa al proprio destino di salvezza, angoscia che tuttavia poteva trovare sollievo nei segnali di salvezza ricavabili dal successo terreno e in particolare dal successo nell'attività imprenditoriale. Certo Calvino non avrebbe mai pensato che i suoi insegnamenti avrebbero alla lunga avuto la conseguenza di favorire la nascita del sistema capitalistico. Molti altri esempi di effetti non intenzionali si trovano nella letteratura sociologica: Pareto (v., 1916) riprende da Smith l'esempio del commerciante che abbassa i prezzi per sottrarre clienti alla concorrenza, obbligando questa a fare altrettanto a tutto vantaggio del consumatore (in questo caso si tratta di un effetto non intenzionale 'virtuoso'); Merton (v., 1949) richiama il caso della diffusione di voci infondate circa la solvibilità di una banca, che induce i depositanti a ritirare i propri depositi provocando così il fallimento della banca (in questo caso l'effetto non intenzionale è un effetto 'perverso').
Si tratta in effetti di una 'profezia che si autoavvera': un'idea 'falsa' (il bilancio della banca è solidissimo) produce delle conseguenze 'vere' (il fallimento della banca stessa). La categoria degli effetti non intenzionali (desiderabili o indesiderabili), chiamati anche effetti di composizione, di aggregazione o emergenti, è importante per due ragioni. Da una parte essa mette in luce come sia frequente il caso di azioni individuali che producono effetti diversi e spesso contrari alle intenzioni degli attori. Dall'altra essa spiega come da una molteplicità di azioni individuali si generino strutture istituzionali che nessun attore ha 'voluto intenzionalmente', ma che, una volta consolidatesi, costituiscono un vincolo per gli attori stessi.
L'istituzione 'mercato' è il tipico esempio di una struttura che si è generata storicamente in modo spontaneo dall'intrecciarsi di una miriade di scambi tra compratori e venditori.A questo punto possiamo rispondere alla domanda circa la compatibilità dei due paradigmi: essi sono incompatibili solo se si adotta una visione rigorosamente deterministica del condizionamento dei comportamenti umani da parte della struttura sociale, oppure se si adotta una visione altrettanto unilaterale dell'individuo come attore svincolato da ogni condizionamento esterno. Al di fuori di queste visioni unilaterali, è assai probabile che ricerche che partano da un presupposto 'olistico' e ricerche improntate a un presupposto 'individualistico' giungano a risultati convergenti. Di fatto nella ricerca sociale empirica i due paradigmi sono spesso utilizzati contemporaneamente.
Cercheremo in questo capitolo di presentare i caratteri salienti delle teorie sociologiche contemporanee. Il compito è arduo per una serie di ragioni. In primo luogo, ogni filone teorico ha sviluppato proprie categorie concettuali; non esiste cioè un linguaggio unificato che consenta di passare dalla rete concettuale di una teoria a quella di un'altra. In secondo luogo, l'elevato livello di complessità di ogni teoria rende ogni tentativo di sintesi incomprensibile al lettore che non si sia già cimentato in modo sistematico con i testi della produzione teorica. Ci limiteremo quindi a esporre il più possibile con termini del linguaggio comune alcuni tra i principali temi affrontati dalle teorie contemporanee, senza entrare nel dettaglio e senza nessuna pretesa di completezza. Privilegeremo, in particolare, i filoni teorici che sviluppano i temi che abbiamo visto anticipati nelle opere degli autori classici.
Funzionalismo e teoria dei sistemi. - Il funzionalismo è il più ambizioso tentativo che sia stato compiuto nella storia della sociologia per produrre una teoria generale, capace di spiegare "l'esistenza delle parti della società tramite il loro contributo al mantenimento della società nel suo insieme" (v. Collins, 1988; tr. it., p. 102). Il nucleo centrale di questo approccio teorico è stato anticipato dalle teorie organicistiche del XIX secolo e dagli sviluppi successivi ad opera soprattutto di Durkheim. Anche per Talcott Parsons (v., 1951), il maggiore esponente di questa corrente teorica, la società è un tutto organico, un sistema, che riceve risorse (inputs) dall'ambiente circostante e produce effetti (outputs) che a loro volta sono immessi nell'ambiente.
Ogni sistema per sopravvivere deve soddisfare quattro requisiti fondamentali:
1) essere in grado di mantenere la propria identità nel tempo, vale a dire definire i confini tra ciò che fa parte del sistema e ciò che fa parte dell'ambiente (funzione di conservazione del modello latente);
2) mantenere un adeguato livello di integrazione tra le sue parti, vale a dire disporre di un complesso di norme che regolino i flussi interni (funzione di integrazione);
3) determinare quali sono i suoi scopi (funzione di conseguimento dello scopo);
4) organizzare i mezzi, cioè le risorse provenienti dall'ambiente, per raggiungere gli scopi (funzione di adattamento). In riferimento alle prime lettere delle parole inglesi che indicano le quattro funzioni, il modello è noto nella letteratura come 'modello LIGA' (o 'modello AGIL' se si segue l'ordine inverso).
Queste quattro funzioni si applicano a ogni livello, dal livello micro del sistema della personalità e del piccolo gruppo (ad esempio la famiglia) al livello macro del sistema mondiale degli Stati. L'ambiente di un sistema sociale è composto, oltre che dalla natura, dagli altri sistemi sociali con i quali esso è in interazione. Ogni sistema sociale è articolato in sottosistemi che svolgono le funzioni principali: i sottosistemi della famiglia, della religione, dell'educazione hanno la funzione di riprodurre il modello latente, sostanzialmente i valori e la cultura che costituiscono l'identità del sistema; il sottosistema normativo svolge la funzione integrativa; il sottosistema politico la funzione di conseguimento dello scopo e il sottosistema economico la funzione di adattamento dei mezzi ai fini.
L'ambiente di ogni sottosistema è necessariamente composto dagli altri sottosistemi; assumono quindi rilevanza gli scambi che si realizzano tra i sottosistemi, ciò che per un sottosistema è un output risulta essere un input per gli altri. Parsons sottolinea il ruolo del denaro e del potere come media simbolici di scambio che favoriscono le transazioni tra i vari sottosistemi.
Tra le varie funzioni, e quindi tra i sottosistemi, esiste una gerarchia di controllo che garantisce l'adeguato funzionamento del sistema: al vertice di questa gerarchia stanno i valori nei quali un sistema si riconosce, seguono le norme che definiscono a loro volta sanzioni e ruoli. Senza valori e norme comuni, trasmessi di generazione in generazione nel processo di socializzazione, un sistema sociale non può sopravvivere. Anche se possono sorgere fenomeni di devianza (per il difettoso funzionamento del processo di socializzazione) e tensioni tra i sottosistemi (ad esempio tra sistema politico e sistema economico), il sistema sociale tende all'equilibrio.
Il mutamento può verificarsi quando il sistema è esposto a sfide che provengono dall'ambiente (ad esempio quando nuovi valori vengono immessi nel sistema), ma dopo qualche tempo l'equilibrio tende a ristabilirsi in quanto il sistema risponde alle sfide aumentando il suo grado di differenziazione interna. Smelser (v., 1959), che di Parsons è stato allievo e continuatore, ha applicato il modello della differenziazione strutturale alle trasformazioni prodotte dalla rivoluzione industriale, studiando il caso dell'industria cotoniera inglese tra il 1825 e il 1835. Egli ha posto l'accento sulla perdita di funzioni della famiglia operaia e sul loro trasferimento ad agenzie specializzate tra le quali, soprattutto, l'istruzione pubblica obbligatoria. Resta comunque il fatto che nel modello parsonsiano il mutamento è concepito esclusivamente in termini di differenziazione.
Ridotto alla sua scarna architettura il modello parsonsiano sembra quasi un gioco di scatole cinesi. In effetti, soprattutto a partire dalla metà degli anni sessanta, esso è stato sottoposto a severe critiche. Ne sono stati criticati l'eccessiva astrattezza e il formalismo (v. Wright-Mills, 1959), la sottostante ideologia conservatrice, l'incapacità di dar conto in modo adeguato dei fenomeni di mutamento sociale, dei conflitti e delle forme di dominio. Tuttavia, nonostante queste critiche siano tutt'altro che ingiustificate, il funzionalismo parsonsiano ha il merito di aver sottolineato il fatto che in un sistema complesso, come il sistema sociale, le varie parti non possono essere considerate isolatamente, ma devono essere viste nelle loro relazioni reciproche e, inoltre, ha il merito di aver risolto, sia pure in modo non del tutto convincente, il problema del passaggio dal livello micro al livello macro di analisi. La rigidità del modello funzionalistico di Parsons risulta fortemente attenuata nella versione dello stuttural-funzionalismo mertoniano.
Merton (v., 1949) introduce due importanti distinzioni:
1) la differenza tra funzioni latenti e funzioni manifeste (il concetto di funzione latente riprende quello weberiano di effetto non intenzionale);
2) la differenza tra funzioni e disfunzioni (lo stesso elemento può essere funzionale per il sistema A e disfunzionale per il sistema B: l'omertà, ad esempio, è senz'altro funzionale alla sopravvivenza dell'organizzazione mafiosa, ma disfunzionale al buon funzionamento del sistema giuridico).
In questo modo Merton introduce la possibilità del conflitto tra sistemi di valori e di norme all'interno di uno stesso sistema sociale.
Dopo un'eclissi di più di un ventennio la teoria funzionalistica è stata ripresa negli anni ottanta da vari autori tra i quali i più importanti sono Niklas Luhmann (v., 1984) e Jeffrey Alexander (v., 1982-1983). Per Luhmann l'idea di sistema nasce dall'esigenza di superare (ridurre) l'infinita complessità del mondo reale. Per muoversi in questo mondo è necessario ritagliare un numero finito di elementi e connetterli tra loro; in questo modo il sistema si isola dall'ambiente, e definendo la propria struttura definisce i propri confini. In questo senso si può dire che un sistema è 'autoreferenziale' in quanto, per dirla con le parole di Luhmann, "costituisce in proprio, quali unità funzionali, gli elementi di cui è composto" (v. Luhmann, 1984, p. 73), ma è anche 'autopoietico', cioè è in grado di riflettere sui propri scopi ed eventualmente modificarli, dando luogo a processi di differenziazione strutturale. Anche per Luhmann, come per Parsons, i sottosistemi principali del sistema sociale sono quattro e a ognuno di essi corrisponde un "medium simbolico di comunicazione".
Al denaro e al potere, che, come aveva indicato Parsons, regolano le transazioni nei sottosistemi economico e politico, Luhman aggiunge l'amore nella sfera delle interazioni interpersonali e la verità nella sfera culturale. La funzione dei media di comunicazione è quella di dare fiducia agli individui e di consentire loro di agire in un mondo che rimarrebbe altrimenti oscuro e impenetrabile. Se non avessimo fiducia che gli scienziati e gli esperti sono quantomeno orientati alla 'verità', come potremmo utilizzare i risultati delle loro ricerche e gli stessi strumenti tecnologici che ne rappresentano la ricaduta sul piano pratico? Agli individui non rimane altro che accettare il mondo sulla fiducia. I meccanismi della fiducia sono quindi i grandi 'riduttori di complessità'.
Anche Alexander, come Parsons, prende le mosse da una rilettura dei classici, in particolare Durkheim e Weber, e in un certo senso riconduce Parsons a Weber. Egli insiste sulla necessità di mantenere un approccio multidimensionale, nel quale tra sfera delle idee e dei valori e sfera del potere e degli interessi materiali non venga stabilito un rapporto gerarchico di dipendenza, né in una direzione né nella direzione opposta.
Il modello multidimensionale del neofunzionalismo di Alexander intende superare le tradizionali dicotomie delle teorie sociologiche (ordine/conflitto, azione/struttura, micro/macro, analitico/concreto) e realizzare così una nuova sintesi teorica, più orientata, rispetto al funzionalismo parsonsiano, all'analisi del conflitto e del mutamento, più disposta a tener conto dell'intenzionalità degli attori, e più aperta agli stimoli provenienti dalla ricerca empirica.
Teorie del conflitto. - Abbiamo già visto (cap. 3) come Marx, Weber e Pareto abbiano sviluppato una visione conflittuale della società nella quale erano contenuti gli elementi di una teoria del conflitto. Tra gli autori classici, questi elementi erano però già stati formulati chiaramente da Simmel (v., 1908) ed è proprio riprendendo questo autore mezzo secolo più tardi che Coser (v., 1956) propone una teoria 'funzionalistica' del conflitto.
Per Simmel e Coser il conflitto deve essere visto non solo come rottura, ma anche come costruzione di legami sociali. Esso:
1) crea tra i contendenti (che possono essere individui, gruppi, classi o Stati) un'interazione intensa in cui ognuno non può restare indifferente all'azione dell'altro;
2) consolida i legami di solidarietà all'interno dei gruppi in conflitto e ne rafforza l'identità;
3) può produrre un interesse a non annientare l'avversario, la cui presenza contribuisce ad annullare o ridurre la possibilità di conflitti interni al gruppo;
4) tende a produrre 'regole del gioco' che ne riducono la potenziale distruttività;
5) induce alla ricerca di alleanze. Kriesberg (v., 1982), correggendo la visione forse eccessivamente 'ottimistica' di Coser, ha analizzato i casi e le condizioni in cui il conflitto entra in una spirale di escalation (che può condurre all'eliminazione reciproca dei contendenti) e i casi in cui, invece, innesca un processo di de-escalation che favorisce il compromesso e quindi la risoluzione del conflitto stesso.
Un altro importante contributo alle teorie del conflitto è stato fornito da Dahrendorf (v., 1957). Egli parte da una critica di Marx, il cui limite consisterebbe nel vedere esclusivamente nei rapporti di proprietà il fondamento delle classi e della lotta di classe. Per Dahrendorf si dà conflitto, latente o manifesto, in tutti i rapporti di potere tra chi comanda e chi è tenuto a obbedire (non quindi solo nella fabbrica tra capitalisti e salariati, ma in ogni organizzazione, pubblica o privata, in cui viga un principio di autorità).
Chi comanda ha interesse a conservare il proprio potere, mentre chi obbedisce ha interesse, se non a sovvertire l'ordine, a modificarlo a proprio favore. Affinché il conflitto da latente diventi manifesto è tuttavia necessario che si verifichino certe condizioni: che si formi una leadership capace di elaborare un'ideologia di gruppo e di definire la posta in gioco; che vi sia un minimo di libertà politica che consenta l'organizzazione; che tra i membri del gruppo vi sia un'interazione sufficientemente intensa.
Anche se il conflitto comporta in genere la formazione di due schieramenti, è impossibile che in una società si generi una situazione di scontro generalizzato, cioè che la società si spacchi in due parti antagonistiche. In particolare, nelle società democratiche la pluralità delle linee di potere e autorità genera una pluralità di conflitti, ognuno dei quali si svolge tra gruppi organizzati e su un'arena specifica. L'analisi dei conflitti, così, si traduce spesso nello studio dei movimenti sociali, della loro origine e della loro dinamica. Ad esempio, che un maggior grado di organizzazione dei gruppi in conflitto tenda a ridurre l'asprezza, la radicalità e la violenza del conflitto stesso era già stato anticipato da Michels (v., 1911) nel suo studio sulle trasformazioni delle organizzazioni del movimento operaio tedesco. Ogni organizzazione, secondo Michels, tende a selezionare una cerchia ristretta di leaders (la cosiddetta "legge ferrea delle oligarchie") il cui scopo primario diventa la propria autoconservazione, scopo la cui realizzazione può essere favorita dalla trasformazione delle rivendicazioni da radicali-rivoluzionarie a moderate-riformiste.
La conseguenza della pluralizzazione dei conflitti, della crescente organizzazione delle parti contrapposte e della ridefinizione degli obiettivi (la posta in gioco) in termini riformistici è, per Dahrendorf, l'istituzionalizzazione del confitto. Si può dire che un conflitto è istituzionalizzato quando tra le parti si è sviluppato un consenso sulle 'regole del gioco', cioè sui mezzi legittimi per far valere le proprie rivendicazioni e sulle procedure da seguire per arrivare alla composizione del conflitto. La storia del movimento operaio, degli scioperi e della nascita delle relazioni industriali è l'esempio classico di un processo di istituzionalizzazione del conflitto. Il diritto internazionale, nella misura in cui tende a sviluppare modi di gestione dei conflitti che evitino il conflitto aperto, può essere considerato una forma di istituzionalizzazione del conflitto tra Stati. Nell'ambito delle teorie del conflitto si è sviluppato, soprattutto a partire dagli anni settanta, un importante filone di studi sui movimenti sociali, sulla loro capacità di identificare una controparte e una posta in gioco e di mobilitare risorse motivazionali e materiali al fine di raggiungere i propri obiettivi.
La maggior parte delle teorie microsociologiche sono orientate a quello che abbiamo precedentemente indicato come paradigma dell'azione. Si tratta tuttavia di un insieme assai eterogeneo nell'ambito del quale è possibile distinguere due ampie categorie: da un lato le teorie che pongono l'accento sulla soggettività nella vita quotidiana, dall'altro lato le teorie che prendono lo spunto dall'economia neoclassica per applicarne gli assunti di base allo studio del comportamento sociale.
Interazionismo simbolico, sociologia fenomenologica ed etnometodologia. - Le teorie che discuteremo in questo paragrafo si sono sviluppate soprattutto nella sociologia nordamericana in fasi diverse: in una prima fase, negli anni venti e trenta, nell'ambito della Scuola di Chicago; in seguito, dal 1965 in poi, in modo assai più diffuso, dando luogo alla formazione di diverse correnti sia di riflessione teorica sia di ricerca empirica. Dopo il declino del paradigma funzionalista, che aveva raggiunto una posizione quasi dominante negli anni cinquanta e sessanta, a partire dagli anni settanta queste correnti di pensiero sociologico hanno goduto di larga popolarità tra i sociologi, e occupano attualmente una posizione di tutto rilievo nel panorama della sociologia contemporanea, anche se non sono mai arrivate a formulare un paradigma unitario capace di esercitare una funzione egemone sulla disciplina.
La collocazione di queste 'scuole' nel campo delle teorie microsociologiche indica già la loro connotazione principale: al centro dell'attuazione non vi sono la società e le sue strutture, bensì l'individuo e le sue relazioni. Individuo e società non appaiono però come due realtà che si contrappongono: al contrario, si costituiscono in un rapporto di reciprocità. Ciò appare chiaramente nell'opera di George H. Mead, un filosofo molto vicino al pragmatismo di Peirce, James e Dewey, e considerato uno dei padri fondatori dell'interazionismo simbolico. La costruzione sociale dell'identità personale è il problema centrale della riflessione di Mead; in Mind, self and society del 1934 egli parte dalla constatazione dell'importanza dell'autoriflessività, vale a dire della capacità dell'essere umano di scindersi in un soggetto che osserva e in un oggetto osservato, in un Io e in un Me, dalla cui combinazione si forma il Sé. Questa capacità, per potersi sviluppare, richiede la mediazione dell'altro: il soggetto riesce a riflettere su se stesso soltanto se riesce a mettersi nei panni dell'altro e a osservarsi con gli occhi dell'altro. L'altro è in un primo momento l'altro concreto costituito dalle figure di riferimento che il bambino incontra nel processo di crescita, ma col tempo diventa sempre più un'entità impersonale che Mead chiama 'altro generalizzato', e che sta per l'insieme delle relazioni sociali nelle quali il soggetto è inserito. Il dialogo interiore, tra sé e sé, presuppone quindi l'interazione con gli altri, interazione che non può avvenire senza l'istituzione sociale per eccellenza, cioè il linguaggio.
L'insegnamento di Mead trova un terreno fertile di ricettività in una tradizione sociologica che dalla fine del XIX secolo aveva fatto di Chicago il centro della sociologia americana. In una ricerca divenuta classica sull'immigrazione polacca in America, W.I. Thomas aveva sostenuto che non si possono comprendere atteggiamenti e comportamenti senza ricostruire i modi con i quali gli attori definiscono la situazione nella quale si trovano ad agire. Secondo Thomas, se gli uomini definiscono reale una situazione, essa è reale nelle sue conseguenze; in tal modo egli pone le credenze soggettive al centro dell'analisi sociologica (v. Thomas e Znaniecki, 1918-1920). Nella prospettiva aperta da Mead, ciò vuol dire concentrare l'attenzione sui complessi processi di interpretazione della situazione che si svolgono nel corso dell'interazione. Ad esempio, se io ritengo (magari erroneamente) che il mio partner sia bugiardo e mi nasconda le sue vere intenzioni, il mio comportamento nei suoi confronti sarà influenzato in modo determinante da questa credenza.
Da queste premesse prende le mosse l'interazionismo simbolico, un indirizzo teorico e di ricerca che ha avuto larga diffusione negli anni sessanta e settanta, influenzando molteplici settori, dagli studi sulla socializzazione agli studi sulla definizione sociale della devianza (v. Becker, 1963), da quelli sulle professioni agli studi sulle culture organizzative.Nonostante le diversità, le correnti teoriche che appartengono a questo filone prendono le mosse da un comune atteggiamento epistemologico polemico nei confronti degli approcci di stampo positivistico, in base ai quali i fenomeni sociali possono essere studiati, al pari di qualsiasi altro fenomeno, come 'fatti' o 'cose'. Il punto di partenza è la discussione sul fondamento di distinzione tra la conoscenza dei fenomeni della natura e la conoscenza dei fenomeni sociali.
Il problema era già stato affrontato, tra gli altri, da Dilthey il quale aveva contrapposto il metodo della 'comprensione', peculiare delle 'scienze dello spirito', al metodo della 'spiegazione', peculiare delle scienze della natura. Il tema era stato ripreso da Weber per il quale, a differenza di Dilthey, 'comprensione' e 'spiegazione' non si pongono in un rapporto di contrapposizione, bensì di complementarità. Riferendosi esplicitamente alla sociologia comprendente di Weber e sulla scorta della fenomenologia di Husserl, Alfred Schutz, uno studioso austriaco emigrato negli Stati Uniti e considerato il vero precursore della 'sociologia fenomenologica', ribadisce la fondamentale eterogeneità tra mondo naturale e mondo umano. Come egli scrive in un passo di The problem of social reality, "i fatti, dati ed eventi con cui lo scienziato della natura ha a che fare sono appunto fatti, dati, eventi nell'ambito del suo campo di osservazione, ma questo campo non 'significa' nulla alle molecole, agli atomi e agli elettroni che si trovano in esso.
I fatti, gli eventi e i dati che si trova dinanzi lo scienziato sociale sono tuttavia di una struttura completamente diversa. Il campo di osservazione che gli è proprio, il mondo sociale, [...] ha un significato particolare e una struttura di rilevanza per gli esseri umani che vivono, pensano e agiscono nel suo ambito" (v. Schutz, 1962; tr. it., p. 6). La specificità delle scienze sociali, e della sociologia in particolare, risiede quindi per Schutz nella 'soggettività' del loro oggetto di ricerca; esse studiano infatti i modi mediante i quali gli esseri umani si muovono nel mondo attribuendo significati alle proprie azioni, alle azioni degli altri e alle cose.
Di fronte alla impossibilità di raggiungere la realtà ultima dei fenomeni e di fronte all'esigenza pratica di dar conto delle cose che accadono, possiamo cercare solo di inquadrare i fenomeni in 'tipi', compiendo operazioni non dissimili dalla costruzione di 'tipi ideali', come aveva proposto Weber. I 'tipi' non sono quindi soltanto degli strumenti metodologici di ricerca, ma dei costrutti con i quali gli uomini si orientano nel mondo della vita quotidiana. Più che 'soggettivi', tuttavia, i tipi sono intersoggettivi, si formano cioè in un accordo tacito tra coloro che appartengono allo stesso mondo sociale, e come tali vengono trasmessi implicitamente nei processi di socializzazione a coloro che entrano a far parte di questo mondo.
L'insieme di queste categorie cognitive che consentono di muoversi nell'ambiente e di interagire con gli altri costituisce il senso comune; l'interazione con gli altri e l'esistenza stessa sarebbero praticamente impossibili se gli esseri umani non fossero in grado di dare per scontate gran parte delle situazioni nelle quali si trovano coinvolti, se dovessero incessantemente porsi degli interrogativi, se non potessero nutrire delle aspettative consolidate che consentono di accantonare i dubbi su quello che può accadere. Anzi, è proprio l'esistenza di un sapere affidabile di senso comune su gran parte della realtà circostante che consente di concentrare l'attenzione su un numero limitato di situazioni problematiche, dove è richiesta la messa in opera di strategie cognitive per dar conto di ciò che è effettivamente ignoto.
Nonostante la sua efficacia pragmatica - non ne potremmo fare a meno - il senso comune resta un sistema di credenze la cui validità non esce dai confini del mondo sociale determinato composto da coloro che lo condividono. Se ne rende conto chi migra da un mondo sociale a un altro e si accorge che non può più dare per scontate molte delle nozioni sulle quali aveva fatto prima implicitamente affidamento.Sulla scia dell'impostazione di Schutz del problema della conoscenza nella vita quotidiana si collocano due suoi allievi, anch'essi di origine europea, Peter L. Berger e Thomas Luckmann, con un libro che ha avuto grande fortuna negli ultimi trent'anni: The social construction of reality (1966).
La tesi centrale di questo lavoro è che le categorie di senso comune di cui gli attori si servono per interpretare le situazioni di interazione nella vita quotidiana, tra cui in primo luogo il linguaggio, contribuiscono a formare una rappresentazione 'oggettiva' della realtà sociale, una realtà che gli individui si trovano di fronte come data e che imparano a far propria nei processi di socializzazione (primaria e secondaria). Da questo punto di vista sembra che Berger e Luckmann si avvicinino a una prospettiva durkheimiana: la realtà sociale appare dotata di un'esistenza propria che si impone agli individui come oggettiva. Ma questo è solo un lato della questione.
La prospettiva durkheimiana si coniuga per i due autori con la prospettiva weberiana. Non è possibile, infatti, dare per scontata la realtà sociale una volta per tutte. Non solo sono sempre all'opera processi di innovazione e mutamento portati dai movimenti sociali, ma molteplici sono anche i mondi sociali tra i quali gli individui si spostano e nell'ambito di ognuno dei quali si costruiscono rappresentazioni diverse della realtà sociale. Pluralità dei mondi sociali e mobilità tra gli stessi generano, per l'uomo moderno, il rischio di perdere solidi punti di riferimento ai quali ancorare da un lato la visione della realtà e, dall'altro lato, la costruzione di un'identità sufficientemente integrata e stabile.
Oltre alla sociologia fenomenologica di Berger e Luckmann, l'opera di Schutz ha ispirato anche un'altra 'scuola' del pensiero sociologico contemporaneo, vale a dire l'etnometodologia, il cui fondatore ed esponente principale è Harold Garfinkel. Anche per Garfinkel l'esperienza della vita quotidiana produce un sapere implicito, che si presenta come oggettivo ma che resta fortemente vincolato al contesto nel quale è stato prodotto. Dar conto di questo sapere vuol dire rendere intellegibili le pratiche mediante le quali esso si costituisce e riproduce, pratiche che gli attori mettono in atto senza esserne consapevoli e che peraltro si fondano su un loro tacito accordo. Per fare emergere questa struttura nascosta, vale a dire la dimensione cognitiva dell'ordine sociale, Garfinkel propone in un'opera del 1967 (Studies in ethnomethodology) di condurre una serie di esperimenti che consistono nel violare una delle regole implicite sulle quali si fonda questo tacito accordo, per cogliere come gli attori reagiscono a un comportamento anormale e cercano di interpretarne il significato senza dover mettere in discussione la rappresentazione della realtà considerata come normale.
Molteplici sono i campi dove, seguendo i suggerimenti di Garfinkel, la ricerca empirica ha prodotto risultati di notevole interesse. Si segnalano in particolare gli studi sulla devianza e il settore assai promettente dell'analisi conversazionale.Nel panorama delle teorie microsociologiche una posizione particolare, affine per certi versi all'interazionismo simbolico e per altri versi all'etnometodologia, spetta all'opera di Erwing Goffman, una delle figure più significative della sociologia americana contemporanea. Il problema centrale di Goffman è quello che abbiamo già incontrato nei classici e in particolare in Durkheim: qual è il fondamento dell'ordine sociale. La soluzione di questo problema è ricercata da Goffman al livello delle microinterazioni quotidiane, in particolare nelle interazioni faccia a faccia, dove tra gli attori si sviluppano una serie di accordi impliciti che 'inquadrano' (frame) la situazione e consentono di attribuirle un senso. La natura implicita di questi accordi indica che essi devono essere ricercati, più che nel contenuto esplicito delle comunicazioni, nelle metacomunicazioni non verbali (v. Goffman, 1975).
La teoria della scelta razionale e dello scambio sociale. - Le teorie sociologiche della scelta razionale e dello scambio sociale sono state formulate sotto l'influenza più o meno diretta della teoria economica neoclassica, in particolare nella versione della scuola austriaca e degli sviluppi successivi dovuti a Walras e Pareto. Non vi è probabilmente nelle scienze sociali un altro complesso di teorie che raggiunga lo stesso livello di eleganza formale e di coerenza interna. Non può quindi stupire che esse abbiano esercitato una forte attrazione anche al di fuori dello studio del comportamento economico. Ci si è chiesti, in altre parole, se l'apparato di concetti e teorie elaborato per spiegare il comportamento di attori economici (tipicamente, imprenditori e consumatori) potesse essere generalizzato anche allo studio di altri tipi di comportamento, ad esempio i comportamenti politici.
La teoria della scelta razionale sostiene che gli esseri umani, posti di fronte a diversi corsi di azione alternativi, normalmente scelgono quello che ritengono abbia la probabilità di soddisfare al meglio i propri desideri. Gli elementi di questa definizione sono sostanzialmente tre: i desideri che animano l'attore, ovvero i fini che questi persegue intenzionalmente; le credenze in merito all'idoneità dei mezzi disponibili di realizzare i fini dell'azione; il postulato dell'ottimizzazione.Per quanto riguarda i desideri, essi non rientrano nel campo di applicazione dei criteri di razionalità; non si può dire che perseguire lo scopo A sia più razionale che perseguire lo scopo B, al massimo si può dire che è razionale perseguire scopi che sono alla propria portata, mentre non lo è porsi obiettivi irrealistici, cioè non raggiungibili con i mezzi a disposizione.
La teoria della scelta razionale postula che gli attori sappiano quello che vogliono, cioè siano in grado di ordinare le loro preferenze (dispongano cioè di quella che gli economisti chiamano funzione di utilità). L'attore razionale deve quindi essere 'trasparente' a se stesso.Le credenze riguardano i mezzi a disposizione e la valutazione delle probabilità che il loro impiego possa produrre i risultati attesi. Qui la razionalità gioca un ruolo decisivo; gli individui agiscono sempre in condizioni di incertezza, non dispongono mai di una conoscenza esaustiva della situazione nella quale operano, le informazioni che hanno possono essere più o meno ampie e accurate. L'attore razionale cercherà ovviamente di migliorare la qualità e la quantità delle informazioni prima di scegliere l'azione da intraprendere.
L'elaborazione di credenze il più possibile attendibili (e quindi la raccolta delle informazioni pertinenti) rappresenta tuttavia un costo, se non altro in termini di tempo, il cui ammontare deve essere messo in conto nel predisporre un corso di azione. Come osserva Elster (v., 1989), il paziente può morire prima che siano completate le indagini diagnostiche in linea di principio utili a individuare la terapia appropriata. Un'azione, inoltre, può essere razionale solo soggettivamente, cioè in base alle credenze di cui l'attore dispone, ma non oggettivamente, cioè in base al giudizio di un osservatore che dispone di una conoscenza più accurata della situazione. Il postulato dell'ottimizzazione è l'aspetto più problematico della teoria della scelta razionale. Infatti, si può parlare di ottimizzazione (ottenimento del massimo risultato in termini di utilità con mezzi dati, oppure ottenimento di un risultato dato al minimo costo in termini di risorse impiegate) solo presupponendo che l'attore disponga di una conoscenza completa delle alternative disponibili e dei loro esiti attesi. Ciò non si verifica mai, in quanto l'attore opera sempre in condizioni di incertezza e quindi sceglierà il corso di azione che promette di ottenere risultati che egli ritiene soddisfacenti. Argomentazioni di questo tipo hanno indotto Herbert Simon (v., 1982) a proporre una versione 'debole' della teoria della scelta razionale dove egli parla espressamente di "razionalità limitata".
L'attore agisce in condizioni di incertezza non soltanto perché non ha una conoscenza perfetta di ciò che vuole, dei mezzi che può usare e dei nessi che collegano i mezzi ai fini, ma soprattutto per il fatto che l'esito della sua azione non dipende soltanto dalle sue mosse, ma anche dalle mosse degli altri attori con i quali entra in interazione. Quando è coinvolta una pluralità di attori (siano questi individui, gruppi formali o informali, istituzioni, oppure interi Stati) si parla di 'azione strategica', un campo dove allo studio dell'azione è stata frequentemente applicata la teoria matematica dei giochi.
Tra le teorie sociologiche influenzate dalla scienza economica bisogna ricordare anche la teoria dello scambio sociale. In effetti, per i sostenitori di questa teoria, in particolare George Homans (v., 1961) e Peter Blau (v., 1964), essa ha una portata molto ampia e lo scambio economico risulta essere solo un caso particolare di scambio sociale. Già Simmel (v., 1908) aveva notato che ogni interazione può essere analizzata in termini di scambio, il quale può avere per oggetto le 'risorse' più svariate: amore, affettività, rispetto, deferenza, aiuto, sostegno, consiglio, onore, prestigio, influenza, potere e, ovviamente, anche beni, servizi e prestazioni di ogni tipo e, soprattutto, denaro. La teoria parte dall'assunto di base che gli esseri umani stabiliscono rapporti con i loro simili in quanto motivati a ottenere qualche tipo di vantaggio. Anche un atto del tutto altruistico può in questo senso essere inteso come un atto di scambio, dove la ricompensa che riceve il donatore è l'intima soddisfazione di aver fatto una 'buona azione'. Gli scambi tendono, in base al principio di reciprocità, a una sorta di equilibrio tra equivalenti in cui ciascun attore pensa di ricevere qualcosa che ha per lui un valore uguale o maggiore rispetto a ciò che cede, altrimenti non entrerebbe nello scambio. Tuttavia, qualora lo scambio avvenga tra individui o gruppi collocati su posizioni molto diverse nelle scale del potere o del prestigio, la reciprocità tende a venir meno e lo scambio a produrre squilibrio.
Il problema di fondo al quale le teorie microsociologiche non danno quasi mai una risposta soddisfacente è, ovviamente, il passaggio dal livello micro al livello macro. Ritorna il dilemma tra olismo e individualismo che, come abbiamo visto, accompagna la storia della sociologia e delle scienze sociali in genere. Come si possono spiegare l'origine e la dinamica delle strutture e delle istituzioni sociali sulla base dei valori, delle credenze e delle azioni degli individui che le compongono? A tutt'oggi nessuna teoria è in grado di dare una risposta del tutto convincente a questa domanda. Tra i tentativi più recenti, oltre a quello di Alexander al quale abbiamo fatto cenno in precedenza, meritano attenzione le proposte di Giddens (v., 1984) e Coleman (v., 1990). Per Giddens il problema cruciale della teoria sociologica contemporanea è il superamento del dualismo struttura/azione. La struttura sociale è un insieme di regole e risorse prodotte nel corso del tempo dalle generazioni che si sono succedute; esse hanno però un'esistenza puramente virtuale, e in un certo senso atemporale, fintanto che non vengono incorporate dagli attori in un loro progetto di azione. Azione e struttura si implicano quindi reciprocamente in quella che Giddens chiama "teoria della strutturazione". Coleman parte invece dai presupposti della teoria dell'azione razionale per spiegare come sulla sua base sia possibile arrivare alle norme sociali e ai comportamenti collettivi.Il problema del rapporto micro-macro e azione-struttura rimane aperto, e senza dubbio è sul terreno dell'integrazione di questi livelli di analisi che si misureranno i futuri sviluppi della teoria sociologica.
La 'teoria critica della società' occupa una posizione particolare nel panorama della sociologia contemporanea. Essa trae origine dalla cosiddetta Scuola di Francoforte dove, negli anni che precedettero l'avvento del nazionalsocialismo, un gruppo di studiosi aveva fondato l'Institut für Sozialforschung con l'ambiziosa intenzione di sviluppare un programma di ricerca, teorica ed empirica, che fondesse una visione critica della società capitalistica di stampo marxiano con le prospettive di indagine aperte dalla psicanalisi freudiana. La visione critica riguarda sostanzialmente il processo di razionalizzazione; il predominio della razionalità strumentale e il conseguente dominio sulla natura condurrebbero inesorabilmente all''eclissi della ragione', vale a dire al fallimento del progetto illuministico di liberare l'uomo dalle tenebre dell'oscurantismo. Dal pensiero di Marx gli studiosi di Francoforte ricavano soprattutto la nozione di alienazione, che assume tuttavia un significato più ampio di quello contenuto nei testi marxiani.
Già Marx aveva affermato che nella società capitalistica l'alienazione non riguarda soltanto il lavoro salariato, ma la stessa borghesia imprenditoriale. Per Horkheimer e Adorno è l'intera società a essere asservita alle esigenze della produzione e del consumo, e non si può neppure sperare nella missione emancipatrice della classe operaia, poiché essa ha sostanzialmente perso la spinta conflittuale e rivoluzionaria delle prime fasi dello sviluppo capitalistico. La società capitalistica dispone infatti di potenti meccanismi di integrazione che operano a livello inconscio e impediscono che disagi e tensioni si manifestino in forma conflittuale e si dirigano verso le cause che li hanno effettivamente generati.
Allo studio dei meccanismi, individuati nella famiglia, che collegano le forme del dominio autoritario nelle relazioni sociali alle strutture della personalità sono dedicati gli Studien über Autorität und Familie (1936), nonché la classica ricerca condotta durante l'esilio negli Stati Uniti, The authoritarian personality (1950). Il problema che gli autori di questa ricerca si pongono è come mai larghe masse di popolazione, compresi ampi strati di proletariato, siano cadute preda di regimi e ideologie totalitari, come il fascismo e il nazionalsocialismo, ma anche il bolscevismo sovietico. All'origine di questi fenomeni vi sarebbero personalità autoritarie, incapaci di tollerare tensioni e conflitti, disposte ad affidarsi ciecamente all'autorità del capo e a indirizzare la loro aggressività verso qualche nemico immaginario ('capro espiatorio'). Il totalitarismo altro non è che la manifestazione estrema della società di massa. Affiorano già qui alcuni temi che saranno poi, dopo il ritorno in Germania nel dopoguerra, al centro degli interessi dei sociologi francofortesi, in particolare la critica alla cultura, ai consumi e alle comunicazioni di massa.
Dopo una stagione di grande popolarità alla fine degli anni sessanta - soprattutto legata alla figura di Herbert Marcuse, che era stato adottato come ideologo dai movimenti studenteschi sia in Europa sia in America - la Scuola di Francoforte non ha più prodotto sviluppi particolarmente significativi. Fa eccezione il contributo di Jürgen Habermas, esponente di spicco della cosiddetta seconda generazione della 'teoria critica'. Anche per Habermas sono centrali i temi della crisi della razionalità e della critica della società di massa; lo studio della società resterebbe però incompleto se ci si fermasse alla 'razionalità strumentale', tipica dell'agire economico, o all'agire strategico, tipico della sfera politica. A queste forme di agire Habermas aggiunge l'"agire comunicativo", il quale opera autonomamente seguendo una propria "razionalità comunicativa", il cui fine è la comprensione reciproca libera dalle distorsioni provocate dai rapporti di interesse e di potere (v. Habermas, 1981).
Tra le tendenze della sociologia contemporanea la sociologia storica occupa una posizione, ancorché minoritaria, di grande rilievo. Le origini di questa tendenza sono da rintracciare nella tradizione classica e, in particolare, in quegli studiosi, come Marx e Weber, che non ritenevano né auspicabile né possibile una teoria generale della società che risultasse valida in generale, in ogni tempo e luogo. Alla base vi è la convinzione che tra i metodi della storiografia e della sociologia vi sia una sostanziale convergenza.
Anche se l'orientamento della sociologia è prevalentemente 'generalizzante', mentre la storiografia procede piuttosto in senso 'individualizzante', per i sostenitori di un approccio storico-sociologico questi indirizzi sono da intendere in modo relativo. Se non vuole essere una pura narrazione di fatti, la storiografia non può fare a meno di utilizzare un apparato teorico-concettuale e la sociologia, se non vuole costruire astratti edifici teorici, non può fare a meno di collocare i propri enunciati in un determinato contesto spazio-temporale. Come sostiene Elias (v., 1987), una sociologia che si rinchiuda nel presente è destinata a perdere la capacità di cogliere i processi storici di lungo periodo e quindi la capacità di spiegare come si è formata la stessa società nella quale viviamo. Inoltre, là dove i problemi di ricerca suggeriscono l'applicazione del metodo comparativo, che richiede l'individuazione e la definizione concettuale delle proprietà sulle quali si intende effettuare la comparazione, la commistione di storia e sociologia è non solo auspicabile, ma necessaria (v. Abrams, 1982).
Anche se, come sostiene uno dei maggiori esponenti contemporanei di questa tendenza, il rapporto tra storici e sociologi è spesso un dialogo tra sordi (v. Burke, 1992), vi sono storici che si avvicinano alla sociologia (si pensi alla scuola delle "Annales") e sociologi le cui ricerche fanno largo uso di metodi e materiali storici (si pensi a R. Bendix o N. Elias). È innegabile che l'incontro tra le due prospettive disciplinari ha prodotto risultati molto significativi.
In pressoché tutte le discipline scientifiche si genera una sorta di divisione del lavoro tra chi si dedica alla ricerca teorica e chi invece è impegnato nella ricerca empirica. Alla divisione orizzontale del sapere tra discipline si aggiunge quindi anche una divisione verticale all'interno di ciascuna disciplina tra elaborazione teorica e ricerca sperimentale.
Questo processo di divisione del lavoro scientifico è in larga misura inevitabile, ma può produrre sia effetti positivi, sia effetti negativi. Ha effetti tendenzialmente negativi quando teoria e ricerca non si arricchiscono reciprocamente, ma proseguono su strade separate, ha effetti positivi quando l'elaborazione teorica produce inputs (in termini di nuovi interrogativi e ipotesi) per la ricerca empirica e riceve da questa conferme o smentite in merito alla 'bontà' della strada imboccata.
Le scienze sociali non fanno eccezione, ma il rapporto teoria/ricerca empirica si configura in modi diversi da disciplina a disciplina. In economia, ad esempio, dove l'elaborazione teorica si sviluppa prevalentemente da assunti generali di carattere teorico attraverso un procedimento di tipo nomologico-deduttivo, chi si occupa di teoria economica ha spesso scarso interesse per i problemi concreti dell'economia reale e per la rilevazione empirica dei fenomeni economici, anche se parte dal presupposto che ogni proposizione debba in ultima analisi essere empiricamente verificabile.
In antropologia culturale, al contrario, l'elaborazione teorica parte quasi sempre dall'interpretazione dei risultati della ricerca sul campo mediante un procedimento prevalentemente induttivo, anche se molto spesso la ricerca sul campo resta a un livello sostanzialmente descrittivo.Anche in sociologia teoria e ricerca empirica possono interagire tra loro in modo fecondo, oppure percorrere strade separate. Se ci atteniamo alla definizione di teoria proposta da Parsons (v., 1954, p. 211) e cioè che una teoria "è un corpus di concetti generalizzati, logicamente interdipendenti, dotati di un riferimento empirico", ci rendiamo conto che il punto decisivo per chiarire il rapporto teoria/ricerca è racchiuso nella locuzione "dotati di un riferimento empirico". Non c'è dubbio che molte teorie sociologiche (e probabilmente anche quella di Parsons stesso) sono formulate a un livello di astrazione tale da rendere estremamente difficile, se non impossibile, una loro traduzione in proposizioni passibili di essere 'trattate' empiricamente. Perché ciò accada, è necessario che i concetti siano trasformabili in una serie di indicatori sulla base dei quali compiere operazioni di osservazione e quindi di misurazione.
Prendiamo l'ipotesi di Durkheim secondo cui l'anomia cresce in periodi di forte sviluppo economico. Il problema non si pone per la misura dell'intensità dello sviluppo economico (gli economisti hanno elaborato in proposito una serie di indicatori che possiamo ritenere attendibili), quanto piuttosto per l'osservazione e la misurazione dell'anomia. Che cosa dobbiamo osservare per decidere se in una data situazione c'è o non c'è anomia, se in una situazione ce n'è di più e in un'altra di meno? Il problema è assai delicato perché, ovviamente, l'anomia (che per Durkheim significa assenza di regole) non è un fenomeno direttamente osservabile.
Si può dire che non si può sottoporre a prova empirica una teoria, soprattutto se si tratta di una teoria di portata molto generale, cioè applicabile a una vasta gamma di situazioni storico-sociali (al limite, a tutte le società del passato, del presente e del futuro), ma solo singole proposizioni da essa ricavate. Ad esempio, la teoria dei sistemi non è di per sé in alcun modo sottoponibile a prova empirica. Se la applichiamo tuttavia a una situazione specifica (ad esempio allo studio di un'organizzazione collocata in un determinato contesto o ambiente) potremo ricavare dalla teoria una serie di ipotesi da sottoporre a prova empirica (ad esempio, potremo accertarci se è vero che l'organizzazione sviluppa degli organi con il compito di monitorare i cambiamenti che si generano nel suo ambiente). Adottando la terminologia di Karl Popper, possiamo dire che una teoria è rilevante sul piano empirico se da essa possiamo ricavare delle congetture passibili di confutazione.
La difficoltà (o l'impossibilità) di sottoporre a prova empirica teorie molto generali ha indotto Merton a sostenere che la sociologia deve orientarsi verso la formulazione di "teorie di medio raggio", cioè teorie il cui ambito di applicazione sia limitato a fenomeni specifici entro coordinate spazio-temporali definite.
Un nesso forte tra teoria e ricerca si ha se, e solo se, la ricerca empirica è volta a verificare (o falsificare, nel senso di Popper) un'ipotesi teorica, vale a dire una proposizione nella quale siano messi in relazione i fenomeni da spiegare (chiamati variabili dipendenti) e i fenomeni che li spiegano (variabili indipendenti). In altri termini, la ricerca empirica è guidata dalla teoria se è costruita in modo da accertare l'esistenza di un nesso tra variabili (deve rispondere alla domanda: "è vero che?"). La teoria è in questo senso l'a priori della ricerca empirica.
Non tutte le ricerche empiriche in sociologia, tuttavia, rispondono a una logica di tipo esplicativo. Se da un lato infatti abbiamo teorie prive di rilevanza empirica, dall'altro lato abbiamo ricerche empiriche prive di rilevanza teorica. In questi casi si parla di ricerche che hanno un intento prevalentemente esplorativo o descrittivo. A dire il vero, nessuna ricerca, per quanto descrittiva, è del tutto priva di presupposti teorici che operano spesso in modo implicito e/o inconsapevole. Innanzitutto, qualsiasi fenomeno, per diventare oggetto di ricerca, deve essere giudicato rilevante alla luce di qualche interrogativo che può essere pratico, ma anche teorico. Inoltre, anche soltanto per descrivere un fenomeno qualsiasi è necessario far uso di concetti la cui costruzione presuppone l'impiego di criteri di selezione degli aspetti rilevanti da quelli non rilevanti. Anche la semplice descrizione non può quindi essere una 'riproduzione' priva di presupposti (una fotografia fedele della realtà), ma è in un certo senso una 'costruzione' operata da un soggetto dotato di categorie a priori.
Ciò vale anche per quella particolare forma di descrizione dei fenomeni sociali che trova espressione nei 'dati ufficiali' oggi messi largamente a disposizione degli studiosi da parte delle autorità pubbliche. Ci si riferisce qui allo sviluppo della statistica sociale, cioè alla raccolta sistematica di informazioni quantitative sullo stato della popolazione e le sue condizioni di vita. Si tratta di una lunga tradizione, i cui inizi si possono far risalire all'assolutismo illuminato del XVIII secolo. Anche se la raccolta di dati statistici è promossa e organizzata dalle autorità pubbliche per lo più a fini amministrativi, essa fornisce una massa crescente di informazioni di tipo sociografico di cui i sociologi fanno spesso largo uso.
La distinzione tra ricerca descrittiva ed esplicativa mantiene in ogni caso una sua utilità. Molto spesso la descrizione è soltanto una prima fase del processo di ricerca che consente di esplorare il terreno raccogliendo informazioni sul segmento di realtà oggetto di studio. In questa fase l'osservazione empirica si combina con il bagaglio di conoscenze teoriche a disposizione del ricercatore e permette di mettere a fuoco i concetti ed elaborare delle ipotesi da sottoporre successivamente a procedimenti più formalizzati di validazione.
Le ricerche su opinioni e atteggiamenti, che costituiscono una parte rilevante della sociologia empirica, hanno in genere un intento prevalentemente descrittivo. Si cerca cioè di scoprire quali sono le opinioni o gli atteggiamenti prevalenti in una determinata popolazione in riferimento agli argomenti più vari (dai partiti politici alle minoranze etniche, agli anziani, all'emancipazione femminile, ecc.). Una fase intermedia molto importante delle ricerche di questo tipo conduce alla costruzione di tipologie (facendo spesso uso delle tecniche della statistica descrittiva come la cluster analysis o l'analisi dei fattori).
Solo in una fase successiva ci si chiede quali sono i fattori che spiegano come mai certi segmenti della popolazione studiata mostrano una propensione per alcuni tipi di atteggiamenti, e altri segmenti per altri tipi. In questa fase l'operazione di connettere certe caratteristiche della popolazione (variabili indipendenti) e certi tipi di atteggiamenti (variabili dipendenti) è evidentemente guidata da ipotesi teoriche.Se il ricercatore si lascia guidare esclusivamente da ipotesi teoriche precostituite è tuttavia probabile che egli 'trovi' soltanto quello che 'cerca'. Soprattutto nelle fasi esplorative, invece, è consigliabile che il ricercatore adotti una disposizione che lasci spazio alla possibilità di 'sorprendersi' di fronte a casi o dati anomali e inattesi, per i quali non dispone al momento di una ipotesi plausibile di spiegazione.
Per designare questo 'effetto sorpresa' Merton ha usato il termine serendipity. Si narra che i principi di Serendip, l'antico nome di Ceylon, fossero dotati di una straordinaria capacità di osservazione che consentiva loro di dedurre da particolari apparentemente insignificanti complessi stati della realtà. Merton sostiene che molte delle ipotesi sociologiche più feconde di ulteriori sviluppi teorici sono nate dall'esigenza di dar conto di osservazioni che le teorie disponibili o il semplice 'senso comune' non erano in grado di spiegare in modo adeguato. In questi casi la riflessione teorica, più che orientare la ricerca fin dalle sue prime fasi, subentra solo in una fase successiva quando si tratta di interpretare dati altrimenti inspiegabili.Il rapporto tra teoria e ricerca empirica in sociologia si articola quindi come un rapporto a due vie di scambi reciproci, in cui la teoria alimenta la ricerca ma questa, a sua volta, retroagisce sulla teoria ponendole nuovi interrogativi. In ogni caso, vale la regola che la teoria senza la ricerca empirica è vuota, e la ricerca senza la teoria è cieca.
È innegabile che la ricerca sociologica ha avuto nell'ultimo mezzo secolo, in quasi tutti i paesi avanzati, un consistente sviluppo quantitativo; questo sviluppo non è stato tuttavia uniforme nel tempo e nello spazio. È utile chiedersi quali condizioni sociali favoriscano lo sviluppo della sociologia e quali invece lo ostacolino. In generale si può dire che la sociologia tragga beneficio dalla presenza di regimi di tipo democratico e di governi a orientamento riformista. Questa affermazione presenta, tuttavia, due vistose eccezioni. La prima eccezione riguarda la Germania durante il periodo nazionalsocialista.
Mentre in Italia durante il fascismo (e in parte anche in Spagna durante il franchismo) la sociologia praticamente scomparve sia come insegnamento nelle università, sia come attività di ricerca, in Germania vi fu una presenza non trascurabile di una sociologia 'nazista', ovviamente orientata dall'ideologia della razza (v. Rammstedt, 1986). La seconda eccezione riguarda l'Unione Sovietica dopo la seconda guerra mondiale. Anche in questo caso la componente ideologica risulta schiacciante; tuttavia, sotto la copertura dell'ideologia marxista-leninista, si sviluppò anche una sociologia empirica orientata sia a monitorare il livello di consenso e di fedeltà al regime, sia ad affrontare problemi di 'ingegneria sociale' generati dalla volontà di governare dall'alto e in modo centralizzato una società che era diventata industriale e complessa.
A parte queste due eccezioni, tuttavia, le fasi di sviluppo della sociologia coincidono invariabilmente, a partire dal New Deal rooseveltiano, con fasi storiche caratterizzate da un orientamento democratico-riformista. La sociologia deve quindi i suoi momenti di maggiore espansione alla sua capacità di produrre conoscenze utili a centri di decisione extrascientifici, siano questi autorità politiche, amministrazioni pubbliche, grandi organizzazioni di interessi (imprese industriali, sindacati, ecc.), oppure fondazioni con scopi filantropici o di promozione sociale. Se si prendono le grandi ricerche sociologiche del periodo tra le due guerre mondiali e degli anni immediatamente successivi alla seconda, si nota innanzitutto che si tratta quasi esclusivamente di ricerche nordamericane che, in modo più o meno mediato, rispondono a bisogni conoscitivi in gran parte esterni alla comunità scientifica. Le ricerche della Scuola di Chicago (v. Rauty, 1995) ruotano tutte intorno ai temi dello sviluppo urbano e dell'organizzazione sociale delle città in una società multietnica e multirazziale. Le ricerche della scuola delle 'relazioni umane' (v. Rothlisberger e Dickson, 1939) pongono al centro dell'attenzione i fattori non strettamente economici della produttività dei lavoratori nell'industria.
Le ricerche dei coniugi Lynd (v., 1929 e 1937) colgono i processi di trasformazione indotti dall'industrializzazione e dal New Deal a livello della comunità locale. Le ricerche di Selznick (v., 1949) studiano le reazioni dei gruppi sociali ai programmi di sviluppo locale promossi dal governo federale. I lavori di Stouffer (v., 1949) analizzano la formazione di gruppi informali nelle unità di combattimento sui fronti della guerra. Myrdal e i suoi collaboratori (v., 1944) studiano la (mancata) integrazione della popolazione di colore nei diversi contesti sociali e territoriali degli Stati Uniti. Alla Columbia University viene fondato un Bureau for applied social research nel cui ambito Lazarsfeld conduce ricerche pionieristiche sui comportamenti elettorali (v. Lazarsfeld e altri, 1944).
Anche in Europa la ripresa degli studi sociologici dopo la seconda guerra mondiale si manifesta con un consistente impulso della ricerca empirica verso temi rilevanti ai fini del governo dei processi di modernizzazione (migrazioni, organizzazione del lavoro, organizzazione e rappresentanza degli interessi, trasformazioni del mondo rurale, ecc.); la tendenza alla ricerca applicata si può dire continui ininterrotta fino ai nostri giorni un po' ovunque, estendendosi via via a nuove tematiche (povertà ed emarginazione, salute e malattia, comunicazioni di massa, nuovi movimenti migratori, ecc.).
L'orientamento applicativo di una parte consistente della ricerca sociologica non significa, tuttavia, che essa sia asservita alle domande conoscitive provenienti dai policy makers o comunque da interessi extra-scientifici. Il rapporto tra scienze sociali (non solo sociologia) e politica accompagna fin dalle origini la storia di queste discipline. L'impostazione ancora oggi più coerente del problema risale all'inizio del secolo e fu formulata da Max Weber nel saggio del 1904, diventato famoso, sull''oggettività' della conoscenza sociologica. Per Weber non è compito dello scienziato sociale indicare al politico quali mete deve perseguire, non c'è scienza che possa sottrarre al politico la responsabilità della scelta dei fini: il compito della scienza sociale subentra una volta che i fini dell'azione politica siano definiti. Là dove siano in gioco scelte di natura etico-politica, lo scienziato sociale, in quanto tale, non può pronunciarsi. Lo può fare, evidentemente, come cittadino, ma con l'avvertenza di tenere rigorosamente separati i due ruoli. In quanto tale, lo scienziato sociale può solo:
1) indicare la possibile incompatibilità dei fini che il politico vuole perseguire e quindi, in questo caso, si richiede da parte del politico una scelta ulteriore;
2) indicare quali sono i mezzi più adeguati al raggiungimento del fine;
3) indicare se i mezzi disponibili sono adeguati o non adeguati;
4) indicare quali effetti possono derivare dall'impiego di determinati mezzi, in modo che il politico possa decidere se tali effetti sono desiderabili o indesiderabili.
Al di là dell'ambito definito da questi criteri, lo scienziato sociale si inoltrerebbe su un terreno improprio, invaderebbe cioè la sfera di autonomia della politica senza tuttavia assumersi le responsabilità del politico, che deve rispondere delle sue azioni nei confronti di una propria constituency (in democrazia, nei confronti dell'elettorato).Il rigore della posizione weberiana è innegabile, ma il problema del rapporto tra scienza sociale e politica è più complesso. Non c'è dubbio che lo scienziato sociale, in quanto tale, non può interferire nella scelta degli obiettivi dell'azione politica, poiché questa scelta comporta la formulazione di giudizi di valore di natura etico-politica di fronte ai quali la scienza non ha in linea di principio nulla da dire.
Tuttavia lo scienziato, oltre a perseguire il valore della 'verità' sulla base delle sue competenze tecniche (e in ciò consiste la sua 'probità intellettuale'), resta pur sempre un soggetto dotato della capacità di esprimere valutazioni, di formulare giudizi di valore, e quindi non può contribuire al perseguimento di obiettivi che alla luce delle sue scelte di valore non ritiene condivisibili. In altri termini, lo scienziato può mettere le sue competenze tecniche al servizio della politica, ma potrà farlo solo qualora condivida i fini/valori dell'azione politica. Se la responsabilità di formulare gli obiettivi è politica, resta comunque il fatto che lo scienziato il quale contribuisce alla loro realizzazione ne è corresponsabile, se non sul piano politico, certamente sul piano etico. Esiste, ad esempio, un sapere tecnico-scientifico che consente di minimizzare i costi economici e politici di un'operazione di genocidio, e tuttavia lo scienziato che disponga di tale sapere tecnico non potrà giustificarsi affermando che il suo contributo all'operazione è esclusivamente di natura tecnica.
Nel caso di questo esempio la corresponsabilità appare evidente, ma nella prassi della ricerca sociale applicata il problema non si presenta quasi mai in termini così semplici. In certi casi, la dissociazione tra mezzi (scientifici) e fini (politici) è non solo possibile, ma addirittura desiderabile. Uno stesso istituto di ricerca sull'opinione pubblica può benissimo condurre sondaggi elettorali per conto di partiti con opposte tendenze ideologiche e tra loro in competizione. In questo caso l'indifferenza rispetto ai fini è addirittura una garanzia di imparzialità e quindi di affidabilità dei risultati dell'indagine. Una situazione analoga, per fare un altro esempio, si presenta nel caso di un'indagine sui possibili effetti di un'innovazione nell'organizzazione del lavoro industriale, la quale può essere indifferentemente promossa (e finanziata) da un'organizzazione sindacale del padronato o dei lavoratori e produrre risultati conoscitivi utili a entrambe. In casi di questo tipo l'affidabilità dei risultati è garantita dall'autonomia dell'istituzione scientifica che produce la ricerca, vale a dire dalla sua indipendenza dai valori e dagli obiettivi politici dei centri decisionali che hanno formulato il problema di ricerca.
Nella ricerca applicata il rapporto con il 'committente' è comunque sempre problematico. È assai frequente il caso in cui i fini che il committente si pone non siano chiaramente formulati, oppure siano formulati in termini difficilmente traducibili nel linguaggio scientifico, oppure che i fini dichiarati nascondano secondi fini non dichiarati. In altri casi lo scopo della ricerca non è quello di acquisire conoscenze utili al fine di prendere decisioni oculate e razionali, ma quello di giustificare decisioni già prese a priori agli occhi di eventuali altri decisori che sostengono strategie diverse. In questo caso la ricerca serve per fornire argomentazioni al policy maker che vuole imporre una propria linea strategica. Il rischio che il ricercatore sociale venga quindi strumentalizzato (spesso a sua insaputa) per fini che non conosce e/o non condivide non è mai da escludere. La possibilità di evitare tale rischio risiede nell'indipendenza del ricercatore e dell'istituzione di cui è parte. In ultima analisi questa indipendenza si misura in base alla capacità di un'istituzione di ricerca di produrre conoscenze che possono risultare sgradite all'operatore politico dal quale è partita la domanda di ricerca, e quindi in base alla funzione potenzialmente critica che la ricerca può esercitare.
Più in generale, il rapporto tra scienza e politica - o, nel nostro caso, tra sociologia e politica sociale - risulta fecondo, sia sul piano politico sia sul piano scientifico, quando tra i due termini viene mantenuta una certa tensione e quindi quando alle agenzie di ricerca viene garantito un consistente grado di autonomia. Questa è la ragione che spiega come mai la sociologia, e in particolare la sociologia applicata, trovi le condizioni più favorevoli al suo sviluppo in società dove prevale un ordinamento democratico e pluralistico.
Se si prendono gli indici delle annate delle maggiori riviste sociologiche mondiali dal secondo dopoguerra in poi si possono identificare alcune tendenze storiche di lungo periodo che hanno caratterizzato lo sviluppo della disciplina. Una prima tendenza, lo abbiamo accennato prima, è la moltiplicazione dei paradigmi teorici e degli approcci metodologici. Una seconda tendenza è la progressiva espansione dei campi della ricerca empirica, in particolare della ricerca applicata, a scapito dell'elaborazione teorica generale. Una terza tendenza, diretta conseguenza delle due precedenti, è la frammentazione della disciplina in una pluralità di sottodiscipline che hanno acquisito col tempo una loro autonomia e una loro storia (e spesso anche proprie riviste specializzate). Un'indicatore eloquente di questa frammentazione è il numero dei comitati permanenti di ricerca (ben cinquanta) dell'International Sociological Association, la maggiore associazione internazionale di sociologi che ha compiuto il suo primo mezzo secolo di vita del 1998.
Di questi cinquanta comitati, solo cinque sono dedicati a temi di sociologia generale (teoria sociologica, logica e metodologia della ricerca, storia della sociologia, analisi concettuale, sociologia della scelta razionale), mentre tutti gli altri si riferiscono ad ambiti più o meno ristretti. Questa tendenza è inevitabile sia perché riflette la più generale tendenza alla specializzazione dei saperi, sia perché il campo dei possibili interessi di studio della sociologia è di fatto sterminato. È infatti possibile fare la sociologia di pressoché qualsiasi fenomeno in cui siano coinvolti esseri umani (per non parlare della fitosociologia, che studia i rapporti inter- e infraspecifici nel mondo vegetale, e della sociologia animale che studia l'organizzazione delle società animali).
Questa tendenza alla iperspecializzazione presenta però anche seri inconvenienti, in quanto rischia di far perdere di vista l'intrinseca connessione dei fatti sociali e l'idea stessa di società come insieme dei rapporti di interdipendenza tra le sue varie parti. Tali rischi aumentano quando nei percorsi di formazione delle nuove generazioni di sociologi la specializzazione nei singoli campi di ricerca avviene troppo precocemente, trascurando la formazione generale e nei campi disciplinari adiacenti. La conseguenza di questa tendenza può essere, ad esempio, che il sociologo delle religioni può ignorare del tutto i temi di ricerca del sociologo del lavoro (e viceversa), escludendo quindi dall'orizzonte dei suoi interessi i grandi interrogativi teorici della sociologia classica, nel caso specifico il problema weberiano dei rapporti tra credenze religiose e atteggiamenti verso il lavoro.
Detto questo, tracceremo una mappa dei più importanti campi di specializzazione della sociologia, così come si sono venuti delineando negli ultimi decenni, raggruppando l'esposizione per grandi aree.
Segnaleremo inoltre alcune essenzialissime indicazioni bibliografiche, rinviando alle voci specifiche di questa enciclopedia per una trattazione più approfondita.
Le sociologie dei fenomeni economici. - Abbiamo già avuto modo di notare come la sociologia si sia sviluppata storicamente in un momento successivo rispetto all'economia politica e come dal rapporto con questa disciplina abbia ricevuto nel corso del tempo molti stimoli, sia adottandone i modelli teorici (ad esempio la teoria della scelta razionale e dello scambio sociale), sia ponendosi in posizione critica nei confronti della riduzione dell'agire (economico e non) alle sole dimensioni economiche. La considerazione sociologica dei fenomeni economici si è ormai consolidata in una tradizione di ricerca, la 'sociologia economica', che, partendo dagli autori classici (Marx, Weber, Pareto, Durkheim e Simmel), ha visto consistenti sviluppi fino ai tempi più recenti. Al centro della sociologia economica vi è lo studio dei modi di integrazione delle attività economiche nelle strutture della società. Nel quadro del modello funzionalista l'elaborazione più articolata del rapporto economia/società è dovuta a Parsons e Smelser (v., 1956). Un contributo molto importante alla sociologia economica, oltre a quello dei classici sopra citati, è venuto da K. Polanyi (v., 1944 e 1968), il quale distingue, sulla base di un ampio materiale antropologico e storico, tre principî fondamentali di regolazione sociale dell'economia: la reciprocità (che vige prevalentemente nella sfera domestica), la redistribuzione (che presuppone un centro politico capace di accumulare e redistribuire ricchezza) e il mercato (dove i rapporti economici sono prevalentemente autoregolati dai meccanismi interni della domanda e dell'offerta). Da Polanyi in poi il tema del rapporto tra Stato e mercato è al centro degli studi di sociologia economica, come risulta anche dai contributi più recenti (v. Swedberg, 1990; v. Martinelli e Smelser, 1995).
Lo sviluppo è un altro tema 'classico' sul quale si è verificata una proficua convergenza tra gli interessi degli economisti e dei sociologi. A parte le anticipazioni in Marx e Weber, si può dire che la sociologia dello sviluppo nasca in riferimento alla teoria schumpeteriana dello sviluppo economico (v. Schumpeter, 1912) incentrata sulla funzione di innovazione dell'imprenditore capitalistico. Da un lato si sviluppa un importante filone di studi sulla formazione dell'imprenditorialità (v. Pagani, 1964), dall'altro si apre il campo all'analisi comparativa sui prerequisiti e sulle conseguenze sociali dello sviluppo economico che lo vede come un aspetto del più generale processo di modernizzazione e mette in luce i diversi percorsi che questo processo ha seguito in epoche e paesi diversi (v. Gerschenkron, 1962; v. Germani, 1971; v. Hirschman, 1983).Nell'ambito dei fenomeni economici vi sono almeno altri due campi ai quali fanno riferimento distinte sociologie speciali: la sociologia del consumo e la sociologia del lavoro. La sociologia del consumo studia quella che gli economisti chiamano la 'funzione del consumo', solo che, mentre gli economisti in genere analizzano come si modificano i consumi in funzione del reddito, dando per scontati o per stabili i gusti, le preferenze e gli stili di vita dei consumatori, i sociologi, al contrario, pongono l'accento sulla loro variabilità. Ad esempio, famiglie di operai e di impiegati allo stesso livello di reddito presentano in genere modelli di consumo sensibilmente diversi. Dopo gli studi pionieristici di Simmel (v., 1895) sulla moda e di Veblen (v., 1899) sugli stili di vita della 'classe agiata', il contributo più importante alla sociologia del consumo è probabilmente quello dell'economista Dusenberry (v., 1949), che ha proposto il concetto di 'effetto dimostrazione' per indicare come, accanto al valore d'uso e al valore di scambio di una merce, si debba considerare anche il suo 'valore simbolico', attraverso il quale i consumatori esibiscono l'appartenenza a un determinato status sociale.
La sociologia del lavoro è un campo di studi assai vasto e composito. Qui possiamo indicare soltanto i temi principali che vi rientrano. In primo luogo vi sono gli studi sul mercato del lavoro e sulla sua segmentazione per aree territoriali e per caratteristiche e strategie della domanda (tipologia dei datori di lavoro, lavoro stabile e precario) e dell'offerta (credenziali educative, qualifiche, età, sesso). Un capitolo particolare della sociologia del mercato del lavoro riguarda gli studi sulla disoccupazione, i suoi andamenti nel tempo, la sua distribuzione e durata, le sue conseguenze e le politiche per combatterla (v. Reyneri, 1997). In secondo luogo, la sociologia del lavoro ha sviluppato una lunga tradizione di ricerca sull'organizzazione del lavoro e, in particolare, sui suoi rapporti con i cambiamenti delle tecnologie produttive. L'artigianato, la manifattura, il sistema di fabbrica, l'introduzione delle macchine universali prima e delle macchine speciali poi, il taylorismo, il fordismo, la catena di montaggio, l'automazione, la robotica industriale e, in epoca recente, il 'toyotismo' sono temi sui quali si è accumulata un'ingente letteratura (v. Bonazzi, 1989; v. Accornero, 1994). In terzo luogo, rientra nella sociologia del lavoro anche la sociologia delle relazioni industriali (v. Relazioni industriali), che studia le organizzazioni di rappresentanza dei lavoratori e dei datori di lavoro, i conflitti di lavoro (sciopero, serrata, sabotaggio, assenteismo, ecc.), le forme di regolazione di tali conflitti e le forme di contrattazione delle condizioni di lavoro.
Le sociologie dei fenomeni politici. - È difficile tracciare una netta linea di distinzione tra la 'scienza della politica' (v. Politica, scienza della), o semplicemente 'scienza politica', e la sociologia politica. In generale si può dire che gli scienziati della politica tendono a considerare il sistema politico prevalentemente nelle sue dinamiche interne, mentre i sociologi politici tendono piuttosto a considerare i legami tra la politica e altre sfere delle vita sociale (la struttura della disuguaglianza, l'economia, la religione, la cultura, ecc.). Tuttavia, tra le due discipline le aree di sovrapposizione sono molteplici e spesso non ha molto senso cercare di classificare uno studioso o una ricerca nell'uno o nell'altro campo. Ad esempio, i classici della teoria delle élites (Gaetano Mosca, Vilfredo Pareto e Robert Michels) compaiono indifferentemente nei trattati di scienza politica e di sociologia politica; la tipologia weberiana delle forme di legittimazione del potere (tradizionale, legale-razionale e carismatica) è riconosciuta come rilevante sia dagli scienziati della politica sia dai sociologi, in quanto risponde all'esigenza di cogliere il fondamento dell'obbligo politico, cioè delle ragioni che spingono gli esseri umani a obbedire a comandi che provengono da un potere che ritengono legittimo. Se si elencano i temi sui quali si sono maggiormente concentrati i contributi della sociologia politica, si vede che essi sconfinano facilmente nel campo della scienza politica: cultura politica, socializzazione politica, partecipazione politica, leadership, partiti e movimenti, gruppi di pressione, comportamenti collettivi, comportamenti elettorali. E l'elenco potrebbe essere allungato.
Un analogo fenomeno di parziale sovrapposizione si verifica nello studio degli apparati dello Stato tra sociologia dell'organizzazione (v. Organizzazione) e 'scienza dell'amministrazione' (v. Amministrazione, scienza della). I sociologi tendono peraltro ad elaborare modelli teorici che si riferiscono alla categoria delle organizzazioni complesse (v. Etzioni, 1964), includendovi sia le burocrazie pubbliche sia le organizzazioni private e mettendo quindi in secondo piano gli aspetti che dipendono dagli ordinamenti giuridici, mentre per gli scienziati dell'amministrazione tali aspetti assumono in genere un'importanza primaria. Nello studio delle organizzazioni complesse la prospettiva sociologica tende infatti a evidenziare la presenza di strutture informali in base alle quali i comportamenti effettivi degli attori coinvolti si scostano dai comportamenti previsti e prescritti dalle regole formali, e spesso sono in contraddizione con essi. Ad esempio, Crozier (v., 1963) sottolinea come nelle burocrazie i ruoli organizzativi non possano essere regolamentati in modo così rigoroso da escludere ogni area di incertezza e discrezionalità, e proprio l'esistenza di queste aree genera giochi di potere e conflitti i quali, a loro volta, producono forme ancor più minuziose di regolamentazione che spesso inceppano il funzionamento della stessa organizzazione. Merton (v., 1949), d'altro canto, aveva rilevato come spesso sia la rigida e ritualistica applicazione dei regolamenti burocratici a impedire all'organizzazione il raggiungimento dei fini per i quali era stata progettata. Tra gli apparati pubblici particolare attenzione è stata dedicata dai sociologi, soprattutto americani, agli apparati militari. Lo sviluppo della sociologia militare è da ricondurre senza dubbio all'esigenza dei vertici delle forze armate di progettare un'organizzazione che, pur restando rigidamente gerarchica, sappia adattarsi flessibilmente alle mutevoli situazioni che si possono verificare sui teatri di guerra.
Differenziazione e disuguaglianza sociale. - Come abbiamo visto, sono molti i campi in cui i sociologi devono condividere il loro oggetto di studio con altre discipline.
Lo studio dei fenomeni di differenziazione e disuguaglianza sociale vede convergere l'interesse, oltre che dei sociologi, anche degli economisti. Le prime teorie delle classi sociali furono formulate dagli economisti classici e, in particolare, da Adam Smith, David Ricardo e Karl Marx. Da allora il tema delle classi è stato ripreso solo sporadicamente dagli economisti - fanno eccezione, ad esempio, Schumpeter (v., 1942), Sylos Labini (v., 1972) e Sen (v., 1992) - ed è diventato monopolio quasi esclusivo dei sociologi. L'analisi sociologica della disuguaglianza sociale - vale a dire la sociologia delle classi, della stratificazione e della mobilità sociale - parte dalla constatazione dell'universalità della disuguaglianza, nel senso che non vi è società umana a noi nota che non conosca qualche forma di ordinamento gerarchico. Il fenomeno si presenta però con intensità diverse e in una grande varietà di forme connesse alla divisione sociale del lavoro: dalla disuguaglianza per sesso e gruppi di età delle società di cacciatori-raccoglitori alle caste, ai ceti, alle classi, per arrivare alle complesse forme di stratificazione sociale delle società moderne. In tema di disuguaglianza riappare la contrapposizione tra l'approccio conflittualistico, che si richiama alla teoria delle classi di Marx, e l'approccio funzionalistico formulato da Davis e Moore in un celebre saggio del 1945. Per i funzionalisti la stratificazione sociale - intesa come diseguale accesso alle ricompense in termini di ricchezza, potere e prestigio - svolge l'indispensabile funzione di motivare gli individui più capaci a sobbarcarsi i costi di formazione per poter accedere ai ruoli socialmente più importanti e assumere le relative responsabilità. Questa teoria presuppone una società fortemente meritocratica, in cui siano realizzate condizioni di uguaglianza delle opportunità e dunque di elevata mobilità sociale, e quindi non spiega la tendenza dei sistemi di stratificazione a riprodursi di generazione in generazione, assegnando dei privilegi nell'accesso alle posizioni superiori a coloro che nascono in partenza in condizioni privilegiate.Il tema della mobilità sociale, cioè dello spostamento di individui o gruppi nell'ordinamento stratificato della società, è senz'altro uno dei temi centrali dell'analisi sociologica. L'opera di riferimento più importante resta ancora il classico studio di Sorokin del 1927, e da allora moltissime ricerche si sono succedute, che hanno adottato in genere un approccio di tipo storico-comparativo. Le domande alle quali queste ricerche hanno cercato di dare risposta sono le seguenti: in quali fasi storiche la mobilità sociale tende a crescere oppure a diminuire? quali fattori spiegano come mai in alcune società la mobilità è più forte che in altre? quali conseguenze si associano all'esperienza della mobilità sociale sia per i soggetti coinvolti, sia per la società nel suo complesso?
Le classi e la stratificazione sociale non sono le uniche forme di disuguaglianza studiate dalla sociologia. Un altro settore di ricerca di crescente importanza è la sociologia delle relazioni etniche e razziali. Questi studi hanno trovato inizialmente negli Stati Uniti, in quanto società composta da immigrati delle più diverse origini etniche e razziali, il proprio terreno di elezione, ma si sono diffusi, soprattutto dopo la seconda guerra mondiale, anche in quei paesi europei (in particolare Gran Bretagna, Francia e Germania) che per effetto dei fenomeni migratori, in parte a seguito dei processi di decolonizzazione, hanno visto affluire gruppi consistenti di popolazione provenienti da altri paesi e da altri continenti. Oltre agli Stati Uniti e all'Europa, anche l'India e il Sudafrica, e in genere tutte le società con una forte componente multietnica e multirazziale, hanno visto una rapida diffusione di ricerche al cui centro vi è il problema dell'integrazione (o della mancata integrazione e quindi del conflitto) tra gruppi portatori di diverse culture, che si trovano a condividere uno stesso territorio (v. Rex, 1986). Negli ultimi decenni, in particolare nei paesi anglosassoni e nordeuropei, sotto la spinta dei movimenti femministi degli anni settanta si è sviluppato un nuovo settore di ricerca sulla disuguaglianza che va sotto il nome di sociologia del genere (gender sociology), nell'ambito del quale è stata prodotta una mole considerevole di ricerche, anch'esse prevalentemente con un approccio storico-comparativo, sul rapporto maschile-femminile. Un riferimento importante per queste ricerche è stato ritrovato in Simmel (v., 1985) che all'inizio del secolo aveva pionieristicamente affrontato queste tematiche in chiave sociologica e sociopsicologica. Il riferimento al genere (e non esclusivamente al sesso) indica come per la sociologia si tratti di studiare il modo in cui culture e società diverse nel tempo e nello spazio definiscono la coppia maschile-femminile (v. Piccone Stella e Saraceno, 1996).Va infine menzionato un altro e assai ampio settore di ricerca che assume l'età come criterio di differenziazione/disuguaglianza e che viene comunemente chiamato sociologia del ciclo di vita. Si tratta di un settore assai poco omogeneo, spesso connesso alle politiche sociali di welfare, che si suddivide al suo interno in ulteriori sottospecializzazioni: la sociologia dell'infanzia, la sociologia dell'adolescenza e della gioventù e la sociologia della vecchiaia.
Regolazione sociale. - Lo studio delle leggi e delle norme che regolano i rapporti sociali è evidentemente l'oggetto delle discipline giuridiche, la cui storia è molto antica in quanto risale almeno al tempo delle prime codificazioni. Il diritto, tuttavia, è una scienza 'normativa' nel senso che studia i rapporti e i comportamenti sociali dal punto di vista di ciò che 'devono' essere, in termini cioè di prescrizioni o divieti. Per il sociologo, invece, le norme sono fatti sociali come tutti gli altri, che in quanto tali possono essere studiati con i metodi della scienza empirica. La sociologia del diritto è la disciplina che studia come norme e leggi vengono prodotte, rispettate o violate e fatte valere, con maggiore o minore efficacia, sia dai meccanismi informali del controllo sociale (v. Controllo sociale), sia dagli organi preposti alla loro applicazione. Le origini della sociologia del diritto sono da ricercare negli autori classici e in particolare in Durkheim e Weber. Per Durkheim le norme sono costitutive dei legami di solidarietà che rendono possibile la società, per Weber il diritto esprime i rapporti di potere che emergono dal conflitto degli interessi e che si consolidano in ordinamenti alla produzione, tutela e modificazione dei quali è preposta una categoria di professionisti specializzati. Sulla scorta di Weber, lo studio delle professioni giuridiche (magistrati, giudici, avvocati, notai) è diventato uno dei settori più importanti della sociologia del diritto (v. Treves, 1977).
La sociologia della devianza (v. Devianza) e della criminalità (v. Criminalità) è un altro settore disciplinare che si colloca al confine tra sociologia e diritto. Vi è una lunga tradizione di studi criminologici di impostazione prevalentemente giuridica, ai quali si sono affiancate a partire dall'inizio del XX secolo numerose ricerche di impostazione sociologica sulla base di approcci teorici molto diversi. Da un lato vi sono le teorie (oggi ritenute largamente superate) che attribuiscono la genesi dei fenomeni di devianza e criminalità a fattori di natura genetica, dall'altro lato si collocano le teorie che sottolineano i fattori sociali (presenza di subculture devianti, mancata o difettosa interiorizzazione delle norme, cattivo funzionamento dei meccanismi di controllo); altre teorie ancora pongono l'accento sull'azione deviante come azione razionale, oppure come risposta ai processi di stigmatizzazione messi in atto dalle agenzie di controllo.Un campo di studi che ha avuto in epoca recente un consistente sviluppo per la rilevanza del fenomeno e per le sue implicazioni relative alle politiche sociali ed educative è quello della sociologia della devianza giovanile (v. Segre, 1996).
Riproduzione sociale. - Sotto l'etichetta generica di riproduzione sociale si collocano normalmente tre importanti settori della ricerca sociologica che si sono sviluppati in modi largamente autonomi l'uno dall'altro: la sociologia del matrimonio e della famiglia, la sociologia dell'educazione e la sociologia della salute e della medicina. Nella sociologia del matrimonio (v. Matrimonio) e della famiglia (v. Famiglia) prevalgono due tipi di approccio, da un lato storico-antropologico e comparativo, dall'altro lato sociopsicologico. Il primo sottolinea il fatto che, se la famiglia è un universale culturale nel senso che non esiste società senza qualche forma di organizzazione familiare, le strutture della parentela e le forme della famiglia variano enormemente nel tempo e nello spazio. Anche se nel mondo moderno, come sostiene Goode (v., 1963), tende a prevalere il modello della famiglia coniugale (composta cioè da genitori e figli minori), questo non solo non era vero in passato, ma non lo è neppure oggi nelle società avanzate, dove aumentano le famiglie composte da un solo membro, le famiglie con un solo genitore e le famiglie ricostituite dopo il divorzio, eventualmente con figli che provengono da diversi matrimoni. L'approccio sociopsicologico mette in evidenza, invece, la qualità dei rapporti familiari (tra coniugi, tra genitori e figli, tra i coniugi e le loro famiglie di origine, tra nonni e nipoti, ecc.). La sociologia della famiglia si è sviluppata negli ultimi decenni soprattutto in relazione al fatto che la famiglia è diventata spesso l'unità di riferimento delle politiche sociali di welfare (v. Saraceno, 1996²).I temi di cui si occupa la sociologia dell'educazione possono essere raggruppati in tre aree. Una prima area comprende gli studi sull'evoluzione e sulla struttura dei sistemi educativi, il più delle volte in una prospettiva comparativa, e sul rapporto con la cultura delle classi dirigenti, sul sistema politico e sulla stratificazione sociale (v. Archer, 1978). La seconda area riguarda lo studio dei fattori che influenzano il successo o l'insuccesso scolastico (v. Boudon, 1973). Rientrano in quest'area molte ricerche sulle determinanti (genetiche e/o ambientali) del quoziente di intelligenza e sull'influenza dell'intelligenza sul rendimento scolastico. La terza area, infine, comprende le ricerche sui processi di interazione tra insegnanti e allievi che si generano nella classe scolastica e che riflettono diversi stili di leadership.
La sociologia della salute e della medicina è un settore che ha avuto negli ultimi decenni un notevolissimo sviluppo soprattutto in relazione all'espansione (e alla crisi) dei sistemi sanitari pubblici. L'analisi organizzativa dei sistemi sanitari e degli ospedali come organizzazioni complesse è tuttavia soltanto uno dei campi di ricerca che rientrano in questo settore. Un campo di ricerca che fa uso degli strumenti della statistica sanitaria comprende gli studi epidemiologici sulla diffusione delle malattie in società ed epoche diverse. Un altro consistente gruppo di ricerche, condotte in chiave storico-antropologica, riguarda le concezioni della salute e della malattia, la loro variabilità transculturale e le trasformazioni che hanno subito in seguito all'evoluzione delle conoscenze mediche. Altri studi analizzano l'interazione medico-paziente in culture diverse e in diversi contesti terapeutici. Infine, importanti ricerche sono state condotte sulle professioni sanitarie e in particolare sulla professione medica (formazione, specializzazione, organizzazione professionale, etica professionale).
Va menzionata inoltre la sociologia della salute mentale, che studia i fattori socioculturali dell'insorgenza e della diffusione delle malattie mentali, gli atteggiamenti culturali e le risposte terapeutiche in diverse epoche e culture.
Processi culturali. - Appartiene a quest'area un gruppo di sociologie apparentate esclusivamente dal fatto di occuparsi di fenomeni che si collocano nelle sfera della 'cultura', cioè delle idee, dei valori, delle credenze, delle conoscenze e delle relative pratiche sociali. Questi fenomeni, è bene ricordarlo ancora una volta, sono tutti oggetto di altre discipline e la sociologia non pretende certo di sostituirsi a esse, ma soltanto di aggiungere una prospettiva che parta dalla considerazione che si tratta comunque di fenomeni prodotti socialmente.Il primo dei fenomeni da prendere in considerazione è senza dubbio la religione (v. Religione), se non altro per il fatto che, come abbiamo visto, è stata al centro delle analisi dei classici, soprattutto, ma non solo, di Weber e Durkheim che giustamente sono considerati i fondatori della sociologia della religione. L'interesse dei classici era rivolto principalmente allo studio delle funzioni sociali della religione, dell'influenza della struttura sociale sulle credenze e le istituzioni religiose e di queste, a loro volta, sulla società. Da allora la sociologia della religione si è sviluppata prevalentemente nella direzione delle ricerca empirica sulle credenze e le pratiche religiose, la loro diffusione nei vari strati sociali e la loro influenza su valori, atteggiamenti e comportamenti (culturali, economici, politici, familiari, ecc.). Temi che hanno suscitato, e continuano a suscitare, notevole interesse riguardano il rapporto tra i processi di modernizzazione e di secolarizzazione, la funzione delle ideologie come sostitutive delle religioni e l'affermazione di forme di religiosità laica o di 'religione civile' (v. Willaime, 1995).
Un secondo ambito di ricerca in quest'area riguarda la produzione e diffusione del sapere. Karl Mannheim (v., 1923-1929) è considerato il fondatore della sociologia del sapere (v. Sapere) o della conoscenza, ma l'idea che il sapere abbia radici sociali è molto più antica. I sociologi della conoscenza ritengono che ogni attività del conoscere, nella vita quotidiana come nella sfera intellettuale, sia legata alla posizione che il soggetto conoscente occupa nella società e ai suoi interessi pratici, e che quindi sia compito della sociologia della conoscenza studiare i modi di questo condizionamento e le vie per sottrarsi a esso o tenerlo sotto controllo. A partire dai lavori pionieristici di Merton (v., 1949) e sotto la spinta della crescente importanza della ricerca scientifica nelle società avanzate si è creata una nuova sottodisciplina specialistica, la sociologia della scienza, che studia le condizioni sociali in cui si realizza la produzione di conoscenza scientifica, sia a livello macro (ad esempio il problema del finanziamento e dell'organizzazione di grandi progetti connessi alle attività militari), sia a livello micro (ad esempio lo studio delle decisioni e delle interazioni all'interno di un laboratorio di ricerca).
Anche l'arte e la letteratura sono diventate oggetto di ricerca sociologica. La sociologia della musica, la sociologia dell'arte e la sociologia della letteratura hanno ritagliato un loro specifico campo di ricerca, dove da un lato vengono analizzate le condizioni sociali della produzione artistica e letteraria, dall'altro lato i modi che rendono fruibile questa produzione da parte di pubblici differenziati di consumatori. È evidente che la ricerca in questi campi richiede in modo particolare l'incontro tra competenze disciplinari diverse; così, ad esempio, sarà difficile distinguere tra la ricerca di un musicologo che adotta una prospettiva sociologica e quella di un sociologo con interessi musicologici. Un altro campo nel quale si realizza un incontro tra discipline diverse è la sociologia del linguaggio (v. Linguaggio) o sociolinguistica, che studia la variabilità dei linguaggi umani nello spazio, nel tempo e nei diversi contesti sociali di uso (v. Giglioli, 1973).In grande espansione negli ultimi decenni è inoltre la sociologia delle comunicazioni di massa (v. Comunicazioni di massa) che studia la produzione, trasmissione e ricezione dei messaggi rivolti alla grande massa della popolazione (v. McQuail, 1994⁴). Connessa agli studi sulla 'cultura di massa' è da ricordare, infine, la sociologia del tempo libero (ulteriormente suddivisa in diverse sottodiscipline come la sociologia dello sport e la sociologia del turismo).
Organizzazione sociale dello spazio e del tempo. - Tutti i fatti sociali si formano nello spazio e nel tempo. A rigor di logica quindi le sociologie che si occupano delle dimensioni spaziale e temporale fanno parte della sociologia generale. Questa è l'opinione di uno dei maggiori sociologi contemporanei, A. Giddens (v., 1984), che su queste dimensioni imposta la sua teoria della 'strutturazione' sociale. A parte il contributo di Giddens, i concetti di spazio e tempo non hanno ancora uno statuto consolidato nella teoria sociologica generale. Vi è tuttavia una significativa tradizione nello studio dei fenomeni che avvengono nello spazio urbano e nello spazio rurale, mentre lo sviluppo di una sociologia del tempo è relativamente recente. Anzi, si può dire che la sociologia urbana sia stata, e sia tuttora, uno dei campi dove la sociologia ha dato maggiori contributi con significative ricadute operative sul terreno della pianificazione urbana. La sociologia urbana studia la dislocazione dei gruppi sociali nello spazio urbano e i modi attraverso i quali si strutturano i rapporti sociali in diversi contesti spaziali, dal quartiere fino alla metropoli. I diecimila anni di storia urbana offrono evidentemente un campo quasi sterminato per l'applicazione di metodi storico-comparativi. Weber e Simmel sono, tra i classici, coloro che hanno dato i maggiori contributi allo studio della città (v. Città). Dopo di loro, vi è stata negli anni venti e trenta la grande stagione della Scuola di Chicago (v. Rauty, 1995), fino agli studi più recenti sull'organizzazione sociale delle aree metropolitane (v. Martinotti, 1993; v. Mela, 1996).La sociologia rurale ha dato importanti contributi allo studio delle trasformazioni sociali delle campagne con il passaggio dall'agricoltura tradizionale all'agricoltura moderna; tuttavia, con la forte riduzione della popolazione contadina, essa ha perso di importanza nelle società avanzate, mentre continua a essere coltivata nelle società del Terzo Mondo.
Lo sviluppo di una sociologia del tempo è, lo si è già notato, relativamente recente, anche se è stato preceduto da una considerevole mole di studi antropologici sulle concezioni e le rappresentazioni del tempo nelle società premoderne e anche se, tra i classici della sociologia, si trovano già in Simmel e Durkheim acute anticipazioni. Norbert Elias (v., 1984) ha fornito un contributo teorico importante chiarendo come l'attuale concezione lineare del tempo come quantità misurabile, che ci appare ovvia e 'naturale', sia in realtà il prodotto di un lungo processo evolutivo che è parte del più ampio processo di civilizzazione. Nell'ambito della sociologia del tempo si è sviluppato anche un consistente filone di ricerca empirica sugli usi del tempo, che si serve della metodologia quantitativa dei 'bilanci-tempo' (v. Szalai e altri, 1972), e sull'organizzazione spazio-temporale della vita sociale (v. Hägerstrand, 1975).
La grande varietà dei campi di ricerca delle sociologie speciali illustra in modo eloquente la difficoltà di tracciare i confini della sociologia. Ogni sociologia speciale confina, quando non si sovrappone, coi campi di ricerca di altre discipline non sociologiche. Questo vale a maggior ragione per alcune specializzazioni che si inoltrano in misura particolarmente consistente nel territorio di altre discipline, anche se, di fatto, vengono prevalentemente insegnate, soprattutto negli Stati Uniti, nei dipartimenti di sociologia. Tra queste meritano un cenno la sociobiologia (che studia i fondamenti biologici dei comportamenti sociali umani e animali), la demografia (che studia la struttura e la dinamica delle popolazioni) e la sociologia dei piccoli gruppi (che studia, coi metodi della psicologia sociale, le forme di interazione tra un numero limitato di attori sociali).
(V. anche Azione sociale; Classi e stratificazione sociale; Complessità sociale; Comunità; Conflitto sociale; Demografia; Divisione del lavoro; Etnometodologia; Funzionalismo; Gruppi; Individualismo metodologico; Interazionismo simbolico; Mobilità sociale; Razionalità; Rivoluzione industriale; Scambio sociale; Sistemi, teoria dei; Sociobiologia; Solidarietà; Spiegazione e comprensione; Struttura sociale; Teoria critica della società).
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