Nel diritto processuale civile l’appello è il mezzo di impugnazione ordinario delle sentenze pronunciate in primo grado, a eccezione di quelle dichiarate inappellabili tanto dalla legge quanto in virtù dell’accordo delle parti (artt. 339, primo comma, e 360, secondo comma, c.p.c.), che abbiano deciso di ricorrere immediatamente in cassazione (Ricorso per cassazione. Diritto processuale civile). L’appello si indirizza o alla corte di appello o al tribunale, a seconda che sia rispettivamente proposto contro una sentenza del tribunale o del giudice di pace (art. 341). Si tratterà dell’ufficio giudiziario superiore (corte di appello o tribunale) nel cui ambito territoriale si trova l’ufficio giudiziario di prima istanza (tribunale o giudice di pace) al quale appartiene il giudice che abbia adottato la sentenza da appellare. Con l’appello si può far valere ogni tipo di vizio della sentenza, giacché se è vero che la legge esige che l’appellante indichi nell’atto introduttivo i motivi specifici della impugnazione (art. 342), al contempo lo lascia assolutamente libero di conformarli nel contenuto. La regola enunciata subisce una deroga nel caso di appello contro le sentenze del giudice di pace pronunciate secondo equità, ai sensi dell’art. 113, le quali sono appellabili esclusivamente per taluni vizi (art. 339, co. 3).
Il giudice d’appello viene reinvestito del potere di decidere sullo stesso oggetto litigioso sul quale ha già deciso il giudice di primo grado, subordinatamente peraltro all’iniziativa delle parti. I limiti della devoluzione del materiale di causa, dal primo al secondo grado di giudizio, sono così segnati sia dall’iniziativa dell’appellante, attraverso la esposizione dei motivi specifici della impugnazione (art. 342), sia dalle scelte dell’appellato, che in caso di soccombenza reciproca può a sua volta impugnare la sentenza con appello incidentale (art. 343). Resta fermo, infine, che le eccezioni e le domande non accolte, se non siano espressamente riproposte in appello, si intendono rinunciate (art. 346). Problema inverso è quello relativo alla possibilità di introdurre in appello questioni che non sono state dedotte in primo grado. Non vi possono essere proposte domande nuove (se non da terzi che intervengano per la prima volta in appello ex art. 344) né eccezioni nuove, salvo che non siano rilevabili anche d’ufficio. Restano nondimeno proponibili quelle domande le quali costituiscono uno svolgimento logico o cronologico di domande già proposte. In tema di nuove prove vigono analoghe restrizioni: al divieto di proporle sfuggono unicamente il giuramento decisorio nonché le prove che la parte interessata dimostri non aver potuto proporre nel giudizio di primo grado per causa a essa non imputabile (art. 345).
La proposizione dell’appello non comporta di per sé la sospensione dell’esecutività della sentenza impugnata, che può invece essere richiesta al giudice di appello con apposita istanza insieme con la impugnazione principale o con quella incidentale (art. 283 e 351). Normalmente il giudizio di appello si conclude con una pronunzia che è destinata a sostituirsi a quella assunta in primo grado nella regolamentazione della situazione controversa. Soltanto in alcuni casi di speciale gravità esso si conclude con una pronuncia che si limita a eliminare la sentenza impugnata e a rimettere la causa al giudice di primo grado (art. 353 e 354). Nel procedimento di appello si osservano, in quanto applicabili, le norme dettate per il procedimento di primo grado davanti al tribunale (art. 359). Se sia impugnata una sentenza del giudice di pace, e sia quindi competente per l’appello il tribunale, la trattazione e decisione della causa è monocratica. Viceversa la trattazione dell’appello è integralmente collegiale davanti alla corte di appello, in ipotesi di impugnazione della sentenza del tribunale (art. 350).
La l. n. 143/2012, che ha convertito in legge il d.l. n. 83/2012, ha introdotto un c.d. "filtro" di ammissibilità dell'appello: ai sensi dell'art. 348 bis c.p.c., infatti, «l'impugnazione è dichiarata inammissibile ... quando non ha una ragionevole probabilità di essere accolta».
Impugnazioni. Diritto processuale civile