comicità e umorismo
Far ridere è una cosa seria
La comicità e l'umorismo, la loro natura e le loro cause, sono stati spesso oggetto di riflessione filosofica. Ma sono stati anche punto di partenza per importanti riflessioni pratiche, teoriche e anche politiche sull'arte.
La comicità, la capacità di essere comico, è insomma un concetto molto semplice in sé e nei suoi effetti, che però suscita problemi e domande complesse non appena ci si interroga sulle sue qualità. Può essere utile pensare la comicità come un crocevia: è il punto di incontro tra molte strade (la riflessione filosofica, quella artistica, quella politica, e via dicendo) che conducono in direzioni diverse
Poiché la capacità di ridere e di percepire la comicità è generalmente considerata una dote tipica dell'essere umano ‒ gli animali, si dice, non ridono ‒, molti pensatori se ne sono occupati, chiedendosi cosa sia e da cosa sia provocata. L'elenco sarebbe lunghissimo, da Aristotele al filosofo francese Henri Bergson. Per una linea di pensiero che si fa risalire a Platone, per esempio, il senso del comico nascerebbe dalla consapevolezza della propria superiorità rispetto al difetto della situazione o del personaggio rappresentato. Secondo Kant, invece, nascerebbe dall'improvviso risolversi in nulla di una forte aspettativa.
Bergson, che forse è colui che se ne è occupato più specificamente in un celebre saggio pubblicato nel 1900, Il riso, ha definito la comicità come una "meccanizzazione della vita". L'effetto di comicità, secondo lui, risulterebbe dal contrasto tra meccanicità e vita, più precisamente dall'impressione che qualcosa di meccanico si sia "placcato", sovrapposto sul vivente, costringendoci, per un attimo, a guardare una persona come se fosse una cosa. Noi leggiamo le gesta di Sancio Panza, il servitore di don Chisciotte, dice Bergson, ci interessiamo alla sua vigliaccheria, ai suoi lati simpatici, alla sua umanità, al suo buon senso, ma poi, quando lo vediamo buttato per aria da una coperta, ridiamo perché lo percepiamo, per un attimo, non come un uomo ma come una palla.
Può sembrare una visione particolarmente crudele di cosa sia la comicità, ma mette in luce in termini espliciti quello che, come vedremo, è stato un suo aspetto essenziale anche per un altro tipo di riflessione sul comico, quella artistica. Ciò che Bergson mette indirettamente in luce è infatti la capacità del comico di dar vita a un nodo, di legare insieme sentimenti o situazioni apparentemente opposti.
In letteratura, il comico è un genere che si collega alla commedia e si distingue dal dramma serio e soprattutto dalla tragedia. Ma al di là della distinzione dei generi, la riflessione sulla comicità, e ancora di più quella sull'umorismo, sono state stimoli essenziali per la pratica artistica.
L'aggettivo umoristico viene in genere usato come sinonimo di comico: un giornale umoristico, uno scrittore umoristico indicano semplicemente la volontà di divertire. Il sostantivo umorismo ha invece una sfumatura di significato differente: indica un modo di guardare e di far guardare il mondo. Un modo di guardare differente e imprevedibile che osserva in maniera inconsueta ciò che fino a quel momento appariva consueto. Qualcosa di molto importante, quindi, per la pratica artistica.
Il salto rispetto alla quotidianità è reso possibile, a sua volta, dal fatto che la comicità determina, più che il riso, una situazione di vitalità particolarmente intensa, un battito di vita particolarmente forte, e un momento di rottura rispetto al senso comune. Lo ha messo in luce il poeta francese Charles Baudelaire in un saggio del 1855, tradotto in italiano col titolo Il riso, il comico, la caricatura: l'incremento di vitalità coincide con un senso di esplosione e di liberazione. Indica un polo estremo dell'essere umano, proprio come la tragicità. La serietà, invece, è ciò che sta in mezzo, è normalità.
Il comico è quindi, in quanto rottura rispetto alla quotidianità, un momento di capovolgimento di regole, convenzioni e convinzioni, e proprio perciò può essere uno strumento d'arte per eccellenza. Inoltre, come abbiamo appena visto parlando di Bergson, ha la capacità di mettere insieme sentimenti o situazioni opposte, e di determinare veri e propri nodi di opposizioni. O di rivelare come nella realtà gli opposti non si oppongano, ma si intreccino e si fondano. In primo luogo quello tra serietà e allegria.
La comicità, del resto, non è necessariamente collegata al riso. Don Chisciotte, per esempio, è un personaggio comico che però difficilmente fa ridere. La comicità è una sfera che comprende al suo interno gioia, buffoneria, satira, derisione, spiritosaggine, umorismo e grottesco.
Nei primi anni dell'Ottocento lo scrittore tedesco Jean Paul (Johann Paul Friedrich Richter) ha distinto due tipi di comicità: quella semplice, da lui chiamata classica, che si limita a ridere di avvenimenti o situazioni e a suscitare il puro riso su di essi; e una comicità più complessa e stratificata, che ha chiamato romantica. In questo secondo caso il riso che suscita è un riso 'filosofico', una mescolanza di allegria e di dolore, e nasce dalla capacità di comprendere una situazione e, soprattutto, di provarne pietà. È una comicità fatta di tolleranza e di simpatia. Quella di Jean Paul è stata molto più di una classificazione, è stato un modo per vedere e far vedere il mondo in maniera diversa, meno semplice, senza distinzioni drastiche e separazioni rigide, mettendone in luce, invece, i rapidi passaggi e le commistioni tra serio e allegro, tra comico e lacrimoso. Non è stata solo una teoria e un'idea astratta ma soprattutto una pratica artistica, uno stile, una tecnica, una concreta forma espressiva. Durante il romanticismo tedesco ci fu perciò una ripresa d'interesse per tutto quel che riguardava la comicità, e per il teatro in quanto luogo particolarmente adatto a essa. Ci fu una nuova considerazione per la commedia, per gli effetti umoristici, e per il teatro capace di suscitare il riso: il comico era diventato, dal punto di vista del romanticismo tedesco, addirittura superiore al tragico. Mentre tradizionalmente la commedia era sempre stata considerata un genere meno nobile della tragedia, con il romanticismo le gerarchie si rovesciano.
Al comico viene affidato il compito importantissimo di essere una via attraverso cui l'individuo può giungere a comprendere sé stesso, e al tempo stesso un sentimento che accomuna le persone e le trasforma da entità separate in vere e proprie comunità. Ma il comico di cui parlano i poeti romantici comprende in sé anche il tragico, è coesistenza di opposti: il dolore, l'imperfezione, il brutto devono servire anch'essi come strumenti per quel potenziamento dell'energia che sono il riso e il sorriso. Per scrittori come Friedrich Schiller, o come E.T.A. Hoffmann, il genio s'incarna nella burla, nell'ironia, nella follia comica. E trova un'espressione particolarmente efficace nel teatro, luogo per eccellenza delle opposizioni, in un'immediata dimensione pubblica. Perciò, in questo periodo, diventa un punto di riferimento fondamentale un genere teatrale che era stato considerato minore: la tradizione secentesca italiana della commedia dell'arte (un teatro comico, in maschera, improvvisato), e lo scrittore del tardo Settecento Carlo Gozzi, che nelle sue Fiabe teatrali sembra condensare la capacità di unire riso e fantasia sfrenata. Nel romanzo in cui più si sofferma a parlare dell'importanza e della superiorità del teatro comico, La principessa Brambilla, che è del 1820-21, Hoffmann scrive che le ali della fantasia sono indispensabili all'umorismo per sollevarsi da terra, ma che senza il corpo dell'umorismo la fantasia non sarebbe altro che un paio di ali, e veleggerebbe senza scopo, in preda ai venti. A tutto questo, i romantici, sia in Germania sia in Francia con Victor Hugo, dettero spesso il nome di 'grottesco', attinto da un fantasioso stile decorativo, tipico dell'antica Roma, ripreso dal Rinascimento, in cui immagini floreali si intrecciano a personaggi buffi, deformi e mostruosi. Altre volte, con poche differenze, il nome di umorismo.
Luigi Pirandello fornisce probabilmente il miglior esempio non solo del significato che può assumere il termine umorismo, ma anche dell'importanza che la comicità e l'umorismo hanno assunto nel rapporto tra riflessione e pratica artistica. Nel 1908 Pirandello pubblica un saggio dal titolo L'umorismo (che sarà poi ripubblicato in una edizione molto più ampia nel 1920). Il saggio suscita un vasto interesse, non tanto per una particolare originalità delle idee che contiene (tutte più o meno già esplorate dai romantici da una parte e da Bergson dall'altra), ma perché in esso Pirandello, sotto l'apparenza di considerazioni teoriche e filosofiche, sembra esporre i meccanismi e le convinzioni più nascoste e segrete da cui nasce la propria pratica artistica.
Scrive dunque Pirandello che l'umanità cerca continuamente di arrestare e di fissare la vita in forme stabili e determinate: cioè i concetti, o gli ideali a cui vorremmo uniformarci e restare coerenti. Sono maschere, dice Pirandello, e spesso sono utili e necessarie. Ma mentre costruiamo le nostre maschere, immobili, rigide, dentro di noi la vita continua invece come un flusso continuo, indistinto, irruente. Quando qualche volta accade, soprattutto in momenti di crisi, tempestosi, che le maschere crollino, come se fossero fisicamente investite e distrutte dal flusso violento della vita, l'umorismo, secondo Pirandello, permette di riconoscere e di mostrare agli altri la contraddizione da cui il crollo deriva.
Riflettere sulla comicità e sull'umorismo ha inoltre portato molti scrittori e uomini di teatro o di cinema a riflettere sul rapporto che unisce lo stile alto (modelli, o arti, o situazioni sociali elevate) con il basso (il popolare), sulle potenzialità politiche del comico proprio per la sua natura di strumento capace di ribaltare convinzioni e sicurezze.
In molti periodi e in molte situazioni storiche, la comicità è stata spesso relegata in ambiti di interessi ritenuti estranei alle più serie e importanti manifestazioni dell'uomo. L'esistenza del comico è sempre stata collocata in un mondo considerato inferiore, nelle zone più basse dell'arte, in quelle zone del divertimento che non possono essere eliminate, ma che hanno poco a che fare con i valori più alti dell'essere umano. La comicità, in questi casi, è stata vista solo come divagazione, distrazione, sostanziale superficialità. Questa idea della comicità è stata tanto diffusa che, nel Novecento, molti hanno affermato che nella nostra civiltà il comico è stato oggetto di una ricorrente repressione.
Sono affermazioni forse non del tutto giuste, visto che anche nella cultura occidentale esiste una visione alta della comicità, certamente propria solo di qualche minoranza, come i romantici tedeschi, ma non repressa. Inoltre, poiché la comicità è comica proprio perché è un'eccezione, come se fosse un buco, uno squarcio, una sorpresa nel tessuto della quotidianità e della normalità, è normale che venga in primo luogo associata a tutto ciò che viene considerato estraneo all'ordine e alle regole consolidate.
Quest'ultimo ordine di idee ‒ la comicità come uno strappo e uno squarcio, e quindi con un grande valore di ribellione all'ordine esistente ‒ acquista una particolare importanza nei primi tre decenni del Novecento. Viene nuovamente sottolineata la capacità del comico di ribaltare convinzioni e gerarchie, e di dar vita a nuove forme d'arte e di pensiero. Sono gli anni in cui si afferma, nel cinema, uno straordinario filone di grandissimi attori comici, come Buster Keaton e, soprattutto, i fratelli Marx e Charlie Chaplin. Nei lavori di quest'ultimo possiamo verificare l'uso di una comicità particolarmente efficace per esplorare temi sociali e personali che di per sé non sono comici affatto. In un certo senso Chaplin è l'incarnazione dell'importanza di risvolti seri e drammatici per un comico di alto livello ‒ anche quando sa e vuole suscitare il riso più sfrenato. Le avanguardie artistiche e letterarie dei primi decenni del Novecento hanno dato un grande peso al possibile uso distruttivo e aggressivo del riso e del comico, che diventa uno strumento essenziale nella lotta contro i valori cristallizzati, contro le sicurezze dell'ordine borghese, contro le concezioni dominanti dell'arte e della cultura. Il metodo comico, anche come allegria folle, diventa l'arma principale di filoni artistici che propongono immagini di vita e di cultura libere dal peso di tradizioni sentite come opprimenti, a favore di una rivendicazione di libertà. Nel tratteggiare i lineamenti di un teatro del futuro, per esempio, i futuristi italiani (futurismo) inneggiano a un tipo di teatro che abbia al centro effetti di comicità, di eccitazione anche erotica, di stupore immaginativo continuo, attraverso caricature estreme, "abissi di ridicolo", "ironie impalpabili e deliziose", "cascate di ilarità irrefrenabile", cinismo rivelatore, tutta la gamma dal riso al sorriso, "caricature del dolore e della nostalgia", per dar vita a immagini che siano espressione della sensibilità dei tempi moderni.
Spesso quelle dei futuristi sono sembrate formule astratte, ma solo perché il futurismo italiano è stato più importante per le sue idee che per quel che poi riusciva a realizzare. Ma nella Russia sovietica dei primi anni dopo la Rivoluzione bolscevica, il tipo di comicità di cui parlavano i futuristi italiani (battezzata ancora una volta "grottesco") è invece riuscito a materializzarsi, con risultati straordinari, soprattutto per opera di colui che è stato probabilmente il più grande uomo di teatro dell'intero Novecento, il regista Vsevolod E. Mejerchol´d. Il grottesco, così come lo definisce e lo usa Mejerchol´d, è il rapido accostamento tra situazioni opposte, comiche, sublimi, sentimentali, tragiche, ironiche. A sua volta questo tipo di accostamento provoca, in chi guarda, il passaggio rapidissimo da uno stato d'animo a un altro del tutto diverso, e da un punto di vista al suo opposto, così che lo spettatore si trova a essere strappato dalle sue convinzioni e costretto a una vera e propria montagna russa di sentimenti e punti di vista differenti. All'interno di questo stesso contesto storico, intorno al 1940, un grande studioso russo di letteratura, Michail M. Bachtin, comincia a elaborare una teoria sul comico popolare all'interno dei suoi studi sul Medioevo e sullo scrittore François Rabelais. Bachtin individua un uso della comicità da parte delle classi subalterne profondamente diverso rispetto a quelli della classe dirigente. Questo tipo popolare di comicità, che implica un modo differente di vedere il mondo, trova la sua espressione più chiara nella festa carnevalesca, e nel tipo di comicità che le è propria. Il riso carnevalesco non ha, secondo Bachtin, le sfumature amare, satiriche e pensose che ha la comicità in tempi moderni, è invece qualcosa di simile a una grande esplosione e a un capovolgimento completo, incarna di per sé un grande valore eversivo e rivoluzionario. Proprio su un'idea per certi versi simile, di comicità popolare grandiosa ed esultante, fatta di accostamenti imprevedibili e di scarti continui, esplicitamente usata per opporsi ai valori, alle illusioni e agli inganni dei potenti, si è sviluppata l'arte di uno dei più grandi attori comici contemporanei, Dario Fo, che per il suo valore di "giullare che si oppone al potere" ha ricevuto, nel 1997, il premio Nobel per la letteratura per la prima volta conferito a un attore.