Da un punto di vista teorico, il problema del diritto di resistenza, ovvero del diritto di opporsi a un potere ritenuto ingiusto, si lega alla tematica del fondamento dell’obbligazione politica. La tematica della resistenza alla tirannide o, comunque, a un ordine illegittimo nel nome di una legge superiore alla legge positiva è già presente nel mondo greco-romano (basti pensare, in questo senso, all’Antigone di Sofocle) e viene fatto proprio dai primi scrittori cristiani (in particolare, Paolo di Tarso). Nel medioevo, la problematica del diritto di resistenza trova poi un nuovo impulso nella lotta per le investiture e nella filosofia di Tommaso d’Aquino. Con l’età moderna, il diritto di resistenza si lega quindi alla tutela della libertà di religione e alla lotta contro le tendenze assolutistiche. Esso viene invocato, in particolare, dai c.d. monarcomachi, cioè da tutti quei giuristi, filosofi e teologi, sia protestanti (Hotman, de Bèze) che cattolici (de Mariana, Suarez), che arrivano a sostenere la possibilità di spodestare (e, addirittura, nelle loro formulazioni più radicali, di uccidere) il Monarca che, violando il pactum subiectionis, si fosse comportato da tiranno. Teorici del diritto di resistenza sono anche Althusius e Locke (che parla esplicitamente di un «appello al cielo»).
Con l’avvento del costituzionalismo moderno, da un lato, tale diritto viene previsto esplicitamente in una serie di documenti costituzionali, espressivi delle prevalenti tendenze giusnaturalistiche (Bill of Rights inglese 1689; art. 2 Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino francese 1789), ma, dall’altro, la sua stessa configurabilità viene sempre più contestata, se non addirittura negata dai grandi teorici dello Stato di diritto. In effetti, la presenza di meccanismi giuridici e politici (separazione dei poteri, garanzia dei diritti, principio di legalità, riconoscimento delle minoranze ecc.) volti a prevenire possibili abusi da parte del potere politico porta numerosi pensatori, a partire da Kant, a negare la configurabilità di un autonomo diritto di resistenza o, comunque, a ridurlo ad una sorta di diritto-dovere di conservazione della Costituzione o dei principi politici propri dello Stato liberale.
Con il secondo dopoguerra e con il riemergere di tematiche giusnaturalistiche si assiste a una rinnovata codificazione di questo diritto in alcuni documenti costituzionali (art. 20, par. 4, Legge fondamentale Germania 1949; art. 21 Cost. Portogallo 1976), ma, anche in questo caso, prevalgono le concezioni di tipo conservativo. Va detto, però, con riferimento all’ordinamento italiano, che la proposta di inserire espressamente tale diritto nel testo costituzionale, presentata nell’Assemblea costituente da Dossetti, non venne approvata, ritenendosi, secondo l’opinione prevalente, che la resistenza all’oppressione o alla tirannia fosse un fatto politico fondamentale – come attesta la lotta di liberazione nazionale del biennio 1943-1945 – non traducibile, però, in termini giuridici.
Secondo Passerin d’Entrèves, le sole forme di resistenza legittime in una società libera e aperta sarebbero l’obbedienza passiva (il rifiuto di obbedienza a una o più norme considerate inaccettabili per ragioni di principio, al quale si accompagni l’accettazione rassegnata della sanzione), l’obiezione di coscienza e la disobbedienza civile. Sarebbero, invece, da considerare sovversive la resistenza passiva e la resistenza attiva, poiché, in questi casi, non si porrebbe più un di problema di inadempimento dell’obbligazione politica, ma ne verrebbe negata la stessa esistenza. Una peculiare interpretazione del diritto di resistenza, infine, è quella di C. Mortati, che ne ha sottolineato lo stretto legame con la salvaguardia del principio democratico (Democrazia).