Rifiuto di sottostare a una norma dell’ordinamento giuridico, ritenuta ingiusta, perché in contrasto inconciliabile con un’altra legge fondamentale della vita umana, così come percepita dalla coscienza, che vieta di tenere il comportamento prescritto. Il contenuto dell’o., dunque, si snoda in una duplice direzione: una negativa, di rifiuto di una norma posta dallo Stato, e una positiva, di adesione da parte del soggetto a un valore o a un sistema di valori morali, ideologici o religiosi. Essa si fonda sulla tutela prioritaria della persona rispetto allo Stato e sul rispetto della libertà di coscienza, diritto inalienabile di ogni uomo (art. 2, 19, 21 Cost.; art. 18 Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo). Nell’ordinamento giuridico italiano sono previste tre forme di o.: al servizio militare; sanitaria; alla sperimentazione sugli animali.
L’o. al servizio militare è una forma non violenta di rifiuto del servizio militare della guerra. Con essa l’obiettore non contesta il dovere costituzionale della difesa dello Stato, ma oppone a esso un’alternativa: il servizio civile (l. 772/1972), che promuove la difesa non violenta e la solidarietà, invece della difesa militare armata. L’o. militare trova fondamento morale nella regola aurea del cristianesimo «ciò che volete gli uomini facciano a voi, anche voi fatelo a loro», dalla quale deriva l’imperativo del «non uccidere».
L’o. sanitaria (l. 194/1978) «esonera il personale sanitario ed esercente le attività ausiliarie [quando sollevi obiezione con preventiva dichiarazione] dal compimento delle procedure e delle attività specificamente e necessariamente dirette a determinare l’interruzione della gravidanza», inclusa la firma del certificato rilasciato alla donna che chiede l’aborto. Tuttavia, «non può essere invocata [dagli operatori] quando il loro personale intervento sia indispensabile per salvare la vita della donna in imminente pericolo». In quanto dovere della coscienza, si fonda sul principio generale di origine ippocratica bonum faciendum, malum vitandum, che impone all’operatore sanitario di astenersi da qualsiasi forma di cooperazione diretta o indiretta con azioni volte alla soppressione della vita umana. In termini bioetici, essa si fonda sul principio dell’integrità deontologica delle professioni sanitarie, per il quale, laddove il paziente richieda al medico il compimento di azioni che contrastino con la sua coscienza, questi ha il diritto-dovere di trasferire il paziente a un altro medico per farsi sostituire. In questi termini, non c’è desiderio del paziente che possa obbligare l’operatore a pratiche da lui ritenute offensive della vita umana. Altre prassi biomediche di recente emerse all’attenzione del legislatore per le evidenti implicazioni etiche che comportano sono l’eutanasia e il suicidio assistita, la fecondazione artificiale e le manipolazioni genetiche, la sperimentazione su embrioni umani e la diagnosi prenatale con finalità eugenetica che, potendo avere come esito la morte del concepito, violano il principio del «non uccidere». Delicata è anche la posizione di medici e farmacisti di fronte alla possibilità di prescrivere e somministrare farmaci abortivi, configurandosi la fattispecie in presenza della quale si legittima il diritto di appellarsi alla ‘clausola di coscienza’, dato il riconosciuto rango costituzionale dello scopo di tutela del concepito che motiva l’astensione (Corte cost., sent. 35/1997).
Coloro che si oppongono alla violenza sugli esseri viventi possono dichiarare la propria o. a ogni atto connesso con la sperimentazione animale (l. 413/1993). La norma si estende non solo a medici, ricercatori e a tutto il personale sanitario, ma anche agli studenti universitari, i quali non possono «subire conseguenze sfavorevoli per essersi rifiutati di praticare o di cooperare all’esecuzione della sperimentazione animale», e «hanno diritto […] ad essere destinati […] ad attività diverse […], conservando medesima qualifica e medesimo trattamento economico».