Corrente linguistica che identifica e classifica gli elementi della lingua in base alla loro distribuzione, cioè l’insieme dei contesti in cui un elemento può comparire, eliminando dalla descrizione dei fatti linguistici qualsiasi riferimento al significato.
Il d., noto anche come strutturalismo americano, fu fondato (1930 ca.) negli USA da L. Bloomfield e nacque come reazione alle grammatiche mentaliste. Muovendo dai postulati della psicologia comportamentistica, rifiuta qualsiasi impostazione metodologica che non si basi su dati oggettivi; l’indagine linguistica deve eliminare ogni riferimento al contenuto e seguire criteri materiali, verificabili e controllabili; l’obiettivo è una descrizione formale, rigorosa e coerente dei fenomeni grammaticali. In quest’ottica positivista il linguaggio è considerato in termini meccanicistici di stimolo e risposta, secondo lo schema S − r − s −R. Quando uno stimolo esterno (S) induce qualcuno a parlare (r), questa risposta linguistica del parlante costituisce per l’ascoltatore uno stimolo linguistico (s) che provoca una risposta pratica (R); S e R sono dunque eventi che appartengono al mondo extralinguistico, mentre r e s sono elementi dell’atto di comunicazione linguistica. L’adesione di Bloomfield alle idee comportamentistiche si tradusse in un rigido antimentalismo, incidendo profondamente sulle sue concezioni in campo semantico. Secondo lo studioso americano, il significato di una forma linguistica è rappresentato dalla situazione in cui viene usata e dalla risposta che suscita nell’ascoltatore; esso non dipende dalla soggettività del parlante, dal suo modo di pensare, poiché la parola non è effetto del pensiero. Era inoltre opinione di Bloomfield che l’analisi del significato fosse il punto debole dello studio del linguaggio e che avrebbe continuato a esserlo fino a che le conoscenze umane non fossero considerevolmente progredite. Per quasi trent’anni dalla pubblicazione della monumentale opera di Bloomfield, Language (1933), lo studio del significato fu del tutto trascurato dalla scuola bloomfieldiana e fu ritenuto estraneo alla linguistica propriamente detta.
Il metodo distribuzionale trae la sua origine dalla constatazione empirica che le parti di una lingua non si combinano in modo arbitrario l’una con l’altra; ciascun elemento si trova in determinate posizioni rispetto ad altri elementi. Sulla scorta di questa tesi, le definizioni delle tradizionali categorie grammaticali vengono rigettate e riformulate secondo nuovi criteri: il nome, l’aggettivo, il verbo ecc. sono classificati non in base alla loro funzione logica o semantica, bensì in base al fatto che possano o no occupare un certo insieme di posizioni combinatorie. Molti tratti peculiari dell’approccio distribuzionale si spiegano con la particolare situazione linguistica che caratterizzava il continente americano: l’esistenza di 150 famiglie di lingue amerindiane portò i distribuzionalisti a dedicare la maggior parte dei loro sforzi allo sviluppo di tecniche di registrazione e descrizione, privilegiando lo studio della fonologia, della morfologia e della sintassi a discapito di quello della semantica e dell’indagine storica.
Il declino del d. fu determinato alla fine degli anni 1950 dall’affermarsi della grammatica generativa di A.N. Chomsky.