Opera
L’incanto del canto
L’opera è la forma di spettacolo che unisce più elementi diversi. L’azione teatrale, portata avanti attraverso la musica e il canto, si basa su un libretto in versi o in prosa; un’orchestra accompagna i cantanti che, sul palcoscenico, recitano come attori; accanto ai protagonisti può agire anche un coro; le scenografie e i costumi aiutano a collocare la storia in un tempo e in un luogo; sono frequenti anche scene o intermezzi di ballo. L’unione di tutti questi elementi (canto, musica, poesia, recitazione, pittura, danza) fa dell’opera una manifestazione artistica ricca e affascinante, ma di complessa realizzazione
Nel corso della sua storia, l’opera ha mutato caratteri e stile secondo l’epoca, il gusto, i luoghi e le consuetudini teatrali, conservando tuttavia alcuni ingredienti più o meno fissi, per esempio: la recitazione o l’espressione dei sentimenti deve avvenire attraverso il canto; la vicenda narrata si compone di tante scene articolate in atti.
Gli spettacoli d’opera vengono spesso chiamati con nomi diversi (dramma per musica, melodramma, opera lirica, dramma musicale, teatro musicale) e una specifica terminologia serve a indicarne lo stile e le particolarità: si parla così di opera seria, opera buffa o comica, intermezzo (collocato tra un atto e l’altro dell’opera seria), Singspiel tedesco («canto e recitazione», che prevede l’alternanza tra dialoghi e parti cantate), tragédie-lyrique (opera di corte francese con cori e danze), operetta (leggera e spiritosa nei contenuti), opéra-ballet, grand-opéra (fastoso spettacolo musicale in cinque atti con balli, scene sontuose, cori e un gran numero di cantanti), farsa e altro ancora.
L’opera in senso moderno nacque a Firenze alla fine del 16° secolo quando la cosiddetta Camerata fiorentina, un gruppo di poeti, musicisti e letterati che si riunivano in casa del conte Giovanni Bardi, cercò di far rivivere sotto nuove forme l’antica tragedia greca in cui poesia, musica, danza e azione scenica erano uniti in uno spettacolo vario e al tempo stesso unitario. L’idea era quella di creare una musica il più possibile aderente a un testo poetico (questo stile era infatti definito recitar cantando) e di mettere in risalto la voce solista in un canto monodico, opponendosi allo stile polifonico imperante a quel tempo (polifonia).
Le discussioni teoriche degli umanisti della Camerata fiorentina portarono alla creazione di un nuovo genere di spettacolo musicale in cui l’ambientazione pastorale con soggetti tratti dalla letteratura greco-latina era filtrata attraverso una sensibilità nuova, utilizzando una tecnica di canto in via di elaborazione capace di esprimere stati d’animo e sfumature. Tali spettacoli, denominati favole pastorali, non erano destinati alla rappresentazione pubblica, ma venivano messi in scena nei palazzi nobiliari per un gruppo ristretto di spettatori aristocratici.
La prima opera di cui si ha notizia fu Dafne (1598 circa) su versi di Ottavio Rinuccini e musica di Jacopo Peri (con brani di Jacopo Corsi), della quale sono pervenute solo alcune musiche. Nel 1600 seguì Euridice, composta dagli stessi autori (con brani di Giulio Caccini) ed eseguita a Firenze a Palazzo Pitti. Nello stesso anno a Roma il musicista Emilio de’ Cavalieri mise in scena all’Oratorio dei Filippini la Rappresentazione di Anima et di Corpo, opera attenta ai valori drammatici della musica ma con chiari intenti educativi e didattici.
A questo tipo di spettacoli, in cui la musica accompagnava le parole dall’inizio alla fine, diede un grande impulso il compositore cremonese Claudio Monteverdi con il suo Orfeo, eseguito nel Palazzo Ducale di Mantova nel 1607; ma fu soprattutto la sua ultima grande opera, L’incoronazione di Poppea del 1643, che costituì un modello. Nell’Orfeo e nell’Incoronazione di Poppea sono contenute alcune caratteristiche che l’opera conserverà a lungo: una distinzione tra i momenti più propriamente d’azione chiamati recitativi e quelli lirico-espressivi chiamati arie, l’inserimento di un brano solo strumentale all’inizio dell’opera e di danze in alcuni punti determinati, l’uso dei ritornelli (ossia di sezioni ripetute).
Nel frattempo a Venezia nel 1637 era accaduto un fatto importante: l’inaugurazione del primo teatro d’opera pubblico a pagamento. Questo comportò la partecipazione di ogni classe sociale, modificando in poco tempo il gusto per gli spettacoli operistici: dalle vicende pastorali e mitologiche di ninfe, eroi e divinità classiche si passò a soggetti storici in cui sempre più spesso gli elementi drammatici si mescolavano a momenti comici, mentre il virtuosismo canoro dava vita a melodie orecchiabili e le scene e i costumi diventavano più elaborati e fastosi.
Il nuovo genere di spettacolo si diffuse in tutta Italia (soprattutto a Napoli, Venezia e Roma) per poi espandersi in Europa fino in Russia. Anche in Francia il più grande compositore operistico del Seicento, Jean-Baptiste Lully, era in realtà fiorentino e si chiamava Giovan Battista Lulli. Lully concepì un diverso tipo di opera di stile francese, definita tragédie-lyrique, in cui compì una sorta di trasposizione in musica della tipica recitazione declamata del teatro tragico di Pierre Corneille e Jean Racine, unita a un’orchestrazione ricca e a una cura per la psicologia dei personaggi. In Inghilterra si ebbe un isolato quanto riuscito tentativo di introdurre un melodramma nazionale con l’opera Didone ed Enea di Henry Purcell del 1689.
La struttura. All’inizio del Settecento, specialmente con l’apporto di Alessandro Scarlatti e in seguito di Georg Friedrich Händel, si afferma uno schema detto a forme chiuse (o a numeri chiusi), a causa della netta separazione tra i vari momenti musicali e del ricorso a convenzioni prestabilite. L’opera si presenta come una successione di arie (ampie melodie che servono a esprimere gli stati d’animo o affetti, composte secondo modelli definiti) e duetti (arie a due voci), cuciti insieme da monologhi o dialoghi detti recitativi (una specie di declamato vocale al quale è affidato il compito di mandare avanti l’azione: è chiamato recitativo secco quando viene sorretto solo dal clavicembalo, recitativo accompagnato quando è eseguito assieme all’orchestra) e inframmezzati da qualche coro. All’inizio era posto un brano strumentale definito sinfonia avanti l’opera o, alla francese, ouverture, che appunto significa «apertura».
Il ruolo più importante, nel teatro del Settecento, era affidato all’opera seria, di soggetto storico o mitologico, con personaggi che incarnavano valori astratti e alte virtù quali l’onore, il perdono, la generosità, l’amore. I maggiori poeti dell’epoca, come Apostolo Zeno e Pietro Metastasio, determinavano i contenuti e i caratteri dell’opera seria attraverso la scrittura del libretto (la sceneggiatura dell’intera vicenda completa di tutti i testi dei recitativi e delle arie) che veniva poi musicato dal compositore.
Interpreti e pubblico. Grande importanza avevano i cantanti, considerati dal pubblico i veri divi dello spettacolo operistico: erano loro a determinare il successo di una serata. Caratteristica del periodo fu la presenza dei castrati, i quali, unendo potenza vocale e virtuosismo tecnico, sapevano affascinare un pubblico che correva a teatro per godere di spettacoli capaci di meravigliare e incantare. È questa l’epoca del cosiddetto belcanto.
Il predominio dei cantanti, tuttavia, diede luogo a un teatro sempre più convenzionale e fiacco dal punto di vista drammatico. Per dare nuova vitalità all’opera seria, il compositore Christoph Willibald Gluck tentò una riforma, elaborando uno stile più asciutto e incisivo, abolendo parzialmente i virtuosismi canori e affidandosi a libretti più coerenti scritti da Ranieri de’ Calzabigi.
A Napoli. Parallelamente all’opera seria nacque e si sviluppò l’opera buffa, che metteva in scena vicende popolari e scherzose, spesso in dialetto, con cantanti meno celebri, musiche più spigliate e azioni vivacissime. Il canto divenne più aderente al parlato, con inserimento di pezzi d’insieme in cui due, tre o quattro personaggi ‘dialogano’ tra loro.
L’opera buffa nacque a Napoli quando prese vita la forma dell’intermezzo: si trattava di brevi atti unici di carattere comico eseguiti tra un atto e l’altro delle opere serie. Il più famoso intermezzo fu La serva padrona (1733) di Giovan Battista Pergolesi. Da allora, l’opera buffa dominò in tutta Europa, con la presenza di sommi compositori come Niccolò Piccinni, Giovanni Paisiello, Domenico Cimarosa, Baldassarre Galuppi.
A Vienna. Con Wolfgang Amadeus Mozart il teatro d’opera ebbe uno dei suoi momenti più alti, anche se con schemi che erano ancora quelli dell’opera seria (Idomeneo, Re di Creta e La Clemenza di Tito) o buffa italiana (Le nozze di Figaro, Così fan tutte, Don Giovanni, su libretto di Lorenzo Da Ponte), oppure del Singspiel (Il ratto dal serraglio e Il flauto magico, considerate come le prime grandi opere in lingua tedesca).
A Parigi. In Francia, Gluck trovò terreno fertile per diffondere le proprie idee, mentre compositori francesi come Jean-Philippe Rameau sviluppavano un teatro musicale proprio, ricco di recitativi assai liberi, numerosi cori e danze. L’arrivo a Parigi intorno al 1750 di alcune opere buffe italiane scatenò la querelle des bouffons, la polemica cioè tra i sostenitori della paludata opera francese e quelli che (con in testa Jean-Jacques Rousseau) preferivano i ‘buffonisti’ italiani. Questa circostanza diede impulso alla nascita della cosiddetta opéra-comique, nuovo genere teatrale di stampo borghese e con dialoghi parlati, destinato ad avere una lunghissima fortuna per tutto l’Ottocento. Il monopolio dell’opera italiana in Europa alla fine del secolo si affievolì sempre di più per lasciare spazio a esperienze diversificate, aiutate dall’affermarsi del Romanticismo che portava un nuovo interesse per il fantastico e l’avventuroso.
La Rivoluzione francese e l’età napoleonica mutarono la funzione sociale dell’opera, che divenne uno spettacolo al quale il pubblico partecipava con intensità, immedesimandosi nei personaggi e condividendone le passioni.
Dopo l’esperienza di musicisti come Luigi Cherubini, Gaspere Spontini e Simone Mayr, nei primi anni del 19° secolo l’Italia vide il predominio artistico di Gioacchino Rossini. Egli eccelse sia nelle opere serie sia in quelle buffe, anche se il suo capolavoro più popolare rimane un’opera comica, Il barbiere di Siviglia. Rossini, pur rifacendosi alla tradizione settecentesca del belcanto, la amplia e la modifica con particolare inventiva e scrivendo con grande bravura per i cantanti Dopo il suo trasferimento in Francia, Rossini si avvicinò al nuovo stile che si stava imponendo a Parigi, quello del grand-opéra, componendo a soli trentasette anni l’ultima sua opera, Guglielmo Tell (1829).
Più giovani di lui, Vincenzo Bellini, dalla vena melodica soave e purissima, e Gaetano Donizetti, dagli spiccati caratteri drammatici o patetici, composero opere già orientate verso il gusto romantico per le storie dalla forte componente tragica di contrasti amorosi e politici, ottenendo grande successo.
Nel panorama italiano irruppe quindi il genio teatrale di Giuseppe Verdi, che a partire dal suo primo grande successo, Nabucco (1842), sviluppò un’opera vigorosa, ricca di tensioni drammatiche, di colpi di scena e soprattutto di personaggi scolpiti a tutto tondo che rivelano la loro umanità nell’amore o nel dolore. Quello di Verdi è un teatro popolare per la capacità di comunicare, ma costruito in maniera raffinata, in cui le vicende basate sul conflitto tra bene e male sono spesso tratte da romanzi di successo o da drammi teatrali di altissimo valore (per esempio di Victor Hugo o Friedrich Schiller, ma soprattutto di William Shakespeare). Verdi visse a lungo, dal 1813 al 1901, maturando il suo stile nel corso degli anni e lasciando opere che sono ancora oggi tra le più rappresentate in tutto il mondo come Rigoletto, Trovatore, Traviata, Aida, Otello.
In Germania i compositori si avvicinarono con più entusiasmo ai temi fantastici e fiabeschi, spesso tratti da leggende o storie popolari, come nell’opera di Carl Maria von Weber Il franco cacciatore (1821). Nacque così un’opera romantica che tendeva a superare i vecchi schemi tradizionali per sostituirli con scene e atmosfere inventate con grande libertà e varietà. Da qui partì Richard Wagner per creare un proprio tipo di opera, da lui chiamata dramma musicale. Wagner abolì del tutto le forme chiuse, in modo che la musica e il canto potessero fluire liberamente per tutto il corso dell’atto, senza interruzioni; in tal modo egli cancellò la differenza ancora in parte esistente tra aria e recitativo servendosi di una cosiddetta melodia infinita e di temi ricorrenti che ritornano durante tutta l’opera. Egli, inoltre, si preparò da solo i libretti, dimostrando di avere grandi capacità di scrittore, e sviluppò al massimo le dimensioni dell’orchestra, alla quale affidò un ruolo importantissimo come mai era accaduto in precedenza.
Parigi, più di altre capitali europee, richiamò molti musicisti italiani (Rossini, Bellini, Donizetti, Verdi), che per i teatri della città composero diverse opere in francese; parallelamente si andava definendo un teatro musicale francese con caratteri e temi specifici, assai seguito dalla borghesia benestante e comprendente non solo i citati grand-opéra (il cui principale esponente fu Giacomo Meyerbeer) e opéra-comique (in particolare con Daniel Auber e Adolph Adam), ma anche il nuovo genere dell’opéra-lyrique, inaugurato dal Faust (1859) di Charles Gounod.
Alla fine del secolo prevalse un tipo di teatro dall’ambientazione esotica e dalla vena sentimentale. Tra i grandi operisti francesi dell’Ottocento ricordiamo Hector Berlioz, Camille Saint-Saëns, Georges Bizet e Jules Massenet.
Di pari passo col processo di formazione dei moderni Stati nazionali, anche in altri paesi europei venne elaborata un’opera nazionale nella lingua locale. Particolarmente attive furono le scuole russa (fondata da Michail I. Glinka e proseguita da Modest P. Musorgskij, Aleksandr P. Borodin, Nikolaj A. Rimskij Korsakov, Pëtr I. Čajkovskij) e slava (Bedrich Smetana, Antonín Dvořák, Leos Janáček) che facevano ricorso a leggende e storie locali e a melodie e stili musicali ispirati al canto popolare.
Tra la fine dell’Ottocento e i primi del Novecento sono molte le tendenze che si affacciano. I compositori italiani accolsero parzialmente le riforme di Wagner, ma più spesso guardarono con interesse al mondo francese.
Nacque e morì in poco tempo l’opera verista, che narrava drammi amorosi e tragici ambientati nel mondo popolare e contadino, affermatasi con Cavalleria rusticana (1890) di Pietro Mascagni, e proseguita con Ruggero Leoncavallo e Umberto Giordano.
Su tutti emerse la figura di Giacomo Puccini, abile nel mescolare la tradizione italiana e il teatro borghese. Puccini, come Verdi, riuscì a offrire al pubblico un tipo d’opera di grande impatto con melodie attraenti, ma allo stesso tempo raffinata nella concezione drammatico-musicale e in linea con le novità europee. Mai come in questi anni emergono tendenze differenti per stile e carattere: dall’opera impressionista Pelléas e Melisande (1902) di Claude Debussy alle prime sperimentazioni della musica atonale di Erwartung («Attesa», 1909) di Arnold Schönberg. Sulla scia di Wagner si pose il più rappresentativo compositore tedesco della prima metà del Novecento, Richard Strauss, che unì un’orchestrazione complessa a una forte carica emotiva, di sapore espressionista nelle prime opere.
Dopo gli anni Venti la crisi del linguaggio musicale si è proiettata anche in ambito operistico. Il teatro musicale ha cessato di essere un comodo specchio in cui il grande pubblico può facilmente riconoscersi ed è tornato a essere, come nel Seicento, uno spettacolo per pochi. Ma con due importanti differenze: le celebri opere del passato continuano a essere acclamate nei teatri, mentre per le nuove non esiste più un linguaggio comune a cui rifarsi; il compositore del Novecento tende, infatti, a considerare l’opera come un esperimento individuale in cui confluiscono stili musicali e teatrali diversi. Si è quindi venuta sviluppando una varietà di linguaggi e di opere molto differenti l’una dall’altra. Alcuni compositori hanno raccolto la tradizione ottocentesca rielaborandola, altri la rifiutano cercando nuovi tipi di teatro musicale, altri ancora recuperano, ma in senso polemico, la struttura a numeri chiusi, e così via. Negli esperimenti più radicali si arriva perfino ad abolire una trama o una storia e si usa la voce in maniera originale, spesso sfidando apertamente le attese e i gusti del pubblico.
Terminato il periodo delle cosiddette avanguardie (tra gli anni Cinquanta e Settanta) che rifiutavano l’idea stessa di opera, si è profilato un nuovo interesse per il teatro musicale, anche tradizionalmente inteso. L’avvento della televisione, del computer, dell’elettronica e di nuovi modi di rapportarsi alla storia e alla vita culturale ha permesso a molti compositori di intrecciare il teatro musicale con altri tipi di spettacolo creando così eventi musicali multimediali (che si avvalgono cioè di mezzi diversi), multilinguistici (uso di differenti linguaggi) e multiculturali (uso di diverse tradizioni culturali).