Sostanza che, incorporata in alcuni tipi di prodotti, quali le materie plastiche e gli elastomeri, ne modifica alcune caratteristiche, cioè la plasticità, la resistenza a trazione, la lavorabilità, a volte l’adesività e così via.
Si distingue fra p. esterni e p. interni; i primi sono quelli che si incorporano nella sostanza da plastificare, i secondi entrano invece a far parte della macromolecola modificandone la struttura e quindi le proprietà. In questo secondo caso si producono direttamente eteropolimeri aventi le proprietà richieste; tuttavia questa tecnica non è di applicazione generale perché per disporre di numerosi gradi di plastificazione occorrerebbe preparare per ogni tipo di materia plastica altrettanti copolimeri a diverso rapporto fra i costituenti o con diversi tipi di costituenti. Più pratici sono invece i p. esterni, che si incorporano alla sostanza da plastificare, mediante i quali basta variare il tipo di p. o la percentuale aggiunta per ottenere l’effetto voluto. Tali p. agiscono inserendosi fra le macromolecole del polimero distanziandole e provocando un indebolimento delle forze che si esercitano fra esse (forze di Van der Waals, legami di valenza secondaria); spesso alle forze di coesione agenti fra le catene del polimero si sostituiscono altre forze fra polimero e plastificante.
I p. sono generalmente liquidi ad alto punto di ebollizione, dotati di una volatilità praticamente trascurabile (così da non potersi eliminare facilmente dalla resina, anche se debolmente riscaldata); devono essere compatibili con le resine da plastificare, cioè stabilmente miscibili con esse, possedere stabilità chimica sì da non alterare la resina o alterarsi per azione di essa o delle sostanze con cui può venire a contatto (umidità, aria ecc.); i p. devono inoltre essere stabili al gelo, alla luce, non avere odori o colore proprio.
Dal punto di vista chimico, i p. appartengono a numerose categorie di composti (esteri di acidi grassi, esteri dell’acido fosforico, eteri, composti clorurati, composti contenenti azoto o zolfo, polimeri, oli naftenici, oli di catrame ecc.). Si può operare anche una classificazione tecnologica dividendo i p. in p. gelatinizzanti (o rigonfianti), capaci cioè di sciogliere o di gelatinizzare le macromolecole; p. indifferenti (o non rigonfianti), che non hanno potere solvente ma agiscono come lubrificanti fra le macromolecole; inoltre, per es.: p. ammorbidenti, p. per polimeri in dispersione, p. resistenti al gelo, p. per cloruro di polivinile.
Il criterio di scelta dei p. si basa sulla valutazione di alcune delle caratteristiche fisiche e chimiche più sopra ricordate (stabilità chimica, al calore, alla luce ecc.) o su alcune prove quali la misura della resistenza a trazione e alla piegatura effettuata su pellicole di determinate dimensioni addizionate del p. in esame. Particolare attenzione deve essere posta nella scelta dei p. da utilizzare nella preparazione di plastiche destinate a venire a contatto diretto con gli alimenti. La normativa italiana elenca una lista di sostanze consentite e stabilisce le prove di cessione con liquidi simulanti a cui devono essere sottoposti materiali finiti per verificare l’assenza di fenomeni di migrazione dall’imballaggio all’alimento. Pertanto, per es., gli esteri fosforici, nonostante le loro ottime qualità tecniche, sono vietati perché tossici, mentre sono consentiti, anche se con certe limitazioni, gli esteri dell’acido ftalico.
I vari tipi di p. sono largamente usati nella lavorazione a caldo di materie plastiche (per stampaggio, calandratura, estrusione ecc.), nel qual caso essi servono per abbassare la temperatura di lavorazione e per migliorare le caratteristiche di flessibilità; nella preparazione di prodotti vernicianti per aumentare la distendibilità e diminuire la fragilità della vernice, nella preparazione dei cosiddetti vetri di sicurezza. I p. interni si prestano a modificare, in forma sicura e stabile, diversi tipi di resine adattando le loro caratteristiche a numerose applicazioni tecniche; così cloruro di vinile e stirene, che tendono a dare polimeri a elevato punto di rammollimento, danno prodotti a punto di rammollimento più basso, se vengono copolimerizzati per es. con butadiene, isobutilene, isoprene.