politica
L’aspetto più importante della vita pubblica
Il termine politica deriva dalla parola greca pòlis («città-Stato») e indica l’insieme delle attività che hanno a che fare con la vita pubblica: il potere di alcuni uomini su altri uomini, il governo, i rapporti fra governanti e governati, la condizione dei sudditi o dei cittadini, l’organizzazione dello Stato, le lotte dei partiti, le relazioni e i conflitti tra gli Stati. L’analisi della politica è propria della dottrina dello Stato, della scienza politica e della filosofia politica
La politica ebbe la sua origine quando le comunità umane, raggiunta una certa complessità sociale, avvertirono l’esigenza di darsi un sistema di potere in grado di: A) prendere le decisioni relative all’organizzazione della collettività, assicurarne la convivenza e la sopravvivenza nello spazio e nel tempo; B) regolare mediante istituzioni per un verso i rapporti interni tra individui e gruppi sociali (politica interna), per l’altro i rapporti con le altre comunità (politica estera); C) dotarsi della forza materiale necessaria a garantire l’ordine politico.
L’organizzazione di una comunità o di uno Stato (quest’ultimo termine è comparso soltanto nel Cinquecento) comporta la costituzione di un potere che può essere affidato a un singolo individuo, a un gruppo ristretto, all’intera collettività (in maniera diretta o indiretta) oppure a una combinazione di queste soluzioni. Tale potere deve essere in grado di far valere, se necessario con la forza, le leggi preposte a regolare le relazioni tra le varie parti del corpo sociale. Le leggi a loro volta possono essere imposte da una parte alle altre oppure essere il prodotto di un patto o contratto fondato su un consenso più o meno largo.
La politica è dunque il campo di azione dei soggetti che lottano per il potere e che lo esercitano in modo tale da stabilire un’organizzazione della vita pubblica che risponde generalmente agli interessi più forti. Affinché un ordine politico e civile possa durare occorre però che gli interessi prevalenti risultino in ultima analisi accettabili o non sfidabili dall’insieme del corpo sociale, poiché in caso contrario nascono conflitti interni che possono condurre, nei casi estremi, alla guerra civile e alla dissoluzione della comunità.
L’uomo politico è colui il quale si dedica per un certo periodo di tempo o per l’intera sua esistenza alla politica; il leader politico colui che assume funzioni di governo o di guida di gruppi o partiti politici tesi a ottenere ed esercitare il potere.
La politica muta a seconda di dove, quando, come e da chi è esercitata: se in una piccola, media o grande comunità; se in un paese socialmente avanzato o in uno arretrato; se in un periodo storico o in un altro; se sulla base della coercizione o del consenso; se il potere supremo è conferito a un tiranno, a un monarca riconosciuto legittimo, all’assemblea di tutto un popolo oppure a un’assemblea rappresentativa (parlamento); se i soggetti dell’agire politico sono individui, oligarchie, gruppi che di volta in volta convergono per fini comuni, partiti composti da notabili o partiti di massa; se la direzione di questi partiti è di tipo chiuso e autoritario oppure aperto e democratico; se lo Stato poggia su istituzioni libere o no e se il suo assetto è centralistico, federale o confederale (federalismo).
L’asse decisivo della politica è costituito dal rapporto tra chi governa e chi è governato, dai problemi attinenti a questo rapporto, dai modi in cui li si affrontano e dalle soluzioni a essi date.
Le origini del potere in una società organizzata risalgono a molto indietro nel tempo. Ma l’esercizio dell’attività politica in una comunità di cittadini che elaborano una cultura politica e partecipano alla vita delle istituzioni in un luogo ben definito si deve ricondurre alla vita delle pòleis greche, che erano città-Stato dotate di una loro autonomia.
Sorte tra l’8° e il 7° secolo a.C., le pòleis – che conobbero forme di governo monarchiche, oligarchiche o democratiche e si basavano in genere sulla compresenza di un’assemblea, di un consiglio e di molteplici magistrature – trovarono la più alta e matura espressione politica nell’Atene di Pericle, dove gli uomini liberi (non gli schiavi), cioè i cittadini, partecipavano alla gestione della cosa pubblica secondo le procedure di una democrazia insieme diretta e rappresentativa.
Non a caso i due maggiori teorici antichi della politica furono greci. Platone, autore della Repubblica, auspicò un ordine politico fortemente unitario, fondato su una rigida gerarchia sociale in grado di evitare conflitti distruttivi.
Aristotele, autore della Politica, sostenne che l’uomo è per natura «un animale politico» e analizzò le forme di governo (monarchia, aristocrazia, politìa) e le loro degenerazioni (tirannia, oligarchia, democrazia), mostrando la propria preferenza per le forme capaci di contemperare i diversi interessi e in particolare per la politìa, caratterizzata dalla prevalenza della classe media.
Nell’età compresa tra il Quattro-Cinquecento (quando lo Stato moderno pose fine al particolarismo del feudalesimo) e le rivoluzioni americana e francese del tardo Settecento, la politica andò incontro a profondi e tumultuosi mutamenti con la comparsa di forme come l’assolutismo monarchico, il costituzionalismo liberale e la dittatura di partito.
Tutto il periodo sopra indicato vide dominare in Europa, con poche, seppure assai importanti, eccezioni, le monarchie assolute (di cui grandi esponenti furono nel Sei-Settecento Luigi XIV in Francia, Pietro il Grande in Russia e Federico II in Prussia), nelle quali il potere del sovrano non incontrava alcun limite ed era l’unica fonte della legge. Il che stava a significare che egli esercitava un vero e proprio monopolio politico in quanto i suoi ministri, consiglieri, funzionari operavano esclusivamente per sua delega in base alla sua insindacabile volontà. Questo tipo di potere impediva alla radice ogni pluralismo politico.
Le rivoluzioni contro l’assolutismo portarono prima nelle Province Unite olandesi (nel tardo Cinquecento), poi in Inghilterra (nel Seicento), infine in Francia (sul finire del Settecento) a un drastico cambiamento delle basi della politica e dei soggetti coinvolti nel processo politico. Frazioni dell’aristocrazia e ceti borghesi, sostenuti da settori popolari, posero fine all’assolutismo monarchico dando origine alle istituzioni liberali e parlamentari (in Gran Bretagna col mantenimento della monarchia, nelle Province Unite e in Francia dopo il 1792 con la repubblica).
Tali sistemi politici erano caratterizzati dalla divisione dei poteri, dal sistema rappresentativo-parlamentare, dalle libertà politiche e civili e dall’esercizio (sia pure ristretto) del suffragio.
Nella Francia rivoluzionaria il pluralismo politico e le libertà ebbero un decorso quanto mai accidentato, con sospensioni, restrizioni e soppressioni, tanto che in questo paese nel 1793-94 si affermò la prima forma moderna di dittatura assembleare, con la concentrazione di tutti i poteri nelle mani del Partito giacobino, cui fece seguito nel primo decennio del 19° secolo la prima dittatura cesaristica (da Cesare) moderna, incarnata da Napoleone Bonaparte.
La forma più compiuta di repubblica liberale trovò la sua realizzazione negli Stati Uniti d’America, dove con la costituzione federale del 1787 la politica venne resa un campo accessibile come mai in precedenza alle varie componenti del corpo sociale, fino a quando con il progressivo allargamento del suffragio il sistema assunse un carattere pienamente democratico.
I più grandi teorici della politica in età moderna furono Niccolò Machiavelli, Jean Bodin, Thomas Hobbes, John Locke e Charles-Louis Montesquieu. Essi espressero in maniere quanto mai rappresentative ma anche assai diverse i compiti della politica moderna. Machiavelli indicò quale scopo supremo della politica l’assicurare con ogni mezzo necessario la salvezza dell’ordine politico e civile – sia esso affidato a un principe o a una repubblica –, affermando la sua completa autonomia dalla morale (rivolta a regolare la condotta degli individui) e dalla religione (cui spetta di badare alla salvezza delle anime).
Il francese Bodin fu il maggiore teorico della monarchia assoluta: il sovrano, legibus solutus («sciolto dalle leggi», libero da ogni vincolo), è l’unico vero e pieno attore politico, la sola fonte della legge (che però per essere legittima deve rispettare i diritti stabiliti da Dio e dalla natura). L’inglese Hobbes, che reagì al trauma delle guerre civili scatenatesi in Inghilterra a metà del Seicento, fu anch’egli un deciso sostenitore dell’assolutismo e dell’unità dello Stato moderno, incarnato vuoi in una monarchia (cui andavano le sue preferenze), vuoi in una repubblica aristocratica o democratica.
L’inglese Locke e il francese Montesquieu furono invece critici radicali della concezione assolutistica e fautori di una teoria liberale della politica e del potere (liberalismo).
Locke sostenne che il potere deve fondarsi sugli inviolabili diritti naturali che appartengono a ogni individuo, che allo Stato spetta di essere non il padrone ma il regolatore della società civile, che l’iniziativa politica spetta alla molteplicità dei soggetti liberi e dotati di proprietà da tutelare, che non vi è libertà senza il rispetto della costituzione del regno, della rappresentanza parlamentare e della divisione del potere esecutivo da quello legislativo.
La divisione o separazione dei poteri, quale garanzia massima contro l’abuso e la corruzione del potere, fu il grande tema di Montesquieu. Da essi derivò la tradizione del costituzionalismo liberale.
Il processo di modernizzazione iniziato negli ultimi decenni del Settecento – che ha avuto le sue maggiori manifestazioni nella rivoluzione industriale, nell’avvento della borghesia capitalistica, nelle rivoluzioni americana e francese e nella formazione della classe operaia – ha cambiato profondamente i soggetti della politica.
In precedenza questa era stata un’attività condotta da sovrani, gruppi di nobili ed esponenti eminenti del ceto intellettuale, amministrativo e produttivo. Le masse, prive di diritti politici, erano intervenute sulla scena politica solo sporadicamente e in maniera subalterna, cioè a sostegno di questa o quella fazione delle classi superiori.
L’espandersi dell’industrializzazione ha mutato qualitativamente la mappa della politica in vari sensi. Nei paesi d’Europa con istituzioni liberali si è assistito tra la fine del 18° secolo e gli inizi del 20° a un progressivo spostamento della capacità di influenza politica dalla nobiltà alla borghesia (ma in Germania, nell’Impero asburgico e soprattutto nella Russia zarista il potere della nobiltà rimase molto forte fino alla prima guerra mondiale); le masse lavoratrici si sono dotate di organizzazioni che perseguivano propri fini politici; il suffragio è andato a mano a mano allargandosi, mentre le istituzioni parlamentari si rafforzavano sino a divenire le sedi preminenti della competizione per il potere.
Si è così gradualmente imposta la politica di massa, che ha i suoi attori principali nei grandi partiti popolari. La politica di massa prima che in Europa fece la sua comparsa nella prima metà dell’Ottocento negli Stati Uniti, un paese a incontrastata egemonia borghese nel quale la democrazia, in seguito al sempre maggiore allargamento del suffragio, si impose fin dalla prima metà del 19° secolo.
In questo contesto tanto in Europa quanto in America i soggetti primari dell’agire politico divennero i partiti organizzati. Le origini dei partiti risalivano all’Inghilterra settecentesca, alla Francia rivoluzionaria e agli Stati Uniti. Ma queste forme embrionali di partito restavano essenzialmente gruppi di notabili che agivano in maniera sporadica in vista della competizione elettorale per appoggiare i loro leader oppure con scopi limitati e temporanei. I partiti di notabili, composti da elementi delle classi alte e medie, continuarono a esistere in Europa fino alla prima guerra mondiale.
Nella seconda metà del 19° secolo fecero la loro comparsa i partiti di massa, di cui il primo esempio, a partire dalla Germania, furono i partiti socialisti, il cui scopo era mobilitare le masse operaie per abbattere il capitalismo, ma che in attesa della rivoluzione si impegnarono per ottenere migliori salari, riforme sociali e l’allargamento del diritto al voto. I partiti socialisti si presentavano come organizzazioni permanenti, dotate di un’ideologia strutturata e stabile, sottoposte a una struttura piramidale di potere e a una precisa disciplina. Essi operavano su scala nazionale mediante una rete diffusa di organismi per conquistare e mantenere il consenso al di là delle stesse elezioni. A creare partiti di massa, dopo i socialisti, furono anche i cattolici, che tuttavia diedero luogo a organizzazioni politiche meno strutturate e disciplinate dei partiti socialisti.
Con l’affermarsi della democrazia i partiti di massa diventarono i grandi strumenti collettivi della politica. A tenere le fila di questi partiti e a dominarli – come ebbero a notare i teorici otto-novecenteschi delle élite, quali l’americano John C. Calhoun, gli italiani Gaetano Mosca e Vilfredo Pareto, il tedesco Robert Michels, il leader del bolscevismo Vladimir I’lič Lenin – erano i leader di partito e i capi parlamentari, affiancati da dirigenti intermedi (i cosiddetti quadri) che avevano la funzione di mobilitare e dirigere le masse.
Dopo la Prima guerra mondiale i partiti di notabili divennero in Europa un’espressione del passato: nessun governo poteva reggere senza coinvolgere le masse. Nei paesi europei con istituzioni liberaldemocratiche e negli Stati Uniti la politica seguì fondamentalmente le modalità che si erano consolidate già nell’Ottocento. Ma tra gli anni Venti e Trenta presero piede in vari paesi dell’Europa, dell’America Latina e dell’Asia regimi autoritari che, anche quando non procedettero alla liquidazione dei parlamenti, limitarono fortemente la libertà di azione politica, delegandola in maniera sostanziale a ristrette oligarchie.
Una svolta decisiva in quello stesso periodo segnò l’avvento delle dittature totalitarie, la prima delle quali fu instaurata nella Russia sovietica dai comunisti e a cui fecero seguito quella fascista in Italia e quella nazionalsocialista in Germania.
Esse, tutte sorte dopo crisi catastrofiche del precedente ordine politico e sociale, ebbero in comune, nonostante le differenze, due importanti aspetti: il fatto di affidare alla politica da un lato il compito millenaristico di salvare e redimere la società (i sovietici creando il socialismo, i fascisti l’unità totale nello Stato nazionale, i nazisti l’ordine razziale mondiale) e dall’altro quello di porre fine a tutti i conflitti interni e di schiacciare gli oppositori. In questo contesto, la politica diventò monopolio del partito unico al potere e della cerchia degli oligarchi costituita intorno ai capi supremi (Stalin, Mussolini e Hitler).
Il ruolo delle masse era quello di costituire una grande base di manovra al servizio del potere dittatoriale. La politica totalitaria – secondo quanto teorizzato dal tedesco Carl Schmitt – ha risposto al principio di portare all’estremo il rapporto antagonistico ‘amico-nemico’ che sta a fondamento di ogni politica; essa intendeva inoltre plasmare in modo ‘totale’ l’uomo e la società, penetrando in ogni aspetto della vita sociale.
Dopo la sconfitta del fascismo e del nazismo nel 1945 e il crollo dell’Unione Sovietica nel 1991, i regimi democratici sono andati diffondendosi nel mondo, ma a cavallo tra il 20° e il 21° secolo sono andate emergendo forti correnti religiose fondamentalistiche – le più importanti e significative delle quali hanno messo radici nei paesi islamici e, in certa misura, in alcune componenti minoritarie dell’ebraismo – che, seguendo un’ispirazione teocratica, affidano alla politica la missione di attuare i dettami delle sacre scritture (il Corano o la Bibbia).