Specialità sportiva nella quale due contendenti si affrontano in uno spazio delimitato (detto ring o quadrato) cercando ciascuno di colpire con i pugni e di atterrare l’avversario.
Al p. nell’antichità si attribuì un’origine mitica, quale invenzione di Teseo o di Eracle. Introdotto nelle gare di Olimpia sin dal 688 a.C. e successivamente negli altri agoni greci, fu assai praticato in ambito etrusco-italico e, poi, a Roma.
In età moderna le prime notizie sulla pratica del p. risalgono alla seconda metà del 17° secolo. Agli inizi del Settecento l’inglese J. Figg all’insegnamento della scherma affiancò, nella sua scuola, quello del p., intesi entrambi come tecniche della noble art of self-defence (da cui la definizione di «nobile arte» riservata da allora al p.). Figg diede al p. le sue prime norme, sulla cui base si disputò nel 1719 il primo titolo inglese, che divenne poi anche mondiale, data l’assoluta supremazia britannica, allora, in questo sport. Modifiche e perfezionamenti rispetto alle regole di Figg avvennero nel 1743, nel 1838 e 1853. L’ultimo campione mondiale di p. a pugni nudi fu lo statunitense J.L. Sullivan, che fu anche il primo campione mondiale di p. con i guantoni (1889). Questi ultimi furono introdotti dal marchese di Queensberry, che, dopo la proibizione dei combattimenti pugilistici decretata dal governo inglese nel 1886, studiò il modo di salvare uno sport per il quale, come i suoi connazionali, nutriva enorme passione. Suggerì quindi di rivestire il pugno con un’apposita imbottitura, divise i combattimenti in assalti (riprese) di tre minuti ciascuno, con intervalli di un minuto, e stabilì che se il pugile caduto non si fosse rialzato entro 10 secondi sarebbe stato dichiarato perdente per knock out: sostanzialmente le regole tuttora vigenti, salvo talune successive modifiche, soprattutto sul numero di riprese prestabilito. I colpi classici del knock out, al mento, al fegato ecc., erano pressoché sconosciuti e prima di tali variazioni l’intento dei contendenti era quello di indebolire gradatamente l’avversario e costringerlo alla resa. I primi combattimenti con guantoni si disputavano a oltranza, proibiti solo nel 1900, quando venne stabilito un limite massimo di 20 riprese. Intanto, dal 1890, i pugili erano stati suddivisi in categorie di peso.
Fino alla prima metà del 19° sec. i combattenti non percepivano, di norma, alcun compenso. Lo spettacolo si svolgeva, anzi, di nascosto, alla presenza di un numero limitato di appassionati. Il pugile scommetteva sulla sua stessa vittoria o, più spesso, aveva una specie di finanziatore che accettava scommesse e che lo ricompensava, in caso di vittoria, con una percentuale più o meno adeguata. Solo dopo il 1860, specialmente negli Stati Uniti, gli incontri furono organizzati a pagamento e ai pugili vennero corrisposte borse fisse o commisurate agli incassi.
Nei primi decenni del Novecento le pagine più significative della storia del p. furono legate alla conquista del titolo dei pesi massimi, il più prestigioso. Nel 1908 lo statunitense J. Johnson fu il primo pugile di colore campione del mondo. Il primo, vero protagonista della storia del p. fu comunque lo statunitense J. Dempsey, detentore del titolo dal 1919 al 1926. Qualche anno più tardi, il 29 giugno 1933, l’italiano P. Carnera (➔) affrontò il campione in carica, lo statunitense J. Sharkey, sconfiggendolo per k.o. alla sesta ripresa. Conservò il titolo fino all’anno successivo quando fu sconfitto dal tedesco M. Baer. Nel 1937 il titolo fu vinto dall’afroamericano J. Louis, che lo conservò per 12 anni, difendendolo vittoriosamente per 25 volte; si ritirò imbattuto nel 1949. Tra i suoi successori si mise particolarmente in luce l’italo-americano R. Marciano (➔), che nella sua carriera non conobbe sconfitte (49 incontri, 43 vittorie per k.o. e 6 ai punti). Anche Marciano abbandonò volontariamente, nel 1956, il titolo vinto nel 1952. Nel 1960 l’afroamericano F. Patterson, già campione del mondo nel 1956, fu il primo pugile capace di riconquistare il titolo dei pesi massimi.
Gli anni 1960 e 1970 furono dominati dalla carismatica figura di C. Clay (➔), che, tra il 1964 e il 1978, conquistò il titolo per 3 volte, incontrando tutti i migliori pugili della sua epoca: da S. Liston a J. Frazier, da G. Foreman a L. Spinks. Con l’avvento di Clay, atleta dalla fortissima personalità e dall’innato senso dello spettacolo, e con la crescente diffusione del mezzo televisivo, capace di portare nelle case le immagini dei grandi incontri, il p. si avviò a divenire un fenomeno televisivo di grande richiamo, in grado di attirare l’attenzione di numerosi sponsor e di movimentare ingenti quantità di denaro. Tale tendenza proseguì nel corso degli anni 1980, che videro, dopo il definitivo abbandono di Clay (1979), dapprima l’ascesa di L. Holmes e, poi, la prepotente affermazione di M. Tyson (➔). Nel corso degli anni 1990 le figure dei grandi campioni sono progressivamente scomparse, tanto in Europa quanto in America. A livello professionistico nella categoria dei pesi massimi si è messo in evidenza lo statunitense E. Holyfield, che ha via via battuto avversari come J. Douglas, G. Foreman, L. Holmes e Tyson (per due volte); ha però perso il titolo di campione mondiale contro il britannico L. Lewis (➔) nell’ottobre 1999.
Il p. è disciplina olimpica dal 1904 (St. Louis) ed è l’unica in cui non sono ammessi atleti professionisti. Tra i più grandi pugili dilettanti di ogni tempo vanno ricordati almeno l’inglese H. Mallin, imbattuto nei circa 300 combattimenti disputati e per due volte campione olimpico (1920, 1924), l’ungherese L. Papp e il cubano T. Stevenson, vincitori entrambi di tre consecutive edizioni dei Giochi olimpici (rispettivamente nel 1948, 1952, 1956 e nel 1972, 1976, 1980).
A partire dagli anni 1970 e, ancora più, dagli anni 1980 la credibilità del p. professionistico è stata minata dalla caotica situazione venutasi a creare a seguito della proliferazione degli enti mondiali preposti all’organizzazione dell’attività pugilistica. In seno al WBC (World boxing council), fondato nel 1963, una scissione dava vita, nel 1968, alla WBA (World boxing association). Nel 1984 nacque l’IBF (International boxing federation), nel 1988, la WBO (World boxing organization) e, all’inizio degli anni 1990, la WBU (World boxing union). Parallelamente si è assistito a una proliferazione delle categorie di peso, che nel 1987 sono state codificate a 17: paglia, minimosca, mosca, supermosca, gallo, supergallo, piuma, superpiuma, leggeri, superleggeri, welter, superwelter, medi, supermedi, mediomassimi, massimi leggeri, massimi.
In Europa esiste un unico ente continentale (European boxing union), al quale aderiscono tutte le nazioni che praticano il p. professionistico. L’Italia ha un’unica federazione (Federazione pugilistica italiana, con sede in Roma, fondata nel 1916), che presiede ai due settori. Nel marzo 2001 tale federazione ha accettato il p. femminile a livello agonistico, dal 2002 anche per le professioniste. Le atlete indossano il casco protettivo e una speciale protezione per il seno. L’attività internazionale è regolamentata dagli stessi enti che governano il p. maschile.
Gli incontri validi per i campionati nazionali, europei e mondiali si disputano sulla distanza delle 12 riprese. Il quadrato (ring) sul quale ha luogo l’incontro, delimitato da corde tese da pali, deve avere una lunghezza massima di 6,10 m e minima di 4,90 m (fig. A).
Perché siano ritenuti regolari, i colpi (fig. B) debbono essere portati con i guantoni (fig. C) ben chiusi e con la parte imbottita di essi, e vibrati sulla parte anteriore e sulle parti laterali della testa e del tronco, al di sopra della cintura, e cioè al di sopra della linea orizzontale che unisce le estremità superiori delle ossa iliache. Ogni infrazione deve essere prontamente repressa dall’arbitro e influirà comunque sulla valutazione del punteggio. Per ogni ripresa devono essere assegnati 10 punti (professionisti) o 20 punti (dilettanti) al pugile che è risultato superiore; mentre all’avversario, tranne giudizio di parità, sarà assegnato un punteggio inferiore, in misura variabile da 1 a 3 punti (professionisti) o da 1 a 4 punti (dilettanti). Sarà considerato superiore il pugile che nella ripresa avrà colpito l’avversario più di quanto non sia stato colpito, valutando la precisione e l’efficacia dei colpi.
Se un pugile va a terra per colpo regolare, l’arbitro inizierà il conteggio da 1 a 10 con l’intervallo di un secondo tra ciascun numero e indicherà con le dita i secondi contati, in modo che il pugile ne abbia in ogni caso conoscenza. Se al 10 il pugile non sarà tornato in piedi per riprendere l’incontro, si avrà la sua sconfitta per k.o. Un incontro di p. può concludersi – oltre che con la vittoria ai punti di uno dei pugili o con un verdetto di parità – per abbandono di uno dei pugili; per ‘getto della spugna’, cioè di un asciugamano da parte dei secondi del pugile, che equivale a un ritiro dalla gara; per arresto del combattimento da parte dell’arbitro per manifesta inferiorità di uno dei contendenti (k.o. tecnico); per ferita; per squalifica). L’arbitro ordina il break, allorché ritiene che i pugili non possano più combattere liberamente in azioni di corpo a corpo.