Genericamente, l’operazione mediante la quale si attribuisce nuovo valore a una cosa, e il risultato che ne consegue.
L’aumento del suo potere d’acquisto rispetto a un’altra valuta estera o all’oro, in genere provocato da deflazione (attuata con il ritiro di una parte delle monete in circolazione, attraverso contrazione di prestiti, aumento di imposte o utilizzo di eventuali avanzi di bilancio, o con una politica di restrizione del credito). La rivalutazione della moneta può anche dipendere da aumento dell’attività economica, ferma restando in quest’ultimo caso la massa dei mezzi di pagamento in circolazione; perché la rivalutazione risulti effettiva occorre un’adeguata compressione dei costi e dei prezzi. La rivalutazione può essere totale o integrale, quando si ridà alla moneta il valore equivalente alla sua parità aurea prima della svalutazione, oppure parziale, quando si fissa il nuovo valore a un livello intermedio. Rappresenta il contrario della svalutazione, ossia, in seguito alla rivalutazione monetaria, è necessaria una minore quantità di valuta nazionale per acquistare una unità di valuta estera.
Nelle imprese si parla di rivalutazione dell’attivo, in riferimento all’operazione di attribuzione di maggiori valori a determinate attività patrimoniali, in confronto ai loro valori contabili, causati dal processo di svalutazione del modulo monetario, oppure da riserve occulte formatesi per effetto di un accelerato ammortamento; di rivalutazione per conguaglio monetario, in riferimento all’operazione di attribuzione di maggiori valori a determinate attività patrimoniali in conseguenza esclusivamente della svalutazione del modulo monetario.
In caso di mancato pagamento, o di pagamento ritardato della retribuzione, il lavoratore può ricorrere al Tribunale del lavoro. In alternativa all’azione giudiziaria proposta dal dipendente, la riforma delle ispezioni sul lavoro introdotta dal d. legisl. 124/2004 ha individuato procedure più celeri, come la conciliazione monocratica e la diffida. Dai crediti retributivi scaturisce l’obbligo, per il datore di lavoro, di corrispondere la rivalutazione monetaria dovuta, ai sensi dell’art. 429, co. 3, c.p.c., in base agli indici ISTAT, e gli interessi calcolati in base al tasso legale.
Con l’art. 22, co. 36, della l. 724/1994 era stato previsto che, una volta calcolati gli interessi legali sui crediti di natura retributiva, pensionistica e assistenziale, fosse possibile aggiungere la quota di rivalutazione monetaria soltanto se la stessa eccedeva l’importo degli interessi, escludendo il cumulo fra i due istituti. La sent. 459/2000 della Corte costituzionale ha però dichiarato illegittimo il suddetto articolo di legge, nella parte in cui non riconosce la cumulabilità fra interessi e rivalutazione monetaria nei rapporti di lavoro privato. Dal 1° gennaio 1995, pertanto, sui crediti retributivi vantati dal lavoratore subordinato nei confronti del datore di lavoro privato possono applicarsi sia gli interessi legali, sia la rivalutazione monetaria. Tali previsioni non esauriscono però la tutela risarcitoria accordata al lavoratore, che, assolto il relativo onere probatorio, può pretendere la rifusione del maggior danno eventualmente derivatogli. I contratti collettivi possono inoltre disporre ulteriori garanzie a favore dei dipendenti, quale la maggiorazione del tasso di interesse dovuto dal datore di lavoro per la mora.
La contrattazione collettiva, al contrario, presenta molte volte un onere di reclamo a carico del lavoratore; incombenza, questa, da esperire nei confronti del datore di lavoro entro un breve termine, pena decadenza del diritto vantato. Tali clausole sono da ritenersi valide qualora si riferiscano a diritti attribuiti dal contratto collettivo medesimo. Costituisce un limite a questa previsione l’impossibilità di apporre termini di decadenza contrattuale che rendano eccessivamente difficoltoso l’esercizio del diritto (art. 2965 c.c.).