Stati Uniti d'America
Stato federale dell’America Settentrionale, il cui territorio è suddiviso tra 50 Stati membri e il Distretto di Colombia, nel quale sorge la capitale Washington.
La Dichiarazione di indipendenza del 4 luglio 1776, sottoscritta dalle tredici colonie inglesi in Nordamerica (New Hampshire, Massachusetts, Connecticut, Rhode Island, New York, New Jersey, Pennsylvania, Maryland, Virginia, Delaware, Carolina del Nord, Carolina del Sud, Georgia), mise fine a un capitolo di storia coloniale durato complessivamente oltre un secolo e mezzo. L’impero inglese in America era infatti sorto per ragioni strategiche, ma soprattutto di espansione commerciale, ai primi del Seicento, con la fondazione della Virginia nel 1607, e si era esteso fino a coprire nel 1763, alla fine della guerra dei Sette anni, un immenso territorio che comprendeva il Canada strappato alla Francia, una serie di colonie continentali che andavano dal New Hampshire alla Georgia e un buon numero di isole caribiche. Queste ultime, grandi produttrici di zucchero, erano le più ricche; ma le colonie continentali erano realtà forti e in rapidissimo sviluppo, dove nel 1776 vivevano più di 2.000.000 di abitanti, oltre un quinto dei sudditi britannici. A nord, nell’area del New England, si trovavano le colonie sorte dall’emigrazione puritana, iniziata nel 1620 con il piccolo gruppo dei Pilgrim fathers, cui aveva fatto seguito nel 1630 una grande spedizione, organizzata per garantire un rifugio religioso ai puritani perseguitati in Inghilterra, che aveva dato vita al Massachusetts e, nel giro di pochi anni, a Connecticut, Rhode Island e New Hampshire. Qui erano nate società intensamente religiose, compatte, centrate su piccoli villaggi contadini nell’interno e marinari lungo la costa, nei quali la partecipazione politica costituiva un dovere morale. Commercio atlantico, pesca e cantieristica avevano nel tempo fatto la fortuna delle città costiere come Boston, principale centro delle colonie anche da un punto di vista culturale. Le cdd. colonie del centro erano invece etnicamente e religiosamente miste. Nella colonia di New York, presa agli olandesi nel 1664, convivevano olandesi, inglesi, scozzesi, francesi, tedeschi e ogni sorta di chiesa e setta protestante. La Pennsylvania, pur fondata nel 1681 da W. Penn come luogo di rifugio dei quaccheri, si era sviluppata attraverso l’immigrazione di tedeschi renani fuggiti nel corso delle guerre di Luigi XIV. La ricchezza delle colonie del centro si fondava sull’agricoltura cerealicola nei grandi bacini dei fiumi Hudson e Susquehanna, i cui prodotti, attraverso i porti di New York e Filadelfia, fluivano verso il Sud e le isole caribiche. A partire dal Maryland, nella Baia del Chesapeake, iniziavano le colonie del Sud, dove la presenza del tabacco aveva fatto sorgere il sistema di piantagione fondato sulla schiavitù dei neri. I piantatori, attivi uomini d’affari pur se culturalmente legati all’ideale del signore di campagna inglese, rappresentavano il fulcro delle società sudiste, costituite in maggioranza da piccoli agricoltori proprietari, che non possedevano schiavi, ma che consideravano giusta la schiavitù ed erano pronti a difenderla per difendere la propria libertà e autonomia. Pur tanto diverse fra loro, le colonie lo erano ancor di più rispetto all’Inghilterra. Popolate in maggioranza da perseguitati, sconfitti, emarginati, visionari e avventurieri, non solo inglesi, accettati perché la redditività economica delle colonie dipendeva dal rapido aumento della popolazione, vi nacquero società molto meno gerarchiche e più individualiste di qualunque società europea dell’epoca. L’impero inglese, inoltre, non era governato dal centro in modo burocratico come quello spagnolo e francese. Ragioni costituzionali e il prevalere nella classe dirigente britannica di un’idea commerciale piuttosto che territoriale di impero avevano fatto sì che le colonie nascessero come concessioni territoriali a fini economici fatte dal re a privati. Il potere conferito dalle Carte regie ai concessionari di governare chi vi immigrasse, garantendo loro i diritti di sudditi inglesi, trasformò le colonie in entità politiche autonome sul piano interno e dotate di organismi rappresentativi esemplati sul Parlamento inglese. L’impero era governato unitariamente solo in campo economico, in quanto il Parlamento britannico, che aveva diritto di regolamentare le attività economiche dei sudditi inglesi ovunque fossero, con i cdd. Atti di navigazione fece dell’impero un sistema commerciale compatto, posto al servizio della madrepatria. Il Trattato di Parigi del 1763, che mise fine alla guerra dei Sette anni, liberò gli americani dalla pericolosa presenza francese a nord e nord-ovest; nonostante la vittoria il governo britannico era invece preoccupato per l’enorme debito pubblico accumulato durante la guerra e perché l’immenso impero creava problemi che richiedevano costosi interventi centrali. Quando, nello stesso 1763, la torrentizia avanzata dei pionieri sulla frontiera e l’incapacità dei governi coloniali di regolarla provocò una terribile rivolta indiana nel Nord-Ovest, re Giorgio III intervenne con un proclama che bloccava la penetrazione nelle terre indiane e il Parlamento, per finanziare l’amministrazione imperiale e mantenere truppe lungo la frontiera, approvò nel 1765 lo Stamp act. La reazione a questa legge, che istituiva una tassa di bollo sui giornali e i documenti, fu immediata e rabbiosa, non tanto per l’onere finanziario, modesto, quanto perché le colonie non erano mai state soggette a imposizione fiscale da parte del Parlamento britannico, in cui i coloni non erano rappresentati. Lo Stamp act, a loro dire, violava il principio costituzionale del «no taxation without representation». La risposta inglese fu che il Parlamento rappresentava la nazione e quindi, virtualmente, tutti i sudditi inglesi ovunque si trovassero. Le due posizioni rimasero distanti, pur se lo Stamp act, al pari di successive leggi, fu abrogato sotto la spinta dei mercanti inglesi, che temevano il boicottaggio delle loro merci da parte degli americani. Contro la stessa volontà delle parti, la situazione lentamente si deteriorò. Gli inglesi si convinsero di non poter più lasciare ai coloni i loro tradizionali poteri di autogoverno e questi ultimi crearono una rete di gruppi politici, i Sons of liberty, collegati fra loro tramite comitati di corrispondenza, per resistere alla «tirannia» (secondo alcune teorie radicali diffuse allora nelle colonie, in Inghilterra era in atto una diabolica cospirazione contro la libertà e il virtuoso popolo americano doveva vigilare contro l’inarrestabile tendenza di tutti i governanti a diventare tiranni). Quando nel 1774 il governo inglese decise di sospendere il governo del Massachusetts e di chiudere il porto di Boston come punizione contro le attività dei Sons of liberty, gli americani risposero sostituendo quasi ovunque i governi coloniali con altri provvisori e convocarono un Congresso continentale di tutte le colonie per decidere unitariamente le azioni da intraprendere contro Londra. Nel 1775 iniziarono scontri militari attorno a Boston, che per un anno venne assediata dalle forze americane sotto il comando del virginiano G. Washington, mentre si compivano inutili tentativi di raggiungere un compromesso. Trascinato dall’enorme successo popolare di Common sense, un pamphlet di un radicale inglese appena giunto in America, T. Paine, che chiedeva l’indipendenza, il 4 luglio 1776 il Congresso approvò la Dichiarazione di indipendenza stilata da un altro virginiano, T. Jefferson; in essa si proclamavano i diritti naturali alla vita, libertà e felicità, il principio della sovranità popolare e il diritto dei popoli alla rivoluzione e all’indipendenza. La guerra che seguì fu lunga e drammatica. Gli inglesi, che avevano l’assoluto dominio del mare e un esercito professionista, conquistarono New York nello stesso 1776 e poco dopo Filadelfia, dimostrando che la Continental army americana non era in grado di affrontarli in campo aperto. G. Washington riuscì però a mantenere operativo il suo piccolo esercito e le tante, spesso vittoriose offensive inglesi si dimostrarono a poco a poco inutili contro un nemico che combatteva una guerra di popolo in un Paese immenso e selvaggio in cui conquistare territori e città contava poco. Sconfitti una prima volta nel 1777 a Saratoga Springs, dove un loro esercito proveniente dal Canada dovette arrendersi, spossato dalla guerriglia americana nei boschi (evento che provocò l’intervento della Francia a fianco dei ribelli), gli inglesi subirono una decisiva disfatta a Yorktown quattro anni dopo a opera di Washington, coadiuvato da un contingente francese sotto il comando del marchese di Lafayette. Stanca, preoccupata che la Francia si impadronisse del mercato americano, l’Inghilterra nel 1783 finì con l’accettare l’indipendenza americana.
Gli USA, riconosciuti sovrani su un territorio in buona parte non colonizzato, che andava dall’Atlantico al Mississippi, avevano istituzioni politiche deboli. Il Congresso continentale era stato solo un organo di coordinamento politico e militare degli Stati e gli Articoli di confederazione, ratificati nel 1781, non avevano creato un governo centrale, riconoscendo così che la Rivoluzione era stata promossa dagli Stati e che questi, che si erano già dati costituzioni fondate sulla sovranità popolare, erano i protagonisti della scena politica; tale situazione garantiva le differenze fra di loro e rispondeva ai sentimenti repubblicani del popolo, il quale temeva un governo lontano e incontrollabile. Di diverso avviso era un’élite di uomini nuovi, formatisi nella Rivoluzione, nazionalisti e attenti al ruolo degli USA in un mondo di grandi potenze. I tentativi di Francia e Gran Bretagna di impadronirsi del commercio americano con una politica neocoloniale, che tendeva a dividere i singoli Stati, li convinse della necessità di cambiare le istituzioni. Essi riuscirono a far sì che il Congresso continentale convocasse una Convenzione per modificare gli Articoli e la trasformarono in un’assemblea costituente. Nell’estate del 1787 a Filadelfia, G. Washington, A. Hamilton, J. Madison e B. Franklin guidarono la Convenzione verso la stesura di una nuova Costituzione, da sottoporre a ratifica popolare negli Stati. Le difficoltà erano molte, per il timore degli Stati piccoli o senza frontiera, come il New Jersey o il Massachusetts, di essere schiacciati da quelli grandi e popolosi come la Virginia e il New York, ovvero per l’avversione dei delegati nordisti verso la schiavitù. Dai molti, ponderati compromessi uscì una struttura statuale innovativa, fondata sulla divisione dei poteri, sul presidenzialismo (che garantiva una forte direzione politica) bilanciato dal federalismo (assegnazione al governo centrale solo di poteri specificamente elencati), su un potere legislativo in cui al Senato, che rappresentava gli Stati paritariamente, si affiancava una Camera dei rappresentanti eletta in base alla popolazione, e su un riconoscimento indiretto della schiavitù, mitigato dal fatto che la tratta era ammessa solo fino al 1808. Fra il 1787 e il 1788 la Costituzione fu ratificata dagli Stati e Washington fu unanimemente eletto presidente degli Stati Uniti d’America. A differenza di quanto avvenuto in Francia, in Nord America furono gli stessi leader della Rivoluzione a guidare il Paese dopo l’indipendenza, anche se nel definire il futuro del Paese si verificarono divisioni profonde, simboleggiate dallo scontro fra Hamilton e Jefferson. Il primo, ministro del Tesoro e uomo forte del governo Washington, rafforzò i poteri del governo federale (interpretandoli estensivamente con la teoria dei «poteri impliciti») e con la sua politica monetaria creò un nucleo forte di banchieri e uomini d’affari che spingessero il Paese lungo la via di un rapido sviluppo. Così facendo provocò le dimissioni del segretario di Stato Jefferson; questi riteneva la Costituzione troppo centralista e oligarchica e nel 1791 aveva fatto approvare dal Congresso i primi dieci emendamenti, per dare garanzia costituzionale ai diritti dei cittadini. Vicino alle idee della Rivoluzione francese, egli si oppose a Hamilton anche in politica estera, rifiutando l’avvicinamento alla Gran Bretagna voluto da quest’ultimo per rafforzare il commercio americano. Jefferson, sebbene assurto a simbolo di una tradizione democratica opposta a quella capitalista di Hamilton, quando nel 1801 assunse la presidenza non ne modificò la politica di sviluppo, ma cercò di riequilibrarla a favore del popolo. Ridusse quindi le già limitate funzioni del governo federale, in modo da rafforzare i poteri degli Stati e nel 1803 inaugurò la politica di espansione territoriale degli USA acquistando da Napoleone l’inesplorato territorio della Luisiana a ovest del Mississippi, con lo scopo di farne una riserva di terre ove gli agricoltori potessero espandersi, evitando di inurbarsi e di finire, secondo una sua espressione, «nella misera condizione delle plebi europee». Dopo l’acquisto della Luisiana, un fiume di pionieri si rovesciò verso ovest, oltre gli Appalachi, e a metà secolo il territorio fra questi e il Mississippi era tutto suddiviso in Stati. Per un breve periodo, fra il 1810 e il 1825, parve addirittura che il baricentro della nazione si stesse spostando nel bacino del «padre delle acque», su cui gravitava un’immensa e ricchissima area agricola. Se la frattura fra Est e Ovest parve per un momento costituire un pericolo, quella fra Nord e Sud lo divenne in modo ben più drammatico. A partire dalla fine del Settecento gli Stati del basso Sud, spinti dalla Rivoluzione industriale inglese, erano passati dalla coltivazione del tabacco a quella del cotone e poco dopo il basso Mississippi divenne il centro della produzione cotoniera. Il boom del cotone rafforzò la natura schiavista del Sud e gli schiavi, con la tratta fino al 1808, poi con l’importazione clandestina, crebbero dagli oltre 500.000 dell’epoca rivoluzionaria a 1.500.000 nel 1820, sino a diventare oltre 4.000.000 nel 1860. La maggioranza della popolazione bianca continuava a non possederne, ma nessuno ignorava che la piantagione fosse il fulcro del sistema sudista, per cui attaccare la schiavitù implicava anche attaccare la prosperità dei tantissimi piccoli proprietari contadini. A partire dal 1820 alcuni teorici sudisti, che in precedenza parlavano della schiavitù come di un «male necessario», presero a difenderla come un fatto positivo, che forniva lavoro e protezione ai neri (considerati appartenenti a una «razza fanciulla», condannata anche dalla Bibbia) e che, consentendo la vita di una società di agricoltori autonomi, evitava al Sud la «schiavitù industriale» che essi affermavano si stesse affacciando nel Nord. Il Sud guardava con preoccupazione al Nord, riversatosi anch’esso in massa nel bacino del Mississippi: un’ondata di contadini provenienti dal New England puritano aveva infatti reso il Middle West il centro granario della nazione. Ricchi mercanti dello stesso New England, intanto, cominciavano ad aprire fabbriche tessili e davano il via al processo di industrializzazione, facilitato dalla presenza di capitali e di un mercato urbano, dal bisogno di manufatti del Sud e dalla manodopera fornita dagli immigrati, irlandesi, tedeschi e scandinavi. Verso il 1840 le ferrovie fornirono un ulteriore impulso all’economia, unificando il mercato nordista e facendo dell’industria siderurgica uno dei motori dello sviluppo, tanto che nel 1860 il Nord, con un prodotto interno per oltre il 50% di provenienza non agricola, aveva terminato la sua Rivoluzione industriale. Nella prima metà dell’Ottocento, mentre la frattura fra Nord e Sud si allargava, il processo di democratizzazione accomunava il Paese. L’impetuosa, velocissima crescita accelerò l’allentamento dei vincoli sociali, il crollo di gerarchie tradizionali e la nascita di un movimento dal basso, rozzo, spesso violento, ma espressione di una genuina libertà popolare, che coinvolse società e politica ed eresse l’individuo a giudice di ogni cosa. A partire dalla fine degli anni Venti sorsero partiti dalla base popolare molto ampia, radicati nel territorio, retti da uomini nuovi, che chiesero e ottennero, Stato dopo Stato, il suffragio universale maschile e nel 1828, con il Democratic party (➔ Partito democratico), portarono alla presidenza un candidato che impersonava al meglio la nuova età, A. Jackson. Uomo della frontiera, eroe di molte guerre indiane, vincitore degli inglesi a New Orleans, alla fine di un secondo, sfortunato conflitto con la Gran Bretagna, Jackson divenne il campione dell’«uomo comune» contro le aristocrazie sociali e del denaro. In questo senso vanno lette la democratizzazione della burocrazia con l’assegnazione dei posti pubblici a uomini del partito che vinceva le elezioni (spoils system), la distruzione della Banca degli Stati Uniti, cardine dell’oligarchia hamiltoniana, e la deportazione di decine di migliaia di indiani oltre il Mississippi per far posto ai contadini bianchi. La democrazia americana analizzata negli anni Trenta da C.A.H.C. de Tocqueville non si adeguava agli alti ideali della teoria politica; ma era vitale, cosciente di sé e certa del suo «destino» di rendere il continente nordamericano cristiano e democratico: nel 1823 il presidente Monroe enunciò la Dottrina secondo cui l’Europa non aveva più diritto di intervenire negli affari degli Stati americani, mentre, in nome della democrazia, il Texas venne strappato al Messico, cui apparteneva, da una rivolta di coloni yankee (1836). Gli USA, ottenuto il Nord-Ovest dall’Inghilterra, nella guerra contro il Messico del 1846-48 tolsero a quest’ultimo l’intero Sud-Ovest e la California. Nel 1850, di conseguenza, gli USA si estendevano dall’Atlantico al Pacifico, anche se le grandi pianure centrali e le Montagne Rocciose restavano non colonizzate e semisconosciute. Il conflitto di culture e di interessi fra Nord e Sud, reso vieppiù evidente dagli opposti modi di sviluppo, venne esacerbato dalla disputa sul futuro schiavista o meno da dare ai nuovi Stati dell’Ovest, su cui vennero trovati a fatica due compromessi, nel 1820 sul Missouri e nel 1850 sui territori presi al Messico (la California fu ammessa subito nell’Unione come Stato non schiavista; per gli altri territori il Congresso non pose limitazioni alla schiavitù, demandando ogni decisione in proposito ai loro abitanti). Fra queste due date, la nascita del movimento abolizionista a Nord, guidato da uomini come W.L. Garrison e lo schiavo fuggitivo Frederick Douglass, e il crescente senso di isolamento del Sud, nutrito dal terrore che rivolte di schiavi come quella di N. Turner del 1831 fossero il preludio a una ribellione generale, resero impossibile ogni duratura prospettiva di accordo. Negli anni Cinquanta la situazione precipitò, a causa della lotta fra pionieri del Nord e del Sud che insanguinò il Kansas, del progressivo allontanarsi dei democratici nordisti da quelli del Sud e della nascita nel Middle West del Republican party (➔ Partito repubblicano), contrario alla schiavitù perché riteneva che democrazia e progresso fossero legati al valore morale del lavoro e all’iniziativa individuale degli uomini liberi. Si giunse così alle elezioni presidenziali del 1860 in un clima infuocato da alcune decisioni della Corte suprema, a maggioranza schiavista, tese a impedire l’affrancamento degli schiavi fuggitivi e dal raid di J. Brown, che nel 1859, in nome della Bibbia, aveva attaccato un arsenale federale a Harper’s Ferry per iniziare da lì una campagna militare di liberazione degli schiavi. Quando i democratici, irrimediabilmente spaccati, presentarono due candidature, la vittoria divenne alla portata del repubblicano A. Lincoln. Questi, che aveva costruito la sua carriera politica sulla frontiera dell’Illinois, era un grande oratore, popolaresco e ironico nei toni, ma preciso nei contenuti, che univa una sentita cultura protestante a un’estrema fiducia nel progresso scientifico ed economico e che rappresentava al meglio le idee del Partito repubblicano. Sebbene contrario all’abolizione immediata della schiavitù, il suo appoggio alla tesi che occorreva vietarla in tutti i territori di frontiera per iniziarne la graduale estinzione lo rendeva inaccettabile ai sudisti. La sua vittoria portò quindi all’immediata uscita della Carolina del Sud dall’Unione, e quando Lincoln assunse la presidenza (marzo 1861), gli Stati del basso Sud avevano già dato vita alla Confederazione ed eletto presidente J. Davis del Mississippi. Le due parti, impegnate a rafforzarsi e a cercar di attrarre a sé gli incerti Stati di confine, evitarono il conflitto fino ad aprile, quando il bombardamento di Fort Sumter, un piccolo forte federale nella baia di Charleston, nella Carolina del Sud, aprì le ostilità. Il Sud, enormemente inferiore per popolazione (meno di 7 milioni di bianchi contro gli oltre 20 del Nord) e privo di una struttura industriale, contava sull’appoggio delle nazioni europee che avevano bisogno del suo cotone e supplì alla propria debolezza con l’assoluta dedizione dei suoi uomini, l’adesione che gli venne da gran parte degli ufficiali di carriera statunitensi, la capacità del governo di costruire un’industria bellica e l’abile strategia difensiva per linee interne dei suoi comandanti, tendente a stancare il nemico e a fargli accettare la secessione. Il Nord, costretto a una guerra d’attacco su un fronte immenso, mise lentamente a punto la sua macchina bellica e a poco a poco schiacciò il Sud (che la Gran Bretagna non appoggiò) con il blocco navale e con una guerra di logoramento in cui rimpiazzare uomini e materiali era più importante che vincere battaglie. La guerra civile, che provocò oltre 600.000 morti, fu un preludio alle guerre novecentesche, non tanto per le armi usate, quanto perché i contendenti tennero in campo armate di centinaia di migliaia di uomini, usarono in modo massiccio il telegrafo e la ferrovia e mobilitarono tutte le risorse nazionali. Dopo due anni di alterne vicende militari e i proclami di Lincoln (sett. 1862 e febbr. 1863) sull’emancipazione degli schiavi (un impegno politico più che una misura reale), la sconfitta del generale sudista R.E. Lee a Gettysburg (3 luglio 1863) e la conquista il giorno successivo del caposaldo confederato di Vicksburg, che sbarrava il Mississippi, a opera del generale U.S. Grant segnarono la svolta della guerra. Dopo di allora e fino al 9 apr. 1865, quando Lee si arrese a Grant, si assistette solo alla lenta, disperata agonia del Sud.
Gli USA dovettero affrontare l’immediato dopoguerra senza la guida di Lincoln, assassinato da un irriducibile sudista cinque giorni dopo la resa di Lee. Davanti alla resistenza sudista ad accettare la fine della schiavitù, il Congresso assunse un atteggiamento vieppiù punitivo, che portò a una nuova occupazione militare del Sud e alla sua «Ricostruzione» politica, che fece leva sull’attività dei neri inquadrati nel Partito repubblicano. Questa mossa, e l’approvazione fra il 1865 e il 1870 del 13°, 14° e 15° emendamento, che vietavano la schiavitù e concedevano cittadinanza e diritti civili e politici ai neri, furono senza dubbio significative; ma il rifiuto del Congresso di espropriare terre sudiste per darle agli ex schiavi le vanificò. L’ingresso dei neri in politica consentì al Partito repubblicano, dominante nel Nord, di radicarsi anche nel Sud; i bianchi locali, massicciamente democratici, vi videro il tentativo di piegarli per sempre al dominio settentrionale e ricorsero anche al terrore di organizzazioni come il Ku-Klux Klan per impedire il voto ai neri. Nel 1867, a fronte dell’accanita resistenza sudista alla Ricostruzione, i repubblicani lasciarono ai bianchi il controllo degli affari interni del Sud, in cambio del riconoscimento della leadership economica nordista a livello nazionale. L’aggressivo capitalismo nordista, in alleanza con i repubblicani, in quarant’anni rese gli USA la prima nazione industriale del mondo. Fattore trainante dello sviluppo fu la costruzione di una rete ferroviaria che nel 1915 sfiorava i 400.000 chilometri e vantava cinque linee transcontinentali. Le ferrovie, infatti, consentirono in poco più di vent’anni la colonizzazione delle grandi pianure, lo sfruttamento minerario delle Montagne Rocciose, la nascita di una gigantesca industria siderurgica e soprattutto la trasformazione dei preesistenti mercati regionali in un unico sistema economico continentale. L’integrazione e la verticalizzazione dell’economia andarono di pari passo con la nazionalizzazione della società, che si trasformò da una rete di comunità locali fortemente autonome in una struttura classista, la cui rigidità era temperata dal decentramento politico e dalle opportunità di avanzamento economico. Le classi dirigenti tradizionali (medi imprenditori, ministri di culto, professionisti), i contadini proprietari e la piccola, ma orgogliosa classe degli operai specializzati del Nord-Est vennero marginalizzati dall’arrivo sulla scena di uomini nuovi, geniali e privi di scrupoli, che crearono imperi industriali e si posero al vertice di una piramide sociale alla cui base vi erano un proletariato e un sottoproletariato formati in buona parte da immigrati. Neri e nativi americani vennero addirittura esclusi da questa piramide. Nonostante episodi quali il massacro della colonna di G. A. Custer da parte di Sitting Bull e Crazy Horse nel 1876, la lotta dei nativi era senza speranza. Dopo il 1890, chiusi nelle riserve, essi non rappresentavano più un pericolo. Nel Sud, intanto, gli ex schiavi, privi di ogni prospettiva economica, tornarono nelle piantagioni con contratti di mezzadria che comportavano un vero e proprio servaggio. In sovrappiù, una serie di leggi approvate nei singoli Stati a partire dal 1887 (le cosiddette Jim Crow laws) trovò il modo di privarli dei diritti politici riconosciuti dal 15° emendamento e mise a punto il sistema della segregazione razziale. Vittime principali della verticalizzazione della società bianca furono gli agricoltori e la loro visione moralista e tradizionale della vita. I contadini delle grandi pianure, costretti dal mercato a una monocoltura cerealicola di cui non reggevano i costi, si ribellarono e nel 1891 formarono il People’s party per ripristinare i valori protestanti, lottare contro i monopoli ferroviari che li strangolavano e ottenere una politica economica inflazionistica che alleviasse i loro debiti. La loro lotta però andò incontro alla sconfitta nel 1896, quando il candidato democratico alla presidenza, W.J. Bryan, un radicale agrario da essi sostenuto, venne sconfitto perché il suo tradizionalismo non ottenne l’appoggio delle classi urbane, ormai integrate nella società industriale. Pur trovandosi al fondo della piramide sociale, gli oltre 20 milioni di immigrati che giunsero soprattutto dall’Europa sudorientale fra il 1880 e la Prima guerra mondiale erano invece interni alla nuova realtà. In maggioranza italiani, polacchi ed ebrei, necessari alla grande industria, ma giudicati inassimilabili e pericolosi per la democrazia in quanto serbatoio di voti per i corrotti boss politici urbani, essi resistettero ai programmi di americanizzazione e facendo leva sulla compattezza del gruppo etnico non solo si ritagliarono un proprio spazio, ma parteciparono a formare la cultura del Novecento americano. La presenza degli immigrati incise anche sulla natura e sulle lotte della classe operaia, divisa fra operai specializzati delle «vecchie» etnie inglese, tedesca e irlandese e operai comuni di quelle nuove. I primi, fedeli all’orgoglio di mestiere e all’individualismo repubblicano, non si consideravano proletari, mentre i secondi trovavano nelle reti etniche e nelle strutture religiose un aiuto e un punto di riferimento più diretti di ogni richiamo alla solidarietà proletaria. Di conseguenza, la maggiore centrale sindacale, la American federation of labor (AFL), sorta nel 1886, che organizzava solo gli operai specializzati in sindacati di mestiere, rifiutò ogni richiamo classista. Le lotte operaie americane, pur durissime e spesso sanguinose, non confluirono come in Europa nel movimento socialista e il Socialist party of America, costituitosi ufficialmente nel 1901 sotto la leadership carismatica di E.V. Debs, vi prese parte, ma non riuscì mai a diventarne la guida. La vittoria del repubblicano W. McKinley nel 1896 parve mettere il Paese nelle mani del grande capitale. Magnati (tycoons) come il re dell’acciaio A. Carnegie, del petrolio N. Rockefeller, delle ferrovie B.H. Hill e della finanza P. Morgan procedettero alla ristrutturazione oligopolistica dell’economia, tanto che nel 1904 un’indagine rivelò che il 40% della produzione industriale era nelle mani di 318 holding, il 95% delle ferrovie era controllato da sei giganteschi gruppi e la siderurgia dipendeva dalla U.S. Steel. Nel momento del suo trionfo il capitalismo monopolistico e finanziario dovette però subire l’attacco del progressismo, un movimento che rifletteva sia le radici protestanti che l’anima industriale degli Stati Uniti. Spaventati dalla corruzione e dai pericoli per la democrazia provocati dall’alleanza fra businessmen nazionali e locali e boss politici, e fra questi e gli immigrati, i progressisti proposero una serie di riforme destinate a «riportare il potere al popolo» e a ripristinare la moralità attraverso l’efficienza, un ideale tipico della cultura scientista dell’epoca. Attaccarono quindi i partiti a livello locale, inventando la figura del city manager, un tecnico che sostituiva sindaco e giunta, a livello statale, con l’introduzione dei referendum legislativi e delle primarie, e a livello nazionale con il 16° emendamento (1912), che statuì l’elezione popolare diretta dei senatori. I progressisti si fecero inoltre promotori di leggi antitrust e di una legislazione sociale a protezione dei lavoratori che mancava totalmente: un complesso di norme che modernizzò il Paese senza alterarne gli equilibri, secondo una linea politica moderata che rispecchiava l’appartenenza al ceto medio dei progressisti e la maturità raggiunta dalla middle class statunitense. Il progressismo aveva un’anima tecnocratica e nazionalista e una individualista ed etica, che si trovano riflesse nei due presidenti che lo incarnarono, T. Roosevelt e W. Wilson. Presidente dal 1901 al 1909, nazionalista, Roosevelt riteneva che la presidenza avesse il ruolo di controllare che gli interessi privati non prevaricassero quello pubblico. Per questo, sebbene favorevole ai grandi trust, che giudicava portatori di efficienza e progresso, si propose di regolamentarli con organismi tecnici di controllo e, in nome dell’interesse nazionale, inaugurò una politica di difesa dei consumatori con il Pure food and drugs act del 1906. Altrettanto incisiva fu la sua azione in politica estera. Roosevelt era un espansionista che aveva organizzato un reggimento volontario per partecipare alla guerra ispano-americana del 1898, voluta dall’opinione pubblica per aiutare Cuba, che si era ribellata agli spagnoli. Dopo la facile vittoria americana, Cuba rimase nell’orbita politica degli USA, che occuparono due altre ex colonie spagnole, Puerto Rico e le Filippine, e nel 1900 si annetterono le Hawaii. Roosevelt, fautore di una politica di forte ingerenza negli affari latinoamericani, completò l’opera «inventando» una rivoluzione nella provincia colombiana di Panama che, divenuto Stato indipendente, cedette agli USA per 99 anni una striscia di territorio su cui costruire l’omonimo canale. Gli Stati Uniti assursero così a un ruolo internazionale all’altezza della loro potenza economica. Le presidenziali del 1912 videro ancora in campo Roosevelt, alla testa di un partito da lui fondato, il Progressive party, contro il suo successore repubblicano alla presidenza, W.H. Taft, e il candidato democratico W. Wilson, cui arrise la vittoria. La presenza di due candidati progressisti dimostrava la forza del movimento, anche se Wilson rifiutava, in linea di principio, l’espansionismo rooseveltiano e intendeva ripristinare l’individualismo distruggendo i trust, invece di regolamentarli. Nonostante una serie di leggi di riforma, come quella che nel 1913 mise ordine nella politica monetaria istituendo il Federal reserve system, le due presidenze di Wilson furono segnate soprattutto dalla politica estera. Prima la Rivoluzione messicana, in cui i suoi interventi vennero letti da tutti i messicani come un’interferenza e portarono solo a risultati imbarazzanti, poi la Prima guerra mondiale. Nel 1914 Wilson dichiarò la neutralità statunitense e la mantenne fino alla primavera del 1917, cercando nel frattempo di proporsi come mediatore fra le parti; ma i suoi sforzi furono vani. L’opinione pubblica, disgustata dalla guerra sottomarina tedesca, che provocava molte vittime civili, si avvicinò ai Paesi dell’Intesa, con i quali le banche e l’industria bellica americane facevano enormi affari. La Germania rifiutò ogni mediazione e il 6 aprile 1917, ormai certo che la vittoria delle potenze centrali, militariste e autocratiche, sarebbe stata un disastro per gli USA, Wilson dichiarò la guerra. L’apporto statunitense alla vittoria dei Paesi dell’Intesa fu decisivo per gli enormi rifornimenti che questi ultimi ricevettero e significativo anche sotto il profilo militare (oltre un milione di americani parteciparono alle battaglie del 1918). Alla Conferenza di pace di Versailles, Wilson si trovò, quindi, in una posizione di forza e cercò di usarla per far accettare una pace basata sui suoi quattordici punti, che culminavano nella proposta di creazione della Società delle nazioni. Egli fu costretto a cedere a molte richieste degli Alleati, che violavano soprattutto il principio di autodeterminazione dei popoli; ma impose la Società delle nazioni, che riteneva indispensabile per mantenere in futuro la pace. Nell’estate 1919 poté quindi tornare in patria certo di aver fatto degli USA non solo la prima potenza mondiale, ma anche il garante di un pacifico ordine internazionale.
Il Paese che Wilson trovò tornando dalla Francia era molto diverso dagli USA del 1917. L’opinione pubblica si riteneva tradita dall’egoismo nazionalista dimostrato dagli alleati europei a Versailles ed era spaventata dalla Rivoluzione bolscevica. In queste condizioni, la battaglia di Wilson per la ratifica del Trattato di Versailles, e in particolare del Covenant della Società delle nazioni, in cui egli scorgeva un momento di rigenerazione della politica internazionale, così come la rinnovata combattività dei sindacati e dei progressisti, che interpretavano la vittoria come uno stimolo a proseguire nel rinnovamento della società, finirono travolte da un violento ritorno conservatore. Nel 1919-20, il biennio della «paura rossa», si consumarono la vicenda di Wilson, politicamente e fisicamente distrutto dalla mancata ratifica del trattato a opera di un Senato che abbandonava l’internazionalismo, nonché la parabola storica del progressismo. Il timore della sovversione, alimentato da uno sciopero della polizia di Boston nel 1919, aiutò infatti il padronato a bloccare il tentativo di sindacalizzare il simbolo del capitalismo americano, l’industria siderurgica, e inflisse all’AFL una sconfitta che le tolse buona parte della sua forza politica. Nel contempo, si scatenò una caccia ai «sovversivi», che portò alla persecuzione di centinaia di comunisti, alla distruzione degli Industrial workers of the world (organizzazione sindacale di tendenze anarchiche, nata nel 1905 per unire i lavoratori non specializzati) e che culminò nella condanna a morte degli anarchici Sacco e Vanzetti nel 1921. Le presidenziali del 1920, in cui venne per la prima volta applicato il 19° emendamento, che dava il voto alle donne, videro il trionfo del candidato repubblicano W.G. Harding, che aveva svolto una campagna elettorale all’insegna del ritorno del Paese alla «normalità» e ai valori tradizionali e che ottenne anche il consenso femminile. Ebbero così inizio i roaring Twenties, i «ruggenti» anni Venti, definizione che riflette il carattere contraddittorio del decennio, un periodo al tempo stesso di conservazione e di travolgente innovazione, che chiuse i conti con l’Ottocento. Gli anni Venti furono infatti segnati da una volontà di lotta contro la modernità che trovò espressione nel proibizionismo, un’antica battaglia progressista vinta con il 18° emendamento del 1919 in un clima di moralismo conservatore, e nelle leggi del 1921, 1924 e 1927, che realizzarono il progetto dei nativisti (fautori di una politica discriminatoria nei confronti degli stranieri e degli immigrati più recenti) di salvare l’identità americana bloccando la nuova immigrazione (quella dall’Italia venne ridotta da 220.000 unità nel 1921 a 40.000 nel 1922 e a 18.000 nel 1929). Allo stesso clima appartiene la rinascita del Ku-Klux Klan, che rivolse la sua azione non solo contro i neri, ma anche contro cattolici ed ebrei, e divenne una forza capace di condizionare la politica in molti Stati, non solo nel Sud. Contemporaneamente però giunse a maturazione una nuova percezione del consumo, sentito come espressione di libertà ed estrinsecazione del sé, che fece imboccare strade del tutto nuove all’America urbana. Il boom economico prodottosi negli anni Venti fu guidato dalle industrie dei beni di consumo, da nuove strutture e modi del commercio, dalla pubblicità, dall’industria dei divertimenti di massa e mutò gli stili di vita degli statunitensi a spese delle spinte tradizionaliste. La donna entrò massicciamente nel mercato del lavoro e assunse un ruolo indipendente, la famiglia divenne meno numerosa, la morale più rilassata e musica, cinema, sport, moda, divertimenti entrarono nella vita quotidiana. La crescita del PIL da 84 a 103 milioni di dollari in assenza di inflazione, l’aumento del reddito medio pro capite da 543 a 716 dollari e quello della produzione industriale di oltre il 60% danno il senso di uno sviluppo che non poté essere raggiunto tornando semplicemente dal progressismo al capitalismo selvaggio. La produzione di massa aveva bisogno di pianificazione, che venne perseguita con l’autoregolamentazione delle forze economiche tramite accordi di mercato fra le imprese, raccolte in consorzi (trade associations) di settore e regionali. Da tale sistema il Governo non era escluso, in quanto esso solo poteva mediare fra gli interessi e creare il clima giuridico e amministrativo favorevole alla cooperazione fra le aziende; non per nulla ne fu artefice H.C. Hoover, ministro del Commercio e uomo forte dei governi di tutto il decennio, che lo teorizzò come una terza via fra capitalismo e socialismo. Il conservatorismo degli anni Venti non consistette quindi in un ritorno al laissez faire, ma in un uso innovativo del potere da parte delle forze economiche, appoggiato a un conservatorismo politico che ne mascherava gli aspetti modernizzanti più radicali. Ancor più del presidente Harding, fu C. Coolidge, che gli successe alla sua morte nel 1923, a incarnare gli ideali conservatori. Coolidge, l’uomo che aveva schiacciato lo sciopero della polizia di Boston, era una persona grigia, frugale, onesta e timorata di Dio, che rappresentava in pieno i valori che gli statunitensi ammiravano, pur cominciando ad abbandonarli. Egli fu quindi un presidente amato, che ottenne una facile conferma alle elezioni del 1924 e che nel 1929 si ritirò, lasciando il Paese al culmine della sua potenza economica. Naturale successore di Coolidge fu Hoover, che, vinte ampiamente le presidenziali del 1928, iniziò il suo mandato in un clima di grande euforia. Il crollo di Wall Street nell’ottobre 1929 giunse quindi inaspettato, e ancor più inattesa fu la sua trasformazione in una crisi dell’intero sistema industriale che travolse la nazione. Fra il 1929 e il 1932 fallirono quasi 3.500 banche, il volume degli investimenti scese al di sotto del livello necessario a mantenere in vita gli impianti e la produzione industriale si ridusse del 51%. Nello stesso periodo la disoccupazione, che nel 1929 era del 3,1%, salì fino al 25%, mentre il monte salari scendeva del 40%, il reddito agricolo del 50% e il reddito medio pro capite tornava a livelli inferiori a quelli del 1915. L’origine della grande depressione va ricercata nella natura fortemente speculativa del boom di borsa che durava dal 1926 e in cause strutturali, che andavano dalla crisi di settori in declino come le industrie tessili e del carbone, alla sovrapproduzione che affliggeva l’agricoltura dal 1918. Se a ciò si aggiunge che nel corso del decennio la quota di ricchezza nazionale delle classi più deboli era diminuita e i salari erano cresciuti meno del prodotto interno lordo, ci si rende conto che solo circa un terzo della popolazione era entrata nella «società dei consumi» e che essa costituiva una base troppo ristretta per il sistema produttivo. Il New economic order degli anni Venti non era, insomma, un modello di sviluppo equilibrato e Hoover, prigioniero delle sue idee, non fu in grado di combattere la grande depressione. Egli non abbandonò il principio secondo cui il governo doveva solo creare le condizioni per il funzionamento autonomo del mercato, e si oppose a ogni aiuto federale ai disoccupati, che riteneva immorale; ma in questo modo le sue misure economiche rimasero senza effetto e quando si giunse al 1932 il suo fato politico era ormai segnato. Le presidenziali di quell’anno portarono alla ribalta il governatore dello Stato di New York, F.D. Roosevelt; la notorietà conquistata durante la depressione con le sue misure di stampo progressista gli era valsa la nomination democratica e a novembre egli travolse Hoover con 23 milioni di voti contro 16. L’inverno 1932-33 fu il più duro dal 1929, e quando Roosevelt entrò in carica (2 marzo 1933) il Paese era al collasso, tanto che egli chiuse per alcuni giorni il sistema bancario per evitarne il tracollo. Contemporaneamente, convocò il Congresso in sessione straordinaria. Ebbero così inizio i «Cento giorni» del New deal. La depressione non aveva suscitato nel Paese un movimento radicale di opposizione e Roosevelt si riteneva chiamato a salvare il sistema americano da sé stesso. Il New deal nacque pertanto dall’idea che la crisi rendeva inutile ogni sforzo dei singoli e che era il governo federale, ultima istituzione funzionante, a dover aiutare questi ultimi, pur senza rinunciare all’idea che disoccupati e poveri dovevano essere incentivati a lavorare. Su questa base agirono agenzie quali la Public works administration e i Civilian conservation corps, quest’ultima rivolta ai giovani. Simbolo dei Cento giorni è rimasta la Tennessee Valley authority, primo esperimento di pianificazione regionale, mentre il provvedimento più efficace fu l’Agricultural adjustment act, che riuscì a far crescere i non remunerativi prezzi agricoli con la distruzione programmata di raccolti e bestiame. Nel complesso il New deal rimase inizialmente fedele al principio di cooperazione fra i gruppi economici e sociali, pur se guidati dallo Stato, e con la National recovery administration (NRA) cercò di rivitalizzare prezzi e produzione industriali con i «Codici di concorrenza leale» di settore, che dividevano il mercato fra le aziende in base ad accordi fra imprese, sindacati e governo. Dopo due anni di New deal, Roosevelt e gli uomini del suo cosiddetto brain trust (Raymond Moley, Adolf A. Berle, Rexford Tugwell ecc.) compresero che non bastava aver reso il governo un mediatore fra gli interessi. Gli interessi economici più forti stavano infatti avendo la meglio dentro alla NRA e nel Paese sorgevano movimenti di protesta, dalla natura a volte ambigua, che potevano conquistare l’opinione pubblica. Nella primavera del 1935 Roosevelt diede quindi una sterzata progressista alla sua politica con il cosiddetto secondo New deal. La Works project administration, che mise in atto un complesso piano di opere pubbliche, sostanziò la svolta keynesiana dell’amministrazione, il Wagner act statuì il diritto alla sindacalizzazione e i contratti collettivi; il Social security act costituì un sistema pubblico di previdenza sociale per gli anziani e una serie di altre norme accentuò la progressività del sistema fiscale e il controllo sulle grandi holding dei servizi pubblici. Sebbene tanto innovative da attrarsi aspre critiche, queste misure consentirono a Roosevelt di costruire quel blocco elettorale di sindacati, immigrati e classi medie urbane che lo portarono alla vittoria nelle presidenziali del 1936. Contro ogni aspettativa, dopo il 1936 il New deal, invece di raf;forzarsi, prese a rallentare. Nel 1937 l’immagine di Roosevelt uscì malconcia dall’attacco a un’istituzione sacra come la Corte suprema, che stava invalidando le leggi del New deal, e nel 1938 egli non riuscì a epurare l’ala conservatrice del Partito democratico. Intanto, gli effetti del Wagner act e il neonato Congress of industrial organization (CIO), federazione di sindacati industriali, infiammavano la scena sociale. Nel 1937 il CIO riuscì, con una serie di scioperi, a sindacalizzare l’industria dell’acciaio e la General Motors; ma Roosevelt, temendo di essere giudicato un radicale, evitò di schierarsi apertamente dalla loro parte. Egli, d’altronde, non aveva intenzione di trasformare il blocco che aveva favorito la sua rielezione nel 1936 in un blocco politico, perché restava fedele all’idea che il Governo, sebbene socialmente impegnato, doveva essere super partes e rappresentare il maggior numero di interessi possibile. Di conseguenza, con un Congresso a maggioranza democratica, ma conservatore, e con il crescere delle preoccupazioni per la politica estera, la spinta propulsiva del New deal si esaurì nel 1938 con il Fair labor standard act, che vietava il lavoro minorile e fissava minimi retributivi nell’industria.
La politica estera americana fra le due guerre mondiali si basò sulla cooperazione fra le grandi potenze per mantenere la pace, ma anche su una decisa spinta espansionista in campo commerciale, che fu perseguita con durezza in America Latina ed Estremo Oriente. Negli anni Venti, inoltre, il rifiuto di condonare in tutto o in parte il debito di guerra degli alleati europei contribuì ad assoggettare la finanza del Vecchio continente a quella americana, anche se rese l’Europa più vulnerabile alla depressione e più instabile. Roosevelt, che era un espansionista ma anche un internazionalista, era convinto che l’egemonia economica americana dovesse dispiegarsi in un contesto di sviluppo mondiale e a questo fine inaugurò una pratica di «buon vicinato», cioè di fine delle interferenze politiche in America Latina, oltre a riconoscere nel 1933 l’Unione Sovietica. La sua politica venne a trovarsi in contrasto con il crescente isolazionismo dell’opinione pubblica, spaventata dai drammatici eventi internazionali degli anni Trenta, che spinsero il Congresso ad approvare fra il 1935 e il 1937 ben tre Neutrality acts. Roosevelt, convintosi dopo il 1935 che Italia, Germania e Giappone rappresentavano un pericolo inedito e mortale per la democrazia, dovette quindi procedere con cautela. Un suo discorso a Chicago nel 1937, con cui proponeva una «quarantena» contro gli Stati aggressori, sollevò molte polemiche e neppure l’inizio della Seconda guerra mondiale mise a tacere gli isolazionisti. Riconfermato alla presidenza nel 1940, Roosevelt seguì la via di una «non belligeranza» che sfociò nel Lend and lease act del 1941, che consentiva aiuti militari a tutti i nemici della Germania e che di fatto schierò gli USA contro il nazismo. In Estremo Oriente, intanto, Washington si opponeva alla richiesta del Giappone di vedersi riconosciuta una sfera di influenza sulla regione e, sia pur prudentemente, aiutava il governo cinese a resistere all’invasione giapponese. Nell’autunno 1941, il segretario di Stato, C. Hull, modificò tale linea e chiese a Tokyo di ritirare le sue truppe dalla Cina. La risposta giapponese fu l’attacco a Pearl Harbor del 7 dicembre. La macchina militare americana entrò a regime solo dopo un anno, ma già a fine 1942 la produzione bellica statunitense era uguale a quella combinata dell’Asse e due anni dopo ammontava al doppio. A questo occorre aggiungere una superiorità tecnologica, che si concretizzò nella costruzione della bomba atomica. Ciò consentì agli USA di condurre due guerre parallele, in Europa e nel Pacifico; d’accordo con la Gran Bretagna, la prima ebbe la precedenza e portò gli statunitensi in Africa settentrionale nel novembre 1942 e in Italia nel luglio 1943, prima dell’attacco finale alla Germania iniziato con lo sbarco in Normandia del 6 giugno 1944, comandato da D.D. Eisenhower, e conclusosi con la resa tedesca del maggio 1945. Nel Pacifico l’avanzata giapponese venne bloccata con la battaglia aeronavale delle Midway (giugno 1942), cui fece seguito una lenta avanzata verso il Giappone guidata dall’ammiraglio C.W. Nimitz e dal generale D. MacArthur. Con la resa della Germania, le questioni politiche presero il sopravvento anche se il conflitto in Oriente, dove era in corso la battaglia di Okinawa, non pareva prossimo alla fine. Gli USA vissero la guerra come uno scontro globale fra democrazia e totalitarismo e fin dal 1942 pianificarono l’ordine postbellico secondo una linea di internazionalismo neowilsoniano cara a Roosevelt; i pilastri di tale linea furono gli accordi monetari di Bretton Woods del 1944, che diedero vita alla Banca mondiale e al Fondo monetario internazionale, e le Nazioni Unite (➔ ONU), la cui carta costitutiva fu firmata a San Francisco il 26 giugno 1945. Questi istituti potevano però funzionare solo nel contesto di un accordo fra USA e URSS, emersi dalla guerra come gli unici, veri vincitori; dei loro futuri rapporti e del destino degli sconfitti si cominciò a discutere in una serie di incontri fra gli Alleati, che culminò nella Conferenza di Jalta del febbraio 1945. A Jalta venne raggiunto un accordo per cui Roosevelt accettò il principio delle sfere di influenza, fortemente voluto dall’URSS per assicurarsi governi «amici» in Europa Orientale, e Stalin aderì al progetto americano delle Nazioni Unite; ma le divergenze e i sospetti fra le due parti continuarono a crescere e la morte di Roosevelt in aprile lasciò gli USA privi del loro leader in un momento di grave incertezza. Per spiegare il passaggio dalla grande alleanza bellica alla Guerra fredda paiono superate sia la teoria che ne vedeva l’origine nella volontà del totalitarismo sovietico sia quella revisionista, che invece incolpava l’imperialismo americano. Nessuna delle due parti, in effetti, pianificò la Guerra fredda, ma entrambe, ragionando in modo inflessibile sulla base di ideologie e interessi opposti, la resero inevitabile. Inflessibile fu il successore di Roosevelt, H.S. Truman, sia nel decidere di sganciare la bomba atomica su Hiroshima e Nagasaki ai primi di agosto 1945 sia nella sua intransigenza e nell’uso politico dell’arma atomica nei confronti dei sovietici, nei quali vedeva la negazione dei valori americani. Egli costrinse i giapponesi alla resa immediata, liberando l’America da un incubo e dando al Paese un’orgogliosa prospettiva di lotta per la democrazia, che evitò il trauma collettivo seguito alla Prima guerra mondiale; ma al tempo stesso divenne un artefice della Guerra fredda. Statunitensi e sovietici non avevano, in realtà, intenzione di attaccarsi e fra l’estate del 1945 e quella del 1947 riempirono il vuoto seguito al crollo degli equilibri prebellici creando due blocchi, che nei decenni successivi si confrontarono limitando i conflitti ai margini e reggendosi sull’«equilibrio del terrore» atomico. La Guerra fredda venne «ufficializzata» il 12 marzo 1947, con il discorso al Congresso in cui Truman enunciò la «teoria del contenimento», vale a dire la decisione americana di difendere qualunque Paese fosse minacciato dall’espansionismo sovietico, e raggiunse il momento più acuto con il blocco stradale e ferroviario delle zone di occupazione occidentale di Berlino da parte dei sovietici nel marzo 1948. Terminata la crisi di Berlino con la sospensione del blocco nel 1949, la Guerra fredda in Europa si stabilizzò. Gli USA con il Piano Marshall (➔ Marshall, George Catlett) e la costituzione nel 1949 della NATO riuscirono ad avviare la ricostruzione dell’Europa Occidentale, a impedire un’ulteriore diffusione del comunismo e a garantire la propria egemonia sulla base di un’idea di interdipendenza e di rapido sviluppo economico che ha rappresentato l’espressione più matura della loro visione politica internazionale. Alla stabilizzazione dell’Europa e all’allineamento dei governi latino-americani sulle posizioni di Washington (➔ panamericanismo) fece riscontro l’acutizzarsi della situazione in Estremo Oriente dove, nonostante l’appoggio statunitense al governo di Jiang Jieshi, Mao Zedong nel 1949 concluse vittoriosamente la Rivoluzione cinese. La «perdita della Cina» fu un trauma per gli statunitensi, che ne incolparono il presidente Truman e presero a temere l’effetto domino, vale a dire la caduta di tutti i Paesi asiatici in mano comunista. L’invasione nordcoreana della Corea del Sud nel giugno 1950 accrebbe tali timori e trascinò gli USA in guerra, anche se sotto le bandiere delle Nazioni Unite. L’invasione venne respinta, ma i nordcoreani, con l’aiuto cinese, riuscirono a loro volta a bloccare la controinvasione statunitense e le linee si stabilizzarono sul confine fra i due Paesi. La mancata vittoria totale suscitò un aspro dibattito politico, acutizzato dalla dichiarata volontà del comandante delle truppe ONU, il generale MacArthur, di bombardare la Cina, cosa che avrebbe potuto provocare un conflitto mondiale. Il presidente ebbe la forza di costringerlo alle dimissioni, ma la guerra di Corea segnò la fine della sua carriera politica. In campo interno, la Guerra fredda frenò ogni slancio riformatore e diede spazio ai repubblicani, che vinsero le elezioni congressuali del 1946 e nel 1948 parvero in grado di riconquistare la Casa Bianca. Truman rispose con la difesa del welfare state, accoppiata a un forte anticomunismo e alla ripro;posizione dei valori della religione e della famiglia; una linea moderata, ma non involutiva, che il Paese accettò rieleggendolo nel 1948. Il secondo mandato di Truman rappresentò il periodo più cupo della Guerra fredda e fu caratterizzato dalla caccia ai comunisti, ispirata dal senatore J.R. McCarthy, che si scatenò in tutto il Paese e che raggiunse il culmine con un processo spettacolo contro un gruppo di cineasti di Hollywood e le accuse rivolte a D.D. Eisenhower. La svolta conservatrice del secondo dopoguerra fu, a ogni modo, diversa da quella del primo, per l’impossibilità di cancellare le riforme del New deal, poste a protezione di una middle class che superava ormai il 50% della popolazione e costituiva il cuore del sistema politico del Paese. L’economia, inoltre, sospinta da misure come il Servicemen’s readjustment act del 1944 (che aveva consentito a milioni di reduci di studiare o di dar vita a nuove attività produttive) nonché dagli immensi bisogni dei Paesi distrutti dalla guerra, entrò subito in una fase di grande prosperità. Nel 1950, quando fibre sintetiche, materie plastiche, detergenti, lavatrici, televisori erano ormai una realtà comune, la società dei consumi mostrò di essersi imposta con un modello di sviluppo che, mescolando welfare state e teorie keynesiane, evitava i rischi del 1929. Gli anni Cinquanta furono un decennio di benessere economico e di conformismo sociale, in cui la American way of life, fondata sulla democrazia, la cooperazione fra i gruppi sociali e una fede concreta nell’individuo, venne considerata un ideale ormai realizzato che non si poteva criticare senza essere accusati di antiamericanismo. Il generale Eisenhower, simbolo della vittoria su Hitler, eletto presidente nel 1952, incarnò la nuova età con il suo modern republicanism, un conservatorismo moderato e benevolo, che lo portò a seguire una politica di welfare in grado di assicurare la pace sociale e favorire lo sviluppo. Le sue priorità andarono tuttavia alla politica internazionale. Assieme al segretario di Stato, J.F. Dulles, Eisenhower teorizzò la Guerra fredda come scontro di civiltà che non ammetteva una terza via fra i due blocchi; ciò gli fece accettare nel novero del «mondo libero» Paesi autoritari come la Spagna e la Corea del Sud e gli impedì di comprendere il sorgere del nazionalismo arabo. Evitò invece un confronto diretto con le potenze comuniste, sia nel caso dell’intervento sovietico in Ungheria del 1956 sia nel 1958 a Formosa, dopo il bombardamento delle isole Jinmen e Matsu a opera dei comunisti cinesi; il presidente statunitense si impegnò anzi in un tentativo di coesistenza pacifica con i successori di Stalin, morto nel 1953. Ne seguì una serie di trattative e incontri con N.S. Chruščëv, falliti al momento conclusivo quando, nella primavera 1960, un U2, un aereo spia americano, venne abbattuto sui cieli russi.
A fine decennio le sicurezze dell’era Eisenhower presero a vacillare. L’URSS, che aveva lanciato nel 1957 il primo satellite terrestre, lo Sputnik, pareva sopravanzare gli USA da un punto di vista scientifico e militare e si proponeva come referente ideologico ai popoli in lotta contro il colonialismo e ai Paesi vittime dell’imperialismo; ma fu la clamorosa sentenza della Corte suprema, guidata dal nuovo chief justice E. Warren, nel caso Brown versus Board of education del 1954 a dimostrare agli americani che la loro democrazia era tutt’altro che perfetta. L’incostituzionalità della segregazione razziale nelle scuole, dichiarata dalla Corte, diede forza al movimento per i diritti civili, che stava lottando contro la segregazione legale esistente nel Sud e quella di fatto applicata a Nord. Nel 1955 M.L. King jr., un giovane pastore dell’Alabama, assunse la guida del movimento, dandogli un’ideologia non violenta, tratta dall’insegnamento cristiano delle chiese nere e dalle teorie di M.K. Gandhi. Un numero crescente di bianchi, soprattutto giovani, lo appoggiò e, dopo lotte anche sanguinose, fra 1960 e 1961 la Southern christian leadership conference di King, lo Student non violent coordinating committee e il Congress on racial equality vinsero varie importanti battaglie contro la segregazione. Il 22° emendamento, approvato nel 1951, impedì a Eisenhower di presentarsi candidato per la terza volta nel 1960 e il suo vicepresidente, R.M. Nixon, ottenne la nomination. I democratici gli contrapposero J.F. Kennedy, un giovane senatore cattolico del Massachusetts. Kennedy, che vinse per pochi voti di scarto, era ritenuto una figura di scarso rilievo; ma il suo stile anticonvenzionale e la promessa di «rimettere in moto» la nazione impegnandola nella difesa dei diritti dell’uomo e nella lotta contro la povertà e la guerra fecero della Nuova frontiera, come venne definito il suo programma, e dei suoi anni alla Casa Bianca un mito per milioni di americani. Trovatosi a lottare con un Congresso dominato da conservatori, sia repubblicani sia democratici, Kennedy attuò solo in parte la sua svolta riformista, anche se riuscì a rafforzare il welfare state, accrebbe gli aiuti agli strati deboli della popolazione e attraverso il fratello Robert Francis, ministro della Giustizia, impegnò il suo governo a favore dei diritti civili. Anche in questo campo subì sconfitte; ma sull’onda della marcia dei neri su Washington guidata da King nel 1963 propose il più importante progetto di legge sui diritti civili dai tempi della Ricostruzione. Anche per Kennedy, le prove più impegnative vennero dalla politica estera. Al contrario di Eisenhower, egli e i suoi collaboratori, da J. Bundy a D. Rusk, compresero che in Africa e in Asia erano entrati in scena nuovi, autonomi attori, e che la Guerra fredda nel Terzo mondo (come anche la lotta alla diffusione del comunismo nel continente americano) andava combattuta sul piano degli aiuti concreti; ma a determinare la sua politica furono le vicende di Cuba, dove F. Castro, dopo la vittoria della sua rivoluzione nazionalista e populista, era stato spinto dall’ostilità statunitense ad allearsi con Mosca. Il fallimento del tentativo di invasione compiuto da un gruppo di anticastristi armati dalla CIA alla Baia dei Porci nell’aprile 1961 offuscò l’immagine del presidente, che, pur avendo ereditato l’operazione dall’amministrazione Eisenhower, la aveva avallata. Il test più cruciale venne, però, nell’ottobre 1962, quando gli americani scoprirono che i sovietici stavano installando missili a medio raggio a Cuba. Kennedy riconobbe che non si trattava di una minaccia strategica, ma vi scorse un atto che alterava l’equilibrio politico fra le superpotenze e rispose con decisione, costringendo i sovietici a smantellare le basi in cambio della promessa che Castro non sarebbe stato attaccato. Per alcuni giorni il mondo temette la guerra nucleare e il successo ottenuto conferì la statura di un leader mondiale a Kennedy, che riuscì poi a trattare con i sovietici anche il primo accordo di sospensione degli esperimenti nucleari (luglio 1963). Il 22 nov. 1963, a Dallas, il presidente rimase vittima di un attentato mai interamente chiarito e questa fine contribuì a far sì che l’era Kennedy rimanesse nell’immaginario americano come la promessa di un’età migliore. Il suo successore, L.B. Johnson, già influente senatore del Texas, non possedeva il carisma di Kennedy; ma era un abile politico e un liberal che si impegnò con tutte le forze per portare a compimento quella che egli chiamò la guerra alla povertà, nell’intento di creare una Great society. Fra il 1964 e il 1966 Johnson riuscì a far approvare, nonostante l’ostruzionismo sudista, la legge sui diritti civili preparata da Kennedy e una serie di norme che rivoluzionarono lo Stato federale (come i programmi Medicare e Medicaid, che assicuravano la copertura sanitaria agli anziani e agli indigenti). Il tutto in un clima di ottimismo alimentato da un eccezionale sviluppo economico, che fece quasi raddoppiare il PIL nel corso del decennio e dimezzò il numero dei poveri portandoli all’11% della popolazione. Contemporaneamente ai successi del Governo aumentavano però le tensioni sociali. La disfatta subita a opera di Johnson nelle presidenziali del 1964 dal candidato repubblicano, l’ultraconservatore B.M. Goldwater, mostrò che la destra si riorganizzava su posizioni estreme. Le tante rivolte scoppiate nei ghetti fra il 1965 e il 1968, oltre a testimoniare la disperazione dei neri, erano un segnale che organizzazioni come i Musulmani neri e nuovi leader come Malcolm X e S. Carmichael abbandonavano il pacifismo di M.L. King. L’uccisione di quest’ultimo nell’aprile 1968 fu la conferma del fallimento della politica di integrazione. Dai college, intanto, partiva il movimento studentesco che, alimentato da un senso di alienazione nei confronti di una società ingiusta e militarista, chiedeva la nascita della participatory democracy, voluta da gruppi quali gli Students for a democratic society della Columbia University. La vera importanza del movimento consistette però nell’alimentare la controcultura pacifista degli hippies, i «figli dei fiori», e nell’appoggio dato al movimento femminista, che negli anni Sessanta giunse a maturità. In politica estera, il timore che si ripetesse l’esperienza di Cuba indusse Johnson a intervenire nel 1965 nella Repubblica Dominicana. Ma fu la guerra in Vietnam a fare da detonatore delle tante tensioni che si venivano accumulando nel Paese: iniziata in sordina da Kennedy, che inviò un crescente numero di «consiglieri militari» americani ad aiutare i sudvietnamiti, venne proseguita da Johnson, che non intendeva «perdere» il Vietnam. Il presidente nel 1965 ordinò massicci bombardamenti aerei sul Vietnam del Nord, mentre il contingente statunitense impegnato nel conflitto raggiunse nel 1968 le 550.000 unità. Nonostante un simile sforzo, vietcong e nordvietnamiti ottennero un’importante vittoria politica all’inizio del 1968 con l’offensiva del Tet che, sebbene respinta, dimostrò la loro capacità di organizzare un attacco simultaneo in gran parte del Vietnam del Sud. Portata in tutte le case dalla televisione, la guerra divise gli USA, al punto da far temere lacerazioni violente, tanto che nel marzo 1968, di fronte alla gravità della situazione, Johnson rifiutò di aumentare ancora lo sforzo bellico, propose colloqui di pace e annunciò che non si sarebbe ricandidato alla presidenza. Dopo l’assassinio di M.L. King, l’uccisione di R.F. Kennedy, che si stava avviando a ottenere la nomination democratica, accrebbe ulteriormente il disorientamento e il Paese, desideroso di stabilità, rispose all’appello alla «maggioranza silenziosa» fatto da R. M. Nixon, eleggendolo presidente (1968). Nixon comprese le ragioni della sua vittoria e, moderando il proprio conservatorismo, si mosse con cautela in politica interna, in modo da ottenere il consenso necessario ad aver mano libera in campo internazionale. Convinto che fosse necessario adottare un approccio meno ideologico e più realistico nelle relazioni internazionali, inaugurò l’era della «diplomazia multilaterale», dando il via al riavvicinamento alla Cina con una sua visita di Stato a Pechino nel 1972 e firmando con l’URSS il primo trattato sulla limitazione delle armi nucleari. Nel frattempo Nixon intese disimpegnare gli USA dal Vietnam anche se, per costringere i nordvietnamiti a un accordo, ampliò il conflitto invadendo la Cambogia (ove essi avevano numerose basi) e bombardò in modo selvaggio Hanoi e tutto il Nord; ma nel gennaio 1973 i due Vietnam firmarono una tregua e le truppe americane finirono di ritirarsi. La politica estera di Nixon subì una sconfitta in Medio Oriente, dove l’indefettibile appoggio a Israele in funzione della Guerra fredda si scontrò con l’autonomia da entrambe le superpotenze che il petrolio garantiva ai Paesi arabi. L’embargo petrolifero decretato dall’OPEC nell’autunno 1973, mostrò la nuova realtà mediorientale; ma a questo punto il presidente era già alle prese con il caso Watergate. Nelle presidenziali del 1972, il piano di Nixon di creare un’alleanza conservatrice della classe media urbana appoggiata da un Sud non più fedele al partito democratico aveva riscosso un vero trionfo elettorale; ma nel corso del 1973, le indagini su un tentativo di spionaggio contro la sede del partito democratico di Washington coinvolsero in modo diretto il presidente, che nell’agosto 1974, quando il Congresso diede il via alla procedura di impeachment, fu costretto a dimettersi. I restanti anni Settanta furono anni di crisi e di incertezza. Il vicepresidente G.R. Ford, succeduto a Nixon, non si dimostrò all’altezza del compito e nelle presidenziali del 1976 venne sconfitto dal governatore democratico della Georgia, J. Carter; neppure quest’ultimo, che si proponeva come campione di una nuova politica estera, incentrata sui rapporti Nord-Sud, riuscì però a dare sostanza alla sua linea politica. L’economia, presa in un processo di stagflazione, peggiorò costantemente, mentre in politica estera, a successi quali l’accordo del 1978 fra Egitto e Israele (➔ Camp David, accordi di), seguirono crescenti diffi;coltà: fatale per Carter fu l’umiliazione subita dagli USA con l’occupazione della loro ambasciata a Teheran, a seguito della Rivoluzione islamica iraniana, e con il fallimento nel 1980 di un’operazione militare diretta a liberare gli ostaggi americani che vi erano stati presi. Con un Paese frustrato e un presidente indebolito, i repubblicani mossero alla conquista della Casa Bianca, guidati da nuovi leader e nuove idee. Nel corso degli anni Settanta, la destra repubblicana si era convinta che non bastava rigettare la controcultura libertaria, ma occorreva attaccare l’ideologia progressista (liberal) che si rifaceva al New deal, il welfare state e attuare una vera rivoluzione conservatrice. R.W. Reagan, governatore della California e in precedenza attore cinematografico, era fra i principali esponenti di tale linea e su questa base ottenne la nomination. La crisi economica del Nord-Est democratico, l’accresciuto peso del Sud-Ovest individualista, il passaggio del Sud ai repubblicani e le sue doti di «grande comunicatore», ottimista e bonario, assicurarono a Reagan un trionfo nelle elezioni del 1980. Durante la sua presidenza, tuttavia, egli non attuò la rivoluzione sociale conservatrice che aveva promesso, limitandosi a una sorta di educazione morale del Paese con i suoi interventi televisivi. Rivoluzionò invece la politica economica, tagliando imposte, spese pubbliche e sopprimendo misure poste a regolamentare l’economia per ridurre l’interventismo statale. Nel medio periodo la cosiddetta reaganomics sembrò ottenere brillanti risultati, ma alla fine del decennio essa aveva aumentato il deficit di bilancio e creato un deficit commerciale. La forte spinta ide;ologica, ma anche una valutazione realista della crescente debolezza dell’URSS fecero inoltre sì che Reagan riportasse in auge lo schema bipolare dello scontro fra democrazia e «impero del male». In tale quadro gli USA furono pesantemente coinvolti nella crisi centroamericana degli anni Ottanta e nel 1983 invasero l’isola di Grenada. Nel 1985, con l’avvento al potere in URSS di M. S. Gorbačëv, la strategia di Reagan si dimostrò vincente: dopo una serie di summit fra i due leader, la Guerra fredda ebbe termine con la firma di un trattato per lo smantellamento dei missili a medio raggio (1987). Reagan mantenne intatta la sua popolarità per due mandati, nonostante l’insuccesso dell’intervento (nell’ambito di una forza multinazionale di pace) nella guerra del Libano, seguita all’invasione israeliana (1982) e le ombre suscitate dal caso Irangate, e nel 1989 lasciò la presidenza da trionfatore. La sua fu, tuttavia, un’eredità pesante, sia per la diminuita concorrenzialità dell’economia, che scatenò un dibattito sul declino degli USA, sia per lo scontro fra la cd. Nuova destra cristiana, divenuta un fenomeno di larga portata, e neri, ispanici, nativi, movimento delle donne e degli omosessuali, che volevano riconosciuto il «diritto alla differenza». Questi problemi e quelli suscitati dalla fine della Guerra fredda condizionarono la politica dei due successivi presidenti. Il repubblicano G.H.W. Bush, nell’euforia del progressivo declino sovietico, intese fondare la nuova egemonia statunitense sulla capacità di garantire gli equilibri regionali dove maggiori erano gli interessi nordamericani (intervento militare a Panama, 1989; guerra del Golfo contro l’Iraq, 1991; avvio di un processo di pace in Medio Oriente, 1991). La sua incapacità di rialzare le sorti dell’economia e di gestire le tensioni sociali, sfociate nella rivolta razziale di Los Angeles (1992), lo portarono nelle presidenziali del 1992 a essere sconfitto dal governatore democratico dell’Arkansas, B. Clinton, che aveva riportato il suo partito a un programma centrista.
Con la presidenza di B. Clinton gli USA abbandonarono l’approccio geopolitico per una visione geoeconomica che teneva conto della globalizzazione e intendeva collocare gli USA al centro di una rete di accordi che dessero loro un vantaggio competitivo sui Paesi concorrenti. Di conseguenza, senza curarsi delle differenze ideologiche, Clinton costruì solidi rapporti economici con la Cina, tesi in parte a contrastare la potenza giapponese, fece approvare nel 1993 il North american free trade agreement (➔ NAFTA), che, con un occhio all’Unione Europea, creava una zona di libero scambio fra i tre Paesi nordamericani, Canada, USA e Messico, e nel 1994 chiuse i negoziati sul General agreement on tariffs and trade (➔ GATT), il trattato destinato a regolare il commercio mondiale secondo principi di libero scambio da cui gli USA avrebbero potuto trarre chiari vantaggi. Sul piano interno, dopo i fallimenti economici della presidenza Bush (in primo luogo la crescita della disoccupazione e del deficit pubblico), la vittoria di Clinton nelle elezioni presidenziali del 1992 aveva dimostrato la presenza, tra conservatori e progressisti, di una nuova realtà socioculturale. Si trattava di un vasto centro, per lo più indipendente, che accettava il femminismo, la presenza gay e la realtà multiculturale del Paese, ma che aveva anche interiorizzato i due principi della «rivoluzione conservatrice», la centralità del dovere di ognuno di farsi carico di sé stesso e l’avversione per il big government, dissipatore, considerato immorale perché con l’eccesso di welfare avrebbe abituato i singoli alla dipendenza, e nemico della libertà per i lacci che avrebbe imposto ai cittadini. In campo internazionale, inoltre, esauritasi l’euforia per la vittoria nella Guerra fredda, prevaleva una tendenza, se non neoisolazionista, almeno unilateralista, secondo la quale il ruolo degli USA nel mondo si identificava con la difesa degli interessi economici nazionali, senza la prospettiva di un ordine mondiale da ricreare e garantire. Le elezioni del 1992 possono così considerarsi emblematiche del nuovo quadro politico degli anni Novanta in cui posizioni e valori fino allora distinti si mescolavano diventando irriconoscibili, in un contesto internazionale soggetto alle opposte tendenze della globalizzazione e delle rivendicazioni nazionali ed etniche. Clinton, simbolo tutto americano dell’uomo che viene dal niente, ma con una storia altrettanto americana di infanzia in una famiglia difficile, riuscì a essere il migliore interprete di questa inedita realtà, sia per il suo approccio innovatore alla politica sia per l’ opportunismo che sembrò spesso guidare la sua azione. Nel suo secondo mandato presidenziale, seguito al trionfale successo nelle presidenziali del 1996 dove ottenne il 49% dei suffragi e 379 voti elettorali contro il 41% e 159 per R. Dole e l’8% per R. Perot, Clinton applicò sul piano interno una politica che, per quanto in opposizione alle asprezze dei repubblicani, ne adottava sostanzialmente l’orientamento in misura ancora più marcata che nei quattro anni precedenti. Clinton aveva infatti ormai abbandonato ogni visione welfaristica dello Stato per basarsi sul principio del human capital, il capitale costituito da ogni cittadino, che il governo, attraverso incentivi fiscali e sociali, doveva mettere in grado di funzionare al meglio per sé stesso e la comunità. Per quanto la campagna elettorale si fosse basata principalmente su temi di politica interna, dopo la sua rielezione Clinton proseguì sul piano internazionale nella linea scelta in precedenza, linea che, nell’impossibilità di delineare un nuovo ordine mondiale, assegnava agli USA il ruolo di «nazione indispensabile» alla soluzione delle crisi più pericolose. Nel marzo 1997 il presidente riuscì nell’obiettivo dell’allargamento della NATO ad alcuni Paesi dell’Europa orientale e si impegnò ad ampliare la sfera di influenza americana in Africa centrale: un approccio regionalista alle situazioni e crisi internazionali che trovava il proprio ancoraggio nell’idea che la globalizzazione dell’economia avrebbe portato a politiche economiche simili e coerenti di tutti i Paesi e a uno sviluppo comune all’insegna del libero scambio guidato da organismi internazionali come il Fondo monetario e la World trade organization (➔ WTO). Il fallimento di questa visione, portato alla ribalta dalla crisi finanziaria delle «tigri asiatiche» nella seconda metà del 1997, causata da un eccesso di indebitamento con l’estero che mise in pericolo anche il sistema bancario giapponese, costrinse gli USA a costosi interventi di sostegno, che nel 1998 si dovettero allargare alla Russia, travolta anch’essa dalla crisi mondiale. Quando la tempesta toccò il Brasile, Clinton cercò di costituire una rete finanziaria internazionale di protezione, una mossa obbligata anche se dagli esiti incerti. Nel frattempo, però, la situazione politica internazionale presentava nuovi focolai di crisi, evidenziati dagli esperimenti atomici dell’Unione Indiana e del Pakistan (estate 1998) e dal braccio di ferro fra gli ispettori ONU (incaricati di controllare la presenza di armi di distruzione di massa in Iraq) e Husain. In questo caso l’unilateralismo statunitense venne allo scoperto con i bombardamenti di installazioni militari del dicembre 1998, compiuti con l’aiuto della sola Gran Bretagna, che buona parte della comunità internazionale giudicò eccessivi e inutili. Quest’ultima iniziativa sembrò essere stata in parte dettata dalle difficoltà interne del presidente, alle prese con l’ultimo atto di una lunga vicenda di scandali e inchieste iniziata nel 1993 con l’affare Whitewater, riguardante un sospetto di finanziamento illecito a Clinton attraverso una società immobiliare dell’Arkansas di cui l’allora governatore e la moglie erano soci. Complicatasi nel 1994 con le accuse a Clinton di molestie sessuali da parte di un’impiegata dello Stato dell’Arkansas, la vicenda non approdò a nulla; ma nel 1996 il procuratore speciale, K. Starr, prese in esame l’eventualità di «ostruzione alla giustizia» da parte del presidente nella vicenda, un tema che gli consentì di indagare su qualunque argomento. Fu in questo quadro che nel 1998 l’ammissione da parte di una «stagista» della Casa Bianca, M. Lewinsky, di aver avuto rapporti sessuali con il presidente portò alle involute negazioni di quest’ultimo, costretto a un umiliante interrogatorio, trasmesso più volte da tutte le reti televisive, nel quale fondò la sua difesa su una contorta interpretazione del significato di rapporto sessuale. Le conclusioni del procuratore, secondo cui Clinton aveva mentito sotto giuramento, consegnate al Congresso, aprirono la strada alla procedura costituzionale di impeachment, che può portare alla destituzione del presidente. L’opinione pubblica rimase fedele a Clinton e parve credere che la vicenda, data la fede conservatrice di Starr, fosse viziata da fini politici, tanto che alle «elezioni di mezzo termine» dell’autunno i repubblicani persero alcuni seggi alla Camera e vari governatorati; ma la Camera, ancora a maggioranza repubblicana, approvò in dicembre la richiesta di rinvio a giudizio di Clinton davanti al Senato per ostruzione alla giustizia e spergiuro. Si giunse così al secondo processo di impeachment nella storia americana dopo quello di A. Johnson, il successore di Lincoln, nel 1868. La pressione dell’opinione pubblica e la difficoltà di tradurre comportamenti moralmente riprovevoli in termini costituzionalmente rilevanti impedirono però alla maggioranza dei senatori di votare per la condanna. Ancora una volta il presidente uscì vincitore da una situazione apparentemente senza uscita, mentre l’ideologia moralizzante della destra religiosa si dimostrò di nuovo perdente, e taluni suoi esponenti parvero inclini a lasciare la scena politica attiva per dedicarsi al missionariato nella società civile. Contemporaneamente nel Partito repubblicano riprendevano quota, anche in vista delle presidenziali del 2000, politici centristi come il governatore del Texas G.W. Bush, figlio dell’ex presidente. La vicenda dell’impeachment può essere considerata il coronamento di un decennio paradossale in cui un presidente democratico, Clinton, aveva messo fine allo Stato interventista per seguire una politica economica più moderata, ma non dissimile da quella dei suoi predecessori repubblicani, ottenendo, però, un boom economico senza precedenti. All’inizio del 1998, con la diminuzione della disoccupazione e dell’inflazione, egli poté prevedere un bilancio in pareggio per l’anno successivo. Nel 1999 si verificò addirittura un surplus sul cui uso si accese una nuova battaglia politica fra i repubblicani, intenzionati a usarlo per ridurre ulteriormente le tasse, e i democratici che volevano invece servirsene soprattutto per l’incentivazione del capitale umano e per le politiche di welfare. Al di là di questo scontro, che non esce dalla normale logica bipolare statunitense, la costante dell’azione politica di Clinton nel corso del decennio sembrò poggiare sull’idea che le conseguenze socioeconomiche della rivoluzione informatica e della globalizzazione in un Paese come gli USA avrebbero premiato la flessibilità e l’inventiva e che queste dovessero essere assecondate dall’azione di governo. Questa «terza via» fra progressismo e conservatorismo, fondata sul principio che non esistano diritti all’assistenza basati su un dovere pubblico di redistribuzione delle ricchezze, ma che la mano pubblica debba fornire strumenti che portino i singoli ad aiutarsi da sé, andò in effetti in questa direzione e conquistò il pubblico statunitense affermandosi, almeno nell’immediato, rispetto alle posizioni radicale e conservatrice che subirono un momentaneo ridimensionamento della loro influenza. Lungo queste linee Clinton riuscì a governare con abilità una situazione inedita; ma le sue capacità politiche non cancellarono le incertezze e i punti oscuri delle scelte sociali ed economiche adottate nel corso dei suoi due mandati, tanto che il candidato democratico per le elezioni del 2000, il vicepresidente A. Gore, non sembrava avere alcun vantaggio rispetto ai repubblicani. Allo stesso modo era paradossale la situazione del Paese in campo internazionale, in cui l’iniziativa statunitense si «disaggregava» in una serie di risposte a conflitti regionali garantite dallo strapotere militare, ma fondamentalmente unilaterali e poco decifrabili nel loro disegno generale. L’intervento della NATO del marzo 1999 nella regione iugoslava del Kosovo, voluto e guidato dagli USA per impedire la pulizia etnica contro gli albanesi kosovari avviata dal presidente serbo della Iugoslavia, S. Milošević, rifletteva questa situazione. Sebbene giustificato dalla realtà delle cose e dal vuoto politico degli Stati europei, esso si svolse all’insegna di un’inedita visione politica umanitaria che tagliava fuori l’ONU, unico organismo legittimato a compiere operazioni di polizia internazionale in violazione della sovranità nazionale degli Stati: un’innovazione gravida di potenzialità tanto radicali quanto difficili da valutare. Il coinvolgimento della NATO nell’operazione, inoltre, non modificava, ma anzi rafforzava l’unilateralismo della politica estera statunitense, in quanto dimostrava che gli USA si muovevano sui vari scacchieri regionali servendosi in modo nuovo delle alleanze militari sorte durante la Guerra fredda. Dopo oltre due mesi di un’azione esclusivamente aerea contro le infrastrutture della Iugoslavia e le sue truppe in Kosovo, l’operazione si concluse con successo a giugno, con il ritiro delle forze iugoslave e l’ingresso, nella regione, di un forte contingente di pace formato da truppe NATO e russe. Il permanere della «sindrome Vietnam», e quindi la dichiarata volontà di affidare le operazioni militari alla sola forza aerea onde evitare perdite nel proprio esercito, non impedì infatti agli USA di continuare a fondare ancor più la loro politica estera sulla potenza militare, basando questa strategia sulla premessa che la globalizzazione dovesse portare a un convergere spontaneo delle politiche nazionali e quindi a un’accettazione internazionale degli interventi contro chi operasse in nome di interessi culturali o politici a essa estranei. Nel secondo semestre del 1999 si accese la battaglia per le presidenziali del 2000 fra Gore, Bush e numerosi candidati minori. Il presidente, intanto, in vista del vertice della WTO a Seattle, si adoperò per favorire accordi commerciali bilaterali con la Cina, che furono stipulati nel novembre 1999, un atto che fu un segnale di distensione nei rapporti tra i due Paesi. Riuscì anche a impedire ai repubblicani di servirsi del surplus di bilancio del 1999 solo per tagliare le tasse nel 2000 a scapito di misure sociali. Questi successi, però, vennero sminuiti dal fallimento dell’incontro di Seattle ai primi del dicembre 1999, fallimento provocato non solo dai profondi contrasti sui temi dell’agricoltura e della protezione dell’ambiente e del lavoro, ma ancor più dalle manifestazioni di decine di migliaia di dimostranti giunti dagli USA e dall’estero che paralizzarono la città. Vi confluirono ambientalisti e giovani della sinistra radicale, ma anche esponenti dei sindacati e sostenitori dell’isolazionismo economico. Si trattò di una prima apparizione di quel movimento antiglobalizzazione (➔ no global) che, per quanto confuso e composito al suo interno, rifletteva le ansie e i problemi che le rivoluzioni economiche e sociali in atto provocavano in settori dell’opinione pubblica internazionale e la sfiducia verso un progresso che gli USA guidavano ma non riuscivano a governare. Nell’ultima fase della sua presidenza, Clinton si adoperò nei negoziati per l’Irlanda del Nord che portarono all’Accordo di Pasqua dell’aprile 1998, e si impegnò anche personalmente, fino agli ultimi mesi della sua presidenza, nel tentativo di giungere a una soluzione del conflitto israelo-palestinese. La campagna elettorale per le presidenziali del novembre 2000 fu incentrata sulla situazione economica interna: Gore, forte dei successi della presidenza Clinton, si presentava come il continuatore di quella politica e quindi il garante della solidità conquistata, mentre Bush, figlio dell’ex presidente e governatore del Texas dal 1994, sosteneva la necessità di riduzioni fiscali per stimolare la crescita produttiva, di una limitazione del welfare, di un potenziamento della scuola pubblica e della difesa, nel quadro di un richiamo morale di forte impronta religiosa che assegnava un ruolo centrale alle comunità locali e alle famiglie. La risposta delle urne sollevò tuttavia un grave problema, dal momento che la maggioranza dei suffragi dipendeva dai 25 voti elettorali della Florida i cui risultati furono immediatamente contestati. Seguirono settimane di incertezza, di ricorsi, denunce e sentenze contraddittorie: una battaglia giudiziaria in cui, oltre ai due partiti, furono coinvolte la Corte suprema della Florida e quella federale. La decisione di quest’ultima, con 5 voti su 9, di non procedere a una verifica manuale del conteggio dei voti contestati (verifica richiesta dai democratici che accusavano di scarsa attendibilità il sistema automatico di conteggio dei suffragi) portò Gore a dichiarare pubblicamente, il 13 dicembre, la propria sconfitta elettorale in Florida (e quindi a livello nazionale). I risultati finali indicarono poi che Gore aveva ottenuto il 48,4% dei voti validi, contro il 47,9% di Bush. Quest’ultimo diventava così il primo candidato a ottenere la maggioranza nei voti elettorali a fronte di una sconfitta nel voto popolare nazionale. Le consultazioni per il Senato registrarono un aumento dei democratici, che ottennero 50 seggi alla pari dei repubblicani, che però conservavano la maggioranza alla Camera; ma il passaggio di un senatore repubblicano nella lista degli Indipendenti, nel maggio 2001, assicurava ai democratici la maggioranza al Senato. Insediatosi alla Casa Bianca il 20 gennaio 2001, Bush segnò la prima fase della sua presidenza con una serie di iniziative che rispecchiavano in pieno l’unilateralismo delle linee guida della sua campagna elettorale: in nome degli interessi nazionali minacciati, sul piano economico, dalla recessione, Bush sospendeva l’attuazione di una serie di misure di protezione ambientale decise da Clinton poco prima della fine del suo mandato, presentava in febbraio la prima finanziaria che annunciava riduzioni dell’imposta sulle persone fisiche, ritirava nel marzo l’appoggio statunitense per la ratifica degli Accordi di Kyoto del dicembre 1997 per la riduzione delle emissioni di gas a effetto serra del 5% entro il 2010, mentre nell’ambito strettamente militare annunciava, in aprile, che gli USA non avrebbero partecipato ad accordi internazionali antinucleari che avessero ostacolato il Programma di difesa missilistica (avviato da Clinton nel 2000). Inoltre l’amministrazione Bush sembrò abbandonare in questa prima fase l’impegno che aveva contraddistinto la presidenza Clinton per una soluzione alla questione israelo-palestinese. Ma la linea adottata subiva una drammatica svolta con gli attentati dell’11 settembre 2001, quando l’organizzazione terroristica islamica al-Qa‛ida si rendeva responsabile di una tragica azione sul territorio statunitense. Quattro aerei di linea statunitensi furono dirottati da 19 terroristi suicidi: due aerei vennero lanciati contro le Twin Towers di New York, provocando migliaia di morti e la distruzione dei due edifici, mentre un altro aereo colpiva il Pentagono e un ultimo cadeva prima di aver raggiunto il suo obiettivo. Di fronte agli attentati dell’11 settembre a New York e Washington e allo shock subito dal Paese in quello che fu percepito come il primo riuscito attacco all’invulnerabilità del territorio statunitense, l’obiettivo prioritario della presidenza Bush divenne la lotta al terrorismo: nell’ottobre, dopo aver ottenuto un largo assenso internazionale, una coalizione militare guidata dagli USA iniziò una guerra (denominata Enduring freedom) contro il regime dei taliban in Afghanistan, accusato di garantire la base logistica dei terroristi di al-Qa‛ida. Sul piano interno gli attentati di al-Qa‛ida portarono all’adozione di misure straordinarie di sicurezza (ottobre) che provocarono in una parte della stessa opinione pubblica nazionale e internazionale forti perplessità per le restrizioni delle libertà civili che comportavano (perplessità e riserve rinnovate nel gennaio 2002 di fronte al trattamento, contrario alle norme della Convenzione di Ginevra, dei prigionieri talebani e di al-Qa‛ida detenuti nella base di Guantanamo a Cuba), mentre l’allarme antiterrorismo trovava conferma in una inspiegata serie di casi di antrace contratto in seguito alla diffusione di batteri spediti per posta. Nei mesi successivi l’impegno internazionale continuò tuttavia a essere al centro dell’azione dell’amministrazione: di fronte ai limiti dei risultati dell’intervento in Afghanistan, che aveva provocato la caduta del regime dei taliban (novembre) ma non aveva raggiunto l’obiettivo prioritario della cattura del capo di al-Qa‛ida, Osama bin Laden, e del leader dei taliban, il mullah Omar, i viaggi del presidente in Giappone, Corea del Sud e Cina (febbraio 2002), e l’avvicinamento alla Russia, sanzionato dall’intesa sul disarmo nucleare firmata da Bush e V. Putin a Mosca nel maggio 2002, segnalavano lo sforzo di consolidare una difficile rete di accordi e alleanze internazionali anche in visita di successive iniziative contro altri Stati accusati di ospitare o appoggiare gruppi terroristici e di essere espressione di un antiamericanismo radicalmente ostile (in primo luogo, Iraq, Iran e Corea del Nord). L’impegno in un rafforzamento della propria potenza militare si traduceva d’altronde nella decisione di aumentare del 14,5% le spese militari previste dal bilancio per il 2002-03, e, soprattutto, secondo una linea che riprendeva l’unilateralismo della prima fase dell’amministrazione Bush, nell’annuncio da parte del presidente, nel dicembre 2001, del ritiro degli USA dal Trattato sui missili antibalistici (firmato nel 1972 con l’URSS), che avrebbe consentito a sei mesi da quella data di procedere nel progetto di sperimentazione e avvio del sistema di difesa antimissile (Missile national defence system). L’impegno deciso rivolto, all’indomani dell’11 settembre, alla questione israelo-palestinese, anche a costo di gravi tensioni con Tel Aviv e con il premier A. Sharon (nell’ottobre Bush dichiarava l’appoggio degli USA alla formazione di uno Stato palestinese, mentre attraverso il segretario di Stato C. Powell venivano emessi severi richiami contro la repressione condotta da Sharon nei territori palestinesi), sembrava indicare, inoltre, in quel problema e nella sua soluzione, una priorità della nuova strategia internazionale statunitense. Ma di fronte al sabotaggio di ogni possibile iniziativa di pace da parte degli estremisti palestinesi, da un lato, e di parte della dirigenza israeliana dall’altro, sembrarono rinsaldarsi i legami «ideali» con Israele, legami che, ancor più degli stessi motivi strategici, spinsero in breve tempo l’amministrazione Bush ad abbandonare quella linea (dic. 2001), per poi rilanciare, tuttavia, una difficile e contrastata azione per raggiungere un accordo tra le parti (missione di pace di Powell nell’aprile 2002; nuovo piano di pace del luglio 2002 che prevedeva, in primo luogo, la sostituzione della dirigenza dell’Autorità nazionale palestinese attraverso nuove elezioni). I primi mesi del 2003 furono segnati dai preparativi dell’invasione dell’Iraq; la politica estera americana si trovò al centro di violente polemiche. Tra marzo e aprile le truppe angloamericane ebbero facilmente ragione della resistenza irachena; nei mesi successivi, tuttavia, si vide chiaramente che sarebbe stato necessario occupare a lungo militarmente l’Iraq. Nel frattempo, sul piano interno, l’amministrazione era stata coinvolta nello scandalo della società multinazionale energetica Enron (che aveva svolto un ruolo di primo piano nel finanziamento della campagna presidenziale), il cui fallimento, nel dic. 2001, aveva fatto emergere un sistema di bilanci truccati per fuorviare gli investitori e i dipendenti sul valore obiettivo dell’azienda. A quell’episodio erano seguiti, nei mesi successivi, una serie di fallimenti di altre importanti società e una grave crisi di fiducia degli investitori cui si era accompagnata una fortissima pressione sociale per nuovi interventi regolatori sui mercati finanziari. Ciò tuttavia influì solo relativamente sulla corsa alle elezioni presidenziali, come pure la disastrosa gestione dei soccorsi per l’uragano Katrina, nell’estate del 2005 abbattutosi sugli Stati che si affacciavano sul Golfo del Messico, con conseguenze particolarmente gravi per la città di New Orleans. Detta corsa fu prevalentemente condizionata dai successi in guerra e soprattutto sul fatto che, al di là delle riserve emerse sulla gestione del dopoguerra iracheno, il terrorismo costretto, anche se non sconfitto definitivamente, appariva sulla difensiva e comunque non in grado di ripetere un nuovo 11 settembre. Nel corso del 2006 vennero rinnovate le leggi speciali contro il terrorismo, ma in novembre le elezioni di mezzo termine videro i democratici prevalere in entrambi i rami del Parlamento e la sconfitta repubblicana determinò le dimissioni del segretario della Difesa D. Rumsfeld. A pochi mesi dalla scadenza del mandato presidenziale di G.W. Bush ebbe peraltro inizio un periodo fortemente critico per l’economia interna, dovuto dapprima alla crisi dei mutui subprime e al fallimento di molti gruppi bancari nazionali, poi al crollo di Wall Street e delle borse internazionali, accompagnato dal protrarsi della guerra in Iraq. In questa difficile situazione nazionale e internazionale, nel nov. 2008, il popolo statunitense elesse a grande maggioranza alla presidenza l’esponente del Partito democratico B. Obama, un afroamericano che, con un’incisiva campagna mediatica, riuscì a infondere speranza per il futuro, impersonando, con la sua vicenda privata, l’attuazione del sogno americano. Sull’attuazione del suo programma, incentrato sul sostegno dell’occupazione, sull’alleggerimento fiscale per famiglie e imprese, sull’introduzione di forme di welfare, fra cui l’assistenza mutualistica, sugli investimenti pubblici nelle infrastrutture, sugli investimenti nella produzione di energie rinnovabili hanno pesato sia il protrarsi della crisi economica, con una preoccupante crescita della disoccupazione, sia il riaccendersi delle ostilità sul fronte dell’Afghanistan e dell’Iraq, che nel 2010 ha richiesto l’invio di altri 30.000 uomini. Altra causa di preoccupazione nel 2010 è stato il disastro ambientale provocato dall’affondamento di una piattaforma petrolifera nel Golfo del Messico. Le elezioni di mezzo termine hanno segnalato un netto declino del grado di popolarità di Obama e pongono nuovi interrogativi sugli orientamenti dell’opinione pubblica statunitense.