società
Una collettività interdipendente
Secondo il filosofo Aristotele l’uomo è un «animale sociale», cioè tende per natura ad aggregarsi con altri individui. Anche secondo una scienza recente, la sociobiologia, le forme di comportamento sociale – nell’uomo come nell’animale – avrebbero una base biologica. Da secoli questi interrogativi sono al centro del pensiero filosofico e politico: perché esistono le società, e che cosa spinge gli esseri umani a vivere in associazione con altri esseri umani, come membri di gruppi più ampi della famiglia nucleare? Per rispondere a tali domande, nacque nell’Ottocento una disciplina autonoma, la sociologia, che studia le forme, la struttura e le dinamiche di mutamento della società
Società deriva dal latino societas, che significa «unione», «vincolo con altri», «partecipazione». Con questi contenuti la parola è usata in riferimento ad ambiti estremamente eterogenei. Parliamo di società per indicare un gruppo di finanziatori che mettono insieme i loro capitali creando un’impresa (società per azioni), una comunità insediata su un territorio e che condivide una medesima cultura (le società di cacciatori-raccoglitori), l’insieme dei cittadini di uno Stato-nazione (la società italiana), ma anche l’umanità intera (la società umana). Ciò che accomuna questi ambiti disparati, e giustifica l’uso di un medesimo termine, è il carattere di collettività più o meno estese, all’interno delle quali si instaurano rapporti di interdipendenza e interazioni di vario tipo.
Possiamo quindi definire una società come un insieme di individui o parti tra cui si stabiliscono rapporti più o meno organizzati. Come osservava nel Settecento il pensatore francese Charles-Louis de Montesquieu, la società non sono gli uomini, ma è l’unione tra gli uomini: quindi non si tratta di una semplice somma di individui, ma di un complesso strutturato di relazioni tra individui.
Il reticolo di rapporti di interdipendenza che si creano tra le parti di una società – siano esse individui, gruppi, ma anche insiemi di posizioni e di ruoli (cioè prescrizioni di comportamento e aspettative) a essi legati – costituisce la struttura sociale. Le istituzioni (il matrimonio, la proprietà, il diritto e così via) e le unità sociali (la famiglia, le classi e ceti sociali; lo Stato e via dicendo) sono frutto del processo che porta gli uomini ad associarsi, e formano l’organizzazione sociale.
Rielaborando un’idea risalente ad alcune scuole della filosofia greca, vari pensatori del Seicento e del Settecento svilupparono una concezione della società come ordine artificiale creato dagli uomini, e più precisamente come frutto di un patto, un contratto attraverso il quale vengono stabilite le regole del vivere comune e dal quale hanno origine le istituzioni sociali, in primo luogo lo Stato. Al centro di questa concezione vi è l’idea di uno stato di natura che precede la costituzione della società.
Thomas Hobbes aveva una visione molto negativa dello stato di natura: l’aggressività e l’egoismo insiti nella natura umana danno luogo a una condizione di guerra generalizzata di tutti contro tutti. L’esistenza nello stato di natura è «solitaria, misera, sgradevole, brutale e di breve durata». Il bisogno primario di garantire la propria autoconservazione porta quindi gli uomini a stipulare un patto di unione, un contratto sociale, rinunciando alla propria libertà assoluta e trasmettendo a un terzo tutti i diritti necessari al mantenimento della sicurezza. John Locke invece, pur accettando l’idea del contratto come atto costitutivo della società, interpretava lo stato di natura come una condizione già sociale, in cui esistono momenti associativi come la famiglia o la cooperazione economica. L’idea di uno stato di natura come condizione presociale fu ripresa da Jean-Jacques Rousseau, secondo il quale l’uomo nello stato naturale vive isolatoe disperso, privo di una vita di relazione. Anch’egli postula un patto di associazione, un contratto dal quale scaturisce la società come corpo collettivo, una sorta di io comune.
L’approccio evoluzionistico rifiuta l’idea che la società sia frutto di un patto consapevolmente stipulato, e parte dal presupposto che la vita associata è connaturata all’uomo: forme di vita e di organizzazione sociale sono esistite sin dai primordi. Nel tempo si sono progressivamente sviluppate diventando via via più complesse e articolate.
L’idea di una successione di fasi o tappe nella storia dell’umanità aveva radici antiche. Formulata in modo compiuto dai pensatori francesi Montesquieu e Voltaire alla metà del Settecento e sviluppata dagli illuministi scozzesi, questa concezione fu ripresa un secolo più tardi dall’antropologia culturale. Nel 1877 l’antropologo americano Lewis Henry Morgan delineò una serie di stadi successivi di evoluzione delle società umane basandosi sulla tripartizione in stato selvaggio, barbarie e civiltà. Nei primi stadi l’organizzazione sociale è fondata sui rapporti di parentela: prima sul gruppo di discendenza per linea materna o paterna, poi sul clan e sulla tribù guidati da un capo.
Nelle forme più evolute di società si arriva a un’organizzazione politica basata sul territorio e sulla proprietà privata. Dall’esigenza di garantire la proprietà nascono le leggi e le istituzioni politiche, compare lo Stato. Strettamente collegata a questo processo è la progressiva divisione del lavoro e la specializzazione delle funzioni.
La distinzione tra società semplici e complesse fu operata sempre nell’Ottocento anche dal sociologo francese Émile Durkheim. Nelle società semplici o segmentarie la divisione del lavoro è scarsa, le unità che le compongono sono poco differenziate e la coesione deriva dalla credenza di una comune origine o identità. Nelle società complesse, invece, prevalgono la divisione del lavoro e la specializzazione delle funzioni, e la coesione deriva dall’interdipendenza delle diverse funzioni svolte dai gruppi sociali differenziati.
Nell’Ottocento fu sviluppata una concezione, anch’essa di origini antiche, della società come organismo le cui parti sono connesse tra loro da una rete di relazioni di interdipendenza. Un modello organicistico della società fu proposto da due padri fondatori della sociologia, il francese Auguste Comte e l’inglese Herbert Spencer (positivismo). Spencer paragonò la società a un organismo formato da vari organi – la famiglia, le associazioni, le imprese economiche, le istituzioni politiche e così via –, ognuno dei quali assolve una funzione specifica che contribuisce al funzionamento del tutto. Il concetto di funzione fu utilizzato in particolare da Durkheim, secondo il quale per spiegare un fatto sociale è necessario analizzarne la funzione nell’ordinamento della società.
Adottando l’approccio funzionalista, gli antropologi culturali Bronislaw Malinowski e Alfred Reginald Radcliffe-Brown tra la fine dell’Ottocento e i primi del Novecento affermarono che la società è un complesso di parti interconnesse che non possono essere comprese isolandole le une dalle altre. Il mutamento in una delle parti genera un certo squilibrio che produce ulteriori cambiamenti in altre parti e può portare a una riorganizzazione dell’intero sistema.
Il tentativo più ambizioso di elaborare una teoria generale della società partendo da premesse funzionalistiche fu condotto nella prima metà del Novecento dal sociologo statunitense Talcott Parsons. Anch’egli concepisce la società come un tutto organico, più precisamente come un sistema che riceve risorse (input) dall’ambiente circostante e produce a sua volta effetti (output) nell’ambiente.
Ogni sistema sociale per conservarsi deve soddisfare quattro requisiti funzionali: mantenere la propria identità nel tempo, cioè definire i confini tra sistema e ambiente; assicurare l’integrazione tra le sue parti; fissare i propri scopi; organizzare i mezzi per raggiungere gli scopi. Ogni sistema sociale è articolato in sottosistemi che svolgono le funzioni principali: i sottosistemi della famiglia, della religione, dell’educazione hanno la funzione di riprodurre i valori e la cultura che costituiscono l’identità del sistema; il sottosistema del diritto svolge la funzione dell’integrazione; il sottosistema politico la funzione di conseguimento dello scopo e il sottosistema economico la funzione di adattamento dei mezzi ai fini.
Per sopravvivere il sistema ha bisogno di valori e norme comuni, trasmessi nel processo di socializzazione. I sistemi sociali tendono all’equilibrio, ma possono mutare per rispondere alle sfide dell’ambiente esterno aumentando il proprio grado di differenziazione interna.