Misura di sicurezza personale non detentiva consistente nella limitazione della libertà personale del soggetto posta in essere dall’autorità giudiziaria attraverso una serie di prescrizioni tese a impedire la commissione di nuovi reati e favorire il reinserimento sociale. Il codice penale non indica in maniera tassativa le prescrizioni che il giudice può imporre, salvo l’obbligo per il vigilato di non trasferire la propria residenza o dimora in un comune diverso da quello che gli è stato assegnato, nonché quello di informare gli organi della vigilanza di ogni mutamento di abitazione nell’ambito del comune (art. 190 disp. att. c.p.p.). Tuttavia, tra le prescrizioni più frequenti si possono annoverare l’obbligo di un lavoro stabile, di presentarsi al giudice di sorveglianza qualora ne faccia richiesta, il divieto di rientrare in casa dopo un determinato orario, di uscire di casa prima di una certa ora del mattino, di tenere armi o altri strumenti idonei a offendere e di frequentare riunioni o manifestazioni senza l’autorizzazione dell’autorità di pubblica sicurezza. Ogni prescrizione può essere successivamente modificata o limitata dal giudice. La sorveglianza della persona in stato di libertà vigilata è affidata all’autorità di pubblica sicurezza e deve essere esercitata in modo da agevolare, mediante il lavoro, il riadattamento della persona alla vita sociale. La libertà vigilata non può avere durata inferiore a 1 anno, o a 3 anni se è inflitta la pena della reclusione per non meno di 10 anni (art. 230, co. 1, n. 1, c.p.) e qualora non debba essere eseguita la pena dell’ergastolo (art. 210, co. 3, c.p.) per effetto della grazia o dell'indulto. Salvo l’applicabilità di leggi speciali, la medesima disciplina è estesa anche alla vigilanza sui minori. La libertà vigilata è obbligatoria, previo accertamento in concreto della pericolosità sociale del vigilando, nei casi indicati dall’art. 230 c.p.; facoltativa in quelli previsti dall’art. 229 c.p.
Potere di grazia. Diritto costituzionale