Il diritto penale minorile riguarda le leggi e i regolamenti che intervengono quando il minore commette reato e, prendendone in considerazione l’età, stabilisce in quale momento l’individuo raggiunga la capacità di intendere e di volere, che è fondamento dell’imputabilità. Se, infatti, il minore ha un’età inferiore agli anni 14, opera la presunzione di esclusione della capacità di intendere e di volere; se, invece, il minore ha un’età compresa tra i 14 e i 18 anni, la sussistenza di tale capacità è oggetto di valutazione sulla base del caso specifico.
Per lungo tempo la poca attenzione alle specifiche esigenze di soggetti in giovane età ha precluso l’istituzione di un sistema di giustizia penale differenziato: fino al XIX sec. i fanciulli erano sottoposti al giudizio dei tribunali ordinari e subivano le medesime sanzioni degli adulti, anche se più mitigate. Solo nel 1899 fu istituita a Chicago la juvenile court, primo tribunale specializzato, competente a giudicare esclusivamente minorenni in base a regole specifiche. Nel 1904 nacque a Birmingham un analogo tribunale, mentre quattro anni dopo il Children act istituì corti minorili in Inghilterra, Scozia e Irlanda; lo stesso avvenne nel 1912 in Francia e Belgio, nel 1921 nei Paesi Bassi; nel 1922 in Germania, nel 1934 in Italia.
L’attenzione alle specifiche esigenze dei minori ha trovato un riconoscimento internazionale attraverso la risoluzione delle Nazioni Unite sulle «Regole minime per l’amministrazione della giustizia dei minori» (cosiddette Regole di Pechino, 1985) e la raccomandazione del Consiglio d’Europa sulle «Risposte sociali alla delinquenza minorile» (1987). Tali documenti – unitamente all’art. 31, co. 2, Cost., che impone alla Repubblica di proteggere la gioventù, favorendo gli istituti necessari a tale scopo – hanno rappresentato un punto di riferimento essenziale per l’opera di riforma in materia di giustizia minorile attuata dal legislatore italiano, che ha delegato il governo a disciplinare il processo a carico di imputati minorenni considerando le loro particolari condizioni psicologiche, la loro maturità e le esigenze della loro educazione (legge delega n. 81/1987). Tale legge è stata attuata con il d.p.r. n. 488/1988, recante «Disposizioni sul processo penale a carico di imputati minorenni», integrato dal d.p.r. n. 449/1988, relativo all’adeguamento dell’ordinamento giudiziario al nuovo processo penale ordinario e minorile, e dal d. lgs. n. 272/1989, per le norme di attuazione, di coordinamento e transitorie al codice di procedura penale minorile (c.p.p.m.). Nel caso un minore commetta un reato, è fondamentale tenere nella giusta considerazione la finalità rieducativa della pena che in questo caso è subordinata all’interesse-dovere dello Stato al recupero del minore. Tale finalità si evince, ex plurimis, dall’art.1, co. 1, c.p.p.m. nella parte in cui prevede che le disposizioni del processo minorile prevalgano su quelle del codice di procedura penale. In tale ottica possono essere compresi gli istituti che permettono al giudice di evitare, se non necessaria, la prosecuzione del processo: la sentenza di non luogo a procedere per irrilevanza del fatto (art. 27 c.p.p.m.), l’affidamento ai servizi sociali prima della sentenza, con sospensione del processo ed eventuale estinzione del reato in caso di esito positivo della prova (art. 28 c.p.p.m.). Per evitare che la peculiare invasività del processo penale possa ledere l’immagine del minore agli occhi della comunità sono previsti: il divieto di pubblicare o divulgare notizie o immagini idonee a consentire l’identificazione del minore coinvolto nel procedimento; l’eliminazione, al diciottesimo anno di età, delle iscrizioni relative ai provvedimenti giudiziari diversi da quelli di condanna a pena detentiva; lo svolgimento dell’udienza a porte chiuse (salvo che l’imputato già sedicenne chieda che l’udienza sia pubblica).