In filosofia, l’assunzione congiunta della tesi che un enunciato ha significato se, e solo se, è possibile la sua verificazione, e della tesi che il significato di un enunciato è il metodo della sua verificazione. Alla base del p. vi sono alcune idee dei pragmatisti C.S. Peirce e W. James, ma la sua formulazione esplicita è dovuta ai filosofi del Circolo di Vienna che l’attribuirono a L. Wittgenstein. Nel Tractatus logico-philosophicus il p. di verificazione non compare esplicitamente: la formulazione che più gli si avvicina si trova là dove si afferma che «comprendere una proposizione vuol dire sapere che accada se essa è vera» (Tractatus, 4024), o che la conoscenza del senso di una proposizione è data dalla conoscenza delle sue condizioni di verità. Il p. di verificazione può essere considerato vicino ad alcune tesi di P.W. Bridgman (The logic of modern physics, 1927), da cui risulta che il significato di un concetto è dato dall’insieme di operazioni che lo definiscono e che problemi e domande non hanno significato se non è possibile trovare operazioni mediante cui fornire le risposte. A ogni modo, il p. è stato ampiamente discusso nel quadro teorico del neoempirismo, e la sua storia si confonde con quella dei tentativi di stabilire un criterio di significanza che separi gli enunciati dotati di significato da quelli che ne sono privi. La motivazione per la ricerca di un simile criterio è riconducibile all’esigenza di opposizione alla metafisica che, per i neoempiristi, è in grado di esprimere unicamente pseudo-asserzioni, ossia enunciati privi di significato cognitivo. Secondo questa concezione risultano forniti di significato cognitivo (contrapposto a emotivo) solo gli enunciati che hanno significato empirico e quelli che hanno significato logico (enunciati analitici). Inizialmente, chiarito che la verificazioneverificabilità andava considerata come possibilità «in linea di principio» (escludendo dunque come rilevanti le particolari condizioni che in una determinata circostanza potrebbero determinare l’impossibilità di una verifica), i neoempiristi richiedevano che gli enunciati fossero verificabili conclusivamente, il che per gli enunciati di forma universale riproponeva i tradizionali problemi connessi al procedimento induttivo. Risulta, infatti, che tali enunciati, e quindi le leggi fisiche, non possono essere conclusivamente verificati (stabiliti come veri) a causa del numero pressoché infinito di attestazioni empiriche che una tale verifica implicherebbe. Questa obiezione, dovuta principalmente a K.R. Popper, avrebbe dato luogo a vari tentativi di indebolimento dell’originario p. di verificazione, i più importanti dei quali sono dovuti a A.J. Ayer e Carnap. Ayer considerava verificabile un enunciato se da esso in congiunzione con altre premesse si possono dedurre enunciati di osservazione non deducibili dalle sole altre premesse. Una strada, in parte diversa, fu intrapresa da Carnap che, sostituendo al concetto di verificabilità quello più debole di confermabilità, considerava confermabile un enunciato se alcune esperienze possibili possono contribuire (negativamente o positivamente) alla sua conferma: così, al concetto di verificazione veniva sostituito quello di conferma gradualmente crescente (nel caso di attestazioni empiriche positive) di un’ipotesi o di una legge scientifica.
Il destino del p. di verificazione fu tuttavia segnato dalle crescenti difficoltà in cui si imbatté il programma riduzionistico del neoempirismo. Autori come C.G. Hempel e W.V.O. Quine infatti segnalarono, a partire dai primi anni 1950, l’impossibilità di applicare un procedimento di verifica, o anche solo di conferma, ai singoli enunciati, considerando empiricamente significanti le intere teorie a cui gli enunciati appartengono.