Orientamento (detto anche decostruttivismo) emerso nella produzione architettonica degli ultimi due decenni del 20° sec. nel panorama sia statunitense sia europeo. Pur non trattandosi di un movimento dai contorni definiti, risulta caratterizzato dalla tensione verso le linee meno esplorate dell’eredità delle avanguardie storiche e, in particolare, dall’interesse per il costruttivismo russo trovando, più o meno esplicitamente, fonti di sostegno teorico nel pensiero filosofico poststrutturalista di J. Derrida. In termini stilistici il d., distinguendosi dagli atteggiamenti e dalle teorie del cosiddetto ‘postmodernismo’, ha rifiutato ogni forma d’interesse per il recupero della storia del passato, abbandonando l’ortodossia modernista e operando una cesura della continuità con il razionalismo e con le sue più o meno tarde derivazioni. In termini tecnologici ha prediletto l’uso di materiali quali il vetro e l’acciaio, ma anche il cemento armato, usato spesso ai limiti delle sue possibilità e della sua efficacia espressiva.
Le prime esperienze progettuali e costruttive riferibili al d. sono state oggetto di dibattito nell’International symposium on deconstruction, organizzato alla Tate Gallery di Londra nel 1988; ma fu soprattutto la mostra Deconstructivist architecture, allestita nello stesso anno da P. Johnson e M. Wigley al Museum of modern art di New York, a codificare e lanciare sul piano internazionale questa particolare tendenza attraverso la presentazione dei lavori di sette architetti: F.O. Gehry, D. Libeskind, R. Koolhaas, P. Eisenman, Z. Hadid, Coop Himmelb(l)au, B. Tschumi. Esponenti del d. sono stati considerati, almeno per talune fasi del loro lavoro, G. Behnisch, Th. Mayne, M. Rotondi, E.O. Moss e altri.
In ambito critico-letterario, metodologia critica, nata negli Stati Uniti negli anni 1970 nella cosiddetta scuola di Yale (P. De Man, H. Bloom, G. Hartman e J.H. Miller), che si rifà al pensiero filosofico di J. Derrida. La genesi dei concetti di cui il d. si serve può essere rintracciata nell’ermeneutica, nella critica dello strutturalismo classico di F. de Saussure e C. Lévi-Strauss, e in qualche modo anche nella filosofia di F. Nietzsche e M. Heidegger. Diversamente dalle metodologie tradizionali, il d. si propone non di stabilire quali siano i significati e il senso globale di un testo letterario ma di metterne in luce quelle contraddizioni concettuali e linguistiche che gli impediscono di emettere un messaggio ‘pieno’ e coerente. Per il d. il testo è una realtà irrimediabilmente plurale, costituita da un continuo gioco di rinvii, non perché il linguaggio letterario sia caratterizzato da una peculiare ricchezza semantica, ma perché tutti i tentativi di interpretare il testo devono essere visti come ricostruzioni inevitabilmente parziali e arbitrarie e, nei limiti in cui pretendono di metterne in luce un insieme determinato di significati, come operazioni totalizzanti che mirano a occultarne la costitutiva indeterminatezza.