Pena corporale consistente nel percuotere con il flagello.
Una f. di carattere rituale è largamente documentata nelle religioni primitive e antiche. Il significato della f. (o battitura) rituale oscilla tra due poli, uno catartico-esorcistico, e l’altro magico-fecondativo. A una finalità magico-fecondativa sono sembrate connettersi le f. in uso nelle feste di Attis, nel quadro della religione frigia di Cibele, fino in epoca tardo-romana. Ma proprio nell’ambito di culti asiatici similari, la f. appare profondamente inserita in un contesto cerimoniale di natura catartico-espiatoria, come risulta dalla testimonianza di Apuleio, relativa ai sacerdoti itineranti della Dea Siria, o da quella di Plutarco sulle f. inflitte ai fedeli consacrati alla Magna Mater; in queste cerimonie lo strumento usato è descritto come un vero e proprio staffile fatto di strisce di cuoio guarnite di astragali (flagrum), e trova riscontro nelle pratiche espiatorie babilonesi. Alla base di queste f. rituali si intravede l’intenzione di eliminare, con il sangue che ne è prodotto, il miasma pericoloso e dannoso che si è costituito con una qualsiasi rottura dell’ordine morale e normale del comportamento. In questa prospettiva, la capacità catartica della f. si trova a essere solidale con pratiche analoghe in concomitanza a cerimonie volte a promuovere la fecondità, che richiede la rimozione preliminare di qualsiasi impurità. Ciò è evidente nei Lupercali romani, in cui la f. (di donne), associata ad altre cerimonie lustrali, preparava l’aprirsi del nuovo anno con la fecondità a esso inerente. F. rituali di donne si eseguivano anche alle None Caprotine (7 luglio) e per le feste di Fauna o Bona Dea (1° maggio). A Sparta era famosa la f. dei giovani davanti al simulacro d’Artemide Ortia.
Già prevista da regole monastiche e attuata da asceti, la pratica dell’ autoflagellazione, intesa come pena o come mezzo di mortificazione e penitenza, nel 13° sec. diede origine, insieme con il riaccendersi di aspettative apocalittiche, a movimenti di flagellanti, come quello iniziato in Perugia da Ranieri Fasani nel 1260, chiamato dei disciplinati o con altri nomi (battuti, frustati ecc.) e vietato da papa Alessandro IV. L’uso dell’autoflagellazione rimase in confraternite che praticavano anche la carità (per es., la Compagnia dei disciplinati del Ss. Salvatore, nel Laterano). Nel secolo successivo vi furono nuovi movimenti collettivi di flagellanti: alcuni rimasero nell’ambito dell’ortodossia e della disciplina ecclesiastica (come quello del beato Venturino da Bergamo, 1334), in altri invece a elementi gioachimiti si unirono anche altre credenze eterodosse (per es., che l’autoflagellazione procurasse la remissione dei peccati come un secondo battesimo e anche fuori dei sacramenti della Chiesa). Di questo tipo fu il moto, scoppiato nel 1349 in occasione della peste nera e condannato da Clemente VI. Una ripresa si ebbe ancora in Italia alla fine del 14° sec., con i Bianchi, e fuori d’Italia al principio del 15° sec. (Aragona, Turingia e Bassa Sassonia). Un movimento analogo si ebbe nella setta russa dei chlysty.