L’insieme delle norme (formali o informali) dirette alla gestione delle politiche del lavoro e delle relazioni sindacali. Il sistema delle relazioni industriali si è affermato nelle democrazie capitalistiche di pari passo con l’estensione dei meccanismi del welfare State, venendo a costituire un contesto di relazioni specifiche e differenziate, all’interno del sistema politico, nel quale si svolgono processi di scambio e di decisione in materia di politiche economiche e sociali rilevanti per l’intera collettività. Principali attori delle relazioni sindacali sono le cosiddette parti sociali, termine che identifica le organizzazioni rappresentative dei lavoratori, da un lato, e dei datori di lavoro, dall’altro, ai quali si aggiunge, sempre più di frequente, lo Stato in funzione di mediatore o di portatore di inte;ressi. Questo confronto – bilaterale o trilaterale – si svolge normalmente distinto in almeno due fasi: negoziazione e regolazione. La prima fase è regolata a livello comunitario dagli art. 138 e 139 del TCE (come modificato dal Trattato di Amsterdam del 1997), che hanno individuato nel metodo del «dialogo sociale» lo strumento di gestione, da parte della Commissione Europea, della politica sociale. Essa si svolge, in Italia, principalmente sotto forma di concertazione triangolare – tra Stato e parti sociali – e di concertazione locale – mediante patti di integrazione sociali, patti di sperimentazione organizzativa e patti di innovazione regolativa. La fase della regolazione, invece, riguarda la decisione e, spesso, la formalizzazione di tutte quelle norme che andranno a governare i rapporti di lavoro dipendente. In dottrina, con particolare riferimento alle esperienze europee e nordamericane sono stati individuati tre modelli fondamentali di relazioni industriali. Nel cosiddetto modello pluralista lo strumento di regolazione tipico è la contrattazione collettiva, la cui struttura presenta gradi notevoli di autonomia e scarsa centralizzazione; i criteri di regolazione dominanti sono quelli del mercato, anche se possono continuare a operare, in luoghi e settori particolari, criteri legati alla tradizione. Un secondo modello, sotto molti aspetti speculare rispetto al primo, è quello statalista (rispetto al quale, in realtà, è improprio parlare di relazioni industriali), in cui la contrattazione collettiva è sostituita dall’intervento legislativo, oppure opera entro strutture totalmente eteronome e con forte centralizzazione (almeno per quanto attiene alla contrattazione formale e ufficiale); in questo caso dominano i criteri politici di regolazione – in versione autoritaria – che filtrano anche le possibili esigenze del mercato. Infine, il modello partecipativo o del pluralismo fortemente organizzato, storicamente nato dalla reazione alla crisi del modello pluralista puro nelle società industriali europee con assetti socialdemocratici; qui la contrattazione collettiva continua a svolgere un ruolo decisivo – pur affiancandosi a forme di partecipazione nelle imprese e nella gestione delle politiche economiche e sociali – e può mantenere una struttura autonoma, ma è fortemente controllata al suo interno dai livelli centrali di negoziazione. I criteri politici si affiancano a quelli di mercato, con effetti di moderazione o di composizione dei contrasti di interesse. Possono diffondersi criteri di regolazione di carattere associativo-collaborativo.
Contratti collettivi di lavoro