Ai sensi dell’art. 43 del d. lgs. n. 286/1998, è considerato discriminatorio ogni comportamento che, direttamente o indirettamente, comporti distinzione, esclusione, restrizione o preferenza basata sulla razza, il colore, l’ascendenza, l’origine o la convinzione religiosa. In particolare, oltre a essere oggettivamente discriminatorio, il comportamento deve avere lo scopo o l’effetto di distruggere, o quantomeno di compromettere, il riconoscimento, il godimento o l’esercizio dei diritti umani e delle libertà fondamentali in campo politico, economico, sociale e culturale e in ogni altro settore della vita pubblica. La definizione è comprensiva sia dei casi di discriminazione diretta, sia di quelli di discriminazione indiretta. Inoltre, non è richiesto lo scopo di perseguire il risultato discriminatorio, essendo sufficiente, per considerare illecito il comportamento, il fatto che questo abbia l’effetto di produrre la discriminazione.
Oltre alla tutela civile prevista e disciplinata dalla legge sopra indicata, la legislazione italiana contiene altre norme, di stampo penale, destinate a sanzionare il rischio di discriminazioni razziali, etniche o religiose. La l. n. 654/1975, per esempio, all’art. 3 punisce con la reclusione da 15 giorni a 3 anni chiunque diffonda idee fondate sulla superiorità o sull’odio e con la reclusione da 6 mesi a 4 anni chiunque inciti a commettere, o commetta lui stesso, violenza o metta in atto provocazioni, motivate da idee di superiorità razziale, etnica, o religiosa. A scopo preventivo viene altresì punita la semplice partecipazione o l'assistenza prestata a una qualunque associazione che abbia tra i suoi scopi l’incitamento alla discriminazione, ovvero alla violenza. I partecipi sono puniti con la reclusione da 6 mesi a 4 anni e i dirigenti con quella da 1 a 6 anni. Sono previste anche possibili sanzioni accessorie, tra le quali l’obbligo di prestare un’attività non retribuita a favore della collettività. Il successivo d.l. n. 122/1993, convertito nella l. n. 205/1993, ha ampliato la sfera di punibilità dei comportamenti potenzialmente razzisti, in quanto ha disposto il divieto di manifestare in pubbliche riunioni ostentando simboli di associazioni di stampo razzista, pena la reclusione fino a 3 anni. Nei confronti delle persone denunciate o condannate per i reati di propaganda razziale, incitamento alla violenza per motivi razziali, ovvero per partecipazione ad associazioni di stampo razzista, opera il divieto, ispirato da evidenti finalità preventive, di accedere ai luoghi ove si svolgono competizioni agonistiche, pena l’arresto da 3 mesi a 1 anno. Tra le varie norme introdotte da questa legge, è importante ricordare l’art. 3 che ha previsto una particolare aggravante, applicabile quando un qualunque reato è stato commesso per finalità di discriminazione, odio etnico ecc., ovvero per favorire un’associazione che di tale discriminazione faccia il proprio scopo.
Sotto il profilo giurisprudenziale, la Corte di cassazione (sent. n. 44295/2005) ha affermato che, ai fini della configurabilità dell’aggravante in questione, non può considerarsi sufficiente che l’odio etnico, nazionale, razziale o religioso sia stato il sentimento che ha ispirato dall’interno l’azione delittuosa, occorrendo invece che questa, per le sue intrinseche caratteristiche e per il contesto nel quale si colloca, si presenti come intenzionalmente diretta e almeno potenzialmente idonea a rendere percepibile all’esterno e a suscitare in altri il suddetto, riprovevole, sentimento o comunque a dar luogo, in futuro o nell’immediato, al concreto pericolo di comportamenti discriminatori per ragioni di razza, nazionalità, etnia o religione. Pur essendo contenuta nelle disposizioni del testo unico del 1998, la nozione di comportamento discriminatorio non riguarda soltanto i cittadini stranieri, ben potendo applicarsi anche agli italiani che subiscano discriminazioni in merito alla razza, al colore, alle origine o alle convinzioni religiose.