L’insindacabilità parlamentare rientra tra le c.d. immunità parlamentari e costituisce la più importante tra le prerogative del parlamentare. In base ad essa, il parlamentare, anche se cessato dalla carica, non può essere chiamato a rispondere giuridicamente dei voti dati e delle opinioni espresse nell’esercizio delle sue funzioni.
Da un punto di vista storico, l’irresponsabilità del parlamentare per le opinioni espresse e i voti dati si può ritrovare già nel Bill of Rights inglese (1689), nella parte in cui si affermava che la libertà di parola, di discussione e di procedura in seno al Parlamento non potesse essere intralciata in nessuna corte o luogo al di fuori del Parlamento stesso. Questa affermazione è stata ripresa poi in tutti i più importanti documenti costituzionali successivi (tit. III, cap. I, sez. V, art. 7 Cost. Francia 1791; art. 110 Cost. Francia 1795; art. 44 Cost. Belgio 1831; art. 36 Cost. Francia 1848; art. 51 Statuto albertino; tit. IV, art. VIII, par. 120, Cost. Francoforte 1849; art. 30 Cost. Germania 1871) e si ritrova ancora nelle Costituzioni odierne (art. 68 Cost.; art. 46 Legge fondamentale Germania 1949; art. 26 Cost. Francia 1958; art. 71 Cost. Spagna 1978; art. 162 Cost. Svizzera 1999).
Con la modifica dell’art. 68 Cost. a seguito l. cost. n. 3/1993 e la conseguente abolizione dell’istituto dell’autorizzazione a procedere, nell’ordinamento italiano non è più necessario il consenso della Camera di appartenenza per sottoporre un parlamentare a giudizio. Di conseguenza, il giudice può procedere contro il parlamentare, salvo arrestarsi nel caso in cui la Camera deliberi che l’attività del parlamentare sia coperta da insindacabilità ex art. 68, co. 1, Cost. In questo caso, all’autorità giudiziaria non rimane altro che sollevare un conflitto di attribuzione nei confronti del Parlamento, per invasione della propria sfera di competenza, di fronte alla Corte costituzionale. Va detto che, soprattutto negli ultimi due decenni, l’insindacabilità parlamentare, da strumento posto a tutela dell’indipendenza del parlamentare nei confronti degli altri poteri (esecutivo e giudiziario), è stata invocata per coprire qualunque tipo di dichiarazione o di comportamento, anche in situazioni che esulavano oggettivamente dall’esercizio delle funzioni parlamentari.
Per ovviare a questa distorsione, la Corte costituzionale, a partire dal 1998, ha svolto un controllo più rigoroso sulle deliberazioni parlamentari ex art. 68, co. 1, Cost., arrivando a richiedere l’esistenza di un «nesso funzionale» tra le dichiarazioni o i comportamenti per cui il deputato è chiamato a rispondere davanti all’autorità giudiziaria e l’esercizio della funzione parlamentare. Del pari, quanto alle dichiarazioni rese o ai comportamenti tenuti al di fuori delle aule parlamentari (c.d. extra moenia) – come nel caso, ad esempio, di un dibattito televisivo – la giurisprudenza costituzionale ha ritenuto tali dichiarazioni o comportamenti «coperti» dall’insindacabilità parlamentare solo se riconducibili a una dichiarazione resa o a un comportamento tenuto all’interno dell’Aula.
Questa vera e propria «svolta» nell’ambito della giurisprudenza costituzionale è stata ribadita anche nelle sentenze successive, quando la l. n. 140/2003 ha cercato di allargare nuovamente la sfera dell’insindacabilità parlamentare, includendovi tutti i fatti che abbiano una pur minima connotazione politica (la l. n. 140/2003 parla di «ogni altra attività di ispezione, di divulgazione, di critica e di denuncia politica, connessa alla funzione di parlamentare, espletata anche fuori del Parlamento»).
Nonostante il maggior rigore da parte della giurisprudenza costituzionale, tuttavia, la Corte E.D.U. ha più volte condannato l’Italia perché, a suo avviso, il meccanismo dell’insindacabilità parlamentare finisce con il ledere il diritto alla tutela giurisdizionale di cui all’art. 6 C.E.D.U. di chi subisce un pregiudizio dall’attività del parlamentare.
Immunità. Diritto costituzionale