Narrare con le immagini
Nella preistoria, quando la scrittura non esisteva, le immagini erano un modo di comunicare. L'artista incideva sulle pareti delle grotte le sue paure, le sue credenze, ma anche la vita quotidiana della sua tribù. Per fare questo si serviva di figure e di simboli che, arrivati sino a noi, sono divenuti documenti e testimonianze preziose.
L'arte rupestre che si sviluppa nel Paleolitico Superiore (36.000÷10.500 a.C.) è opera di Homo sapiens. Le prime pitture rupestri (eseguite, cioè, sulla roccia) furono scoperte nel 1879 in una grotta ad Altamira, nel Nord-Ovest della Spagna: rappresentano animali (soprattutto bisonti, ma anche cervi e cavalli) affiancati da segni geometrici quali triangoli, ovali, rettangoli. Inizialmente i paleontologi non credevano che raffigurazioni così vive e realistiche potessero essere state realizzate da uomini dell'era glaciale. Ma, da quando vennero scoperte altre pitture rupestri attribuibili allo stesso periodo, accettarono l'idea dell'esistenza di una vera e propria arte preistorica.
Le grotte usate per le pitture non erano abitate. Erano probabilmente luoghi sacri dove si svolgevano cerimonie religiose propiziatorie (forse accompagnate da danze e canti) per conquistare la benevolenza degli dei, affinché aiutassero l'uomo primitivo a sopravvivere e gli rendessero favorevole la caccia.
Le figure ritrovate sulle pareti delle grotte sono per lo più riferite al mondo animale: scene di caccia associate a simboli femminili e maschili, che rappresentano la coppia umana e fanno pensare alla continuazione della specie e alla sua sopravvivenza. Per il cacciatore paleolitico non esisteva probabilmente contrapposizione tra realtà e immagini: dipingendo la realtà pensava di impadronirsene e di acquistare così un potere soprannaturale.
Nelle pitture preistoriche non sono rappresentati i paesaggi. L'uomo si raffigura in maniera stilizzata o attraverso l'impronta delle sue mani, spesso alternate a segni. Segni, mani e animali sono disposti in un ordine preciso: quasi come una forma di scrittura.
Durante il Neolitico (7000÷2000 a.C.) le forme della pittura e della scultura cambiano. Una nuova società si è costituita: l'uomo coltiva la terra e alleva gli animali. La caccia non è più l'unica risorsa e nelle raffigurazioni rupestri appaiono uomini, piante, animali ma anche oggetti di uso quotidiano. In Valcamonica (Lombardia) fiorì una civiltà preistorica, quella dei Camuni, che produsse numerosi graffiti rupestri, segni incisi sulla roccia rappresentanti primitive architetture e piantine di villaggi, (come, per esempio, la Mappa di Bedolina), scene di caccia, idoli.
Gli artisti della preistoria sapevano creare anche effetti di prospettiva, disegnando cioè in basso ciò che doveva apparire più vicino e in alto ciò che era più lontano. Sovrapponevano le immagini, creavano rilievi per dare movimento alla figura. Sono più di 450.000 le incisioni finora portate alla luce: un grande libro inciso su pareti di pietra che ci narra di un periodo storico che va dai cacciatori arcaici fino all'età romana.
Con il carbone di legna si tracciavano i contorni della figura da rappresentare e, per colorare, si usavano le ocre (terre gialle e rosse molto diffuse in natura), oppure terre argillose che prima dovevano essere polverizzate e mescolate con acqua. I colori si stendevano con i polpastrelli o con pennelli costruiti con crini di cavallo o con setole di altri animali.
I disegni sulle pareti delle grotte raccontano storie di vita quotidiana. Nella grotta di Lascaux, in Francia, un cacciatore con una maschera da uccello è ucciso dal bisonte che sta cacciando. Poco sotto è raffigurato il palo funerario, ovvero la tomba del cacciatore, sormontato da un uccello.
Tracce di fumo e di grasso ci fanno pensare che gli artisti lavorassero nella profondità delle grotte, illuminandole con torce che bruciavano grasso animale.
La scrittura, le immagini, i suoni nascono dall'istintivo bisogno di comunicare. Il disegno per primo ha raccontato la storia e ha dato visibilità alle idee. Nel 20° secolo gli artisti hanno utilizzato nelle loro opere, oltre alle immagini, anche la scrittura, infrangendo le barriere che separavano le diverse forme d'arte e rimescolando i rapporti tra parola e immagine
Nella storia dell'uomo il disegno ha preceduto la scrittura. Lentamente, i disegni usati per comunicare si sono stilizzati, trasformandosi prima in segni e simboli e poi in alfabeti. Ma il legame tra disegni e scrittura è rimasto molto stretto nell'arte della calligrafia. In Cina, per esempio, la scrittura è sempre stata una vera e propria arte, fatta di disegni e di combinazioni di segni, detti ideogrammi. La scrittura cinese rappresenta oggetti, fatti o concetti e utilizza gli stessi strumenti della pittura: pennelli morbidi, pietra per l'inchiostro, carta e seta.
Anche la scrittura araba è un'arte, una calligrafia, che diviene l'elemento decorativo principale dell'architettura o di oggetti metallici e di vetro o anche di bellissime ceramiche.
Nel Medioevo furono i monaci (v. monachesimo) copisti delle grandi abbazie a creare l'arte della miniatura: si tratta di lettere disegnate e abbellite con decorazioni, personaggi, animali o fiori. L'origine della parola miniatura deriva dall'uso del minio, un minerale di colore rosso con cui si fabbricava l'inchiostro usato dai monaci.
Il monaco miniatore non si preoccupa che la lettera miniata sia ben leggibile: la prima lettera del testo viene decorata e quasi 'soffocata' dai motivi ornamentali e assume così anche un valore magico e simbolico.
Nel Rinascimento, con l'invenzione della stampa, le lettere perdono i significati simbolici per diventare solo segni. La realizzazione dei caratteri tipografici diviene anche oggetto di studio: il matematico Luca Pacioli, amico di Leonardo da Vinci, elabora un sistema per il calcolo delle proporzioni delle lettere che rimarrà un punto di riferimento per la produzione a stampa di tutto il 16° secolo.
Nella Francia di fine Ottocento alcuni poeti propongono un nuovo rapporto tra scrittura e immagine: Mallarmé dispone i versi sulla pagina in modo che gli spazi bianchi attorno alle parole scritte rappresentino il silenzio che circonda la voce del poeta. Apollinaire crea una forma espressiva, detta calligramma, dove le lettere delle parole, o le parole stesse, sono disposte in modo da illustrare il significato di ogni poesia.
Viceversa, nei quadri degli artisti dei primi del Novecento, appartenenti alle correnti del futurismo, del cubismo e del dadaismo (tra questi Raoul Hausmann), iniziano ad apparire lettere ritagliate dai giornali e incollate sulla tela, caratteri tipografici che non hanno altra funzione se non quella di creare un'immagine, un disegno: si infrangono in questo modo gli schemi tradizionali che vedevano una netta separazione tra le diverse forme d'arte (pittura, poesia, grafica) e nel quadro convivono parole, testi, immagini, colore.
Filippo Tommaso Marinetti, pittore e poeta italiano, fonda nel 1909 il futurismo. Il futurismo è un movimento letterario e artistico che, criticando la poesia e la pittura tradizionali, vuole esprimere nelle proprie opere le novità tecnologiche apportate nella società dal progresso industriale, come la velocità nei trasporti e la luce elettrica.
La carica trasgressiva e l'energia creativa dei futuristi trasformano anche la pagina e il libro. I poeti spaziano sulla pagina stampata collocando in modo inusuale parole e lettere dell'alfabeto e dando risalto anche agli spazi vuoti: nascono le "pagine tipograficamente pittoriche", che assomigliano a pitture senza essere né disegnate né colorate. Nel 1927 l'artista Fortunato Depero realizza il primo Libromacchina imbullonato con due bulloni prelevati dall'officina e applicati sulla copertina di cartone rigido.
Dal 1933 nascono i primi libri di latta, i primi non-libri, i libri oggetto.
Per la storia dell'uomo la fine del primo millennio fu un periodo di estrema importanza. Dopo una lunga stasi, l'Europa conobbe nuovi sviluppi e progressi di tipo economico, politico, culturale e urbanistico. Le arti rifiorirono anche grazie alla Chiesa, che commissionò agli artisti dell'epoca importanti cicli di affreschi per abbellire i suoi edifici.
L'edificio principale della città medievale fu la cattedrale. Quella romanica, generalmente massiccia e imponente, proponeva cicli di affreschi realizzati su pareti e pilastri. Queste superfici erano perfette per accogliere le storie sacre della Bibbia o dei Vangeli che, raccontando il male, il peccato, il bene, la vita e la morte, avevano lo scopo di trasmettere ai fedeli messaggi volti all'insegnamento della dottrina cattolica e all'ammonizione dei peccatori.
Uno dei cicli di affreschi medievali più importanti si trova nella Basilica di San Francesco ad Assisi ed è stato eseguito, verso il 1290, da Giotto di Bondone. Il pittore ha affrescato le storie del santo portando una ventata di novità: san Francesco è rappresentato come un uomo semplice, ha l'aureola ma è inserito in una dimensione di vita quotidiana. Tutti i personaggi del grande ciclo giottesco, formato da 28 scene in ordine cronologico, sono resi in maniera realistica e questo traspare dai loro gesti, che rivelano emozioni e sentimenti. Le strutture architettoniche presenti negli affreschi creano il senso della profondità in paesaggi che mai fino allora erano stati così naturalistici.
Le Storie della croce, affrescate da Piero della Francesca tra il 1452 e il 1466 nel coro della Chiesa di San Francesco ad Arezzo, sono tratte da una leggenda che narra le vicende del legno utilizzato per realizzare la croce sulla quale venne crocifisso Gesù. Gli affreschi rappresentano uno dei momenti più alti della pittura del Quattrocento. In particolare, l'episodio del Sogno di Costantino si ricorda per essere il primo dipinto italiano ambientato di notte. Come emerge anche dall'episodio dell'Incontro di Salomone con la regina di Saba, Piero della Francesca era affascinato dallo studio della luce e dei giochi ottici. A questo studio accompagnava l'uso rigoroso della geometria e l'applicazione di regole matematiche che servivano a creare figure dai volumi armoniosi ed equilibrati.
Una delle più grandi sfide affrontate dalla pittura italiana è rappresentata dagli affreschi della Cappella Sistina, nei Palazzi Vaticani, a Roma. L'impresa, iniziata da papa Sisto IV nel 1481, ven-ne completata da Giulio II nel 1512. Questi affidò l'incarico a Michelangelo Buonarroti, che dedicò quattro anni della sua vita a dipingere ben 500 metri quadrati della volta della Cappella. Il tema principale, la creazione dell'uomo e l'onnipotenza di Dio, era pensato per istruire i fedeli sull'Antico Testamento. Le grandi figure sono possenti, ritratte dal basso in alto, con colori squillanti e forti, e possono essere paragonate a sculture dipinte.
All'interno della città medievale sorge una nuova realtà: la bottega artigiana. Essa è il luogo in cui giovani aspiranti artisti vivono e lavorano al fianco del maestro pittore (ma anche gli scultori avevano le loro botteghe), con lo scopo di apprenderne tutti i segreti del mestiere. Quando sono alle prime armi triturano i colori e preparano le tavole di legno con gesso e tela; poi, divenuti più esperti, disegnano, dipingono ed espongono le loro opere all'ingresso della bottega.
Per fare un affresco sono necessari colori naturali che, una volta miscelati con l'acqua, vengono stesi sul muro da affrescare, rivestito in precedenza con uno strato di calce: la calce, asciugandosi, trattiene i colori. Dalla fine del Quattrocento gli artisti non disegnano solo direttamente sul muro ma preparano il disegno su un cartone. I contorni del disegno vengono traforati e il cartone viene appoggiato al muro. Con polvere di carbone si spolvera il disegno traforato (tecnica dello spolvero), il quale lascia sull'intonaco fresco le tracce del contorno da affrescare.
Le città portano in sé l'immagine del tempo che è trascorso. Dalle città emergono non solo le tracce della storia, ma anche idee sul modo di abitare. Per secoli, filosofi, architetti, pensatori religiosi o laici hanno immaginato, e a volte realizzato, luoghi e città dove l'uomo potesse vivere in armonia in un ambiente adeguato alle sue esigenze.
Per millenni, gli uomini hanno sognato luoghi in cui vivere: dal giardino dell'Eden di Adamo ed Eva, descritto dalla Bibbia come luogo di felicità assoluta, alla Gerusalemme celeste, che l'Apocalisse di San Giovanni descrive "brillante d'oro e adorna di zaffiri". Nella Grecia del 5° secolo a.C. la città era un argomento su cui si discuteva molto: dall'architetto Ippodamo da Mileto, che desiderava una città armoniosa e ordinata, al filosofo Platone, che sognava una città dove artigiani, guerrieri e saggi avessero ognuno il proprio posto, ad Aristofane, che nella sua commedia Gli Uccelli immaginava una città rifugio per i saggi, sospesa tra cielo e terra.
Ambrogio Lorenzetti, tra il 1337 e il 1339, ha dipinto, nella Sala dei Nove del Palazzo Pubblico di Siena, un grande affresco che rappresenta una visione ideale del territorio e delle città dove si viveva nel Medioevo. Con straordinaria precisione e grande abilità sono raffigurati le architetture, il paesaggio del contado, le persone che agiscono in quei luoghi e li animano. Tutto sembra scorrere in perfetta armonia: e infatti l'affresco porta il nome di Buongoverno. Contrapposto a questo affresco è quello del Malgoverno dove sono messe in scena situazioni di vita in una città governata senza giustizia e senza ordine.
La città ideale del Rinascimento rispecchia il modo in cui veniva concepita la vita: l'uomo doveva essere la "misura di tutte le cose" e quindi tutta la realtà doveva adeguarsi alle sue esigenze. Disegni e dipinti documentano come architetti e artisti immaginassero le città: strade larghe e dalle luminose prospettive, armonia delle proporzioni, perpendicolarità dei tracciati e uso dei diversi ordini dell'architettura. Ci sono rimaste testimonianze di città ideali progettate da architetti rinascimentali e mai realizzate, e ne troviamo traccia anche in alcuni dipinti del periodo. Per esempio, ne La consegna delle chiavi del 1482 di Pietro Vannucci, detto il Perugino, la piazza in cui è ambientata la scena è chiaramente frutto di uno studio ideale, non ispirato da città veramente esistenti. I Funerali di San Bernardino del 1490 di Bernardino Betti, detto il Pinturicchio, sono ambientati in uno spazio cittadino assolutamente immaginario, in cui regnano ordinatamente piazze, logge e archi di trionfo: sogni di spazi ideali in cui gli edifici vengono disposti in ordine d'importanza dal centro alla periferia.
Nella città ideale dei futuristi l'arte si mette al servizio della tecnica e della macchina. Boccioni, massimo interprete del dinamismo della città industriale, dipinge La città che sale (1910), quadro in cui la metropoli moderna diventa un vortice di luci, di rumori, di colori e di movimento. Anche in Visioni simultanee e in La strada entra nella casa (entrambi del 1911) la città si trasforma in una sorta di esplosione violenta in cui la folla, i tram, le automobili, gli edifici si scontrano in un caotico paesaggio urbano.
Per secoli la Grecia ha influenzato la cultura dell'antica Roma attraverso i suoi miti, la sua letteratura, la sua filosofia. Anche per le arti figurative è stato così: la scultura romana, per esempio, risente dell'influenza di quella greca. Con la conquista della Grecia il mondo romano acquisisce una sensibilità e un gusto estetico fino ad allora sconosciuti.
L'arte si sviluppa in Grecia nell'epoca arcaica, tra l'8° e il 6° secolo a.C. Esempio di questo stile sono le statue dei due gemelli Kleobis e Biton, realizzate a Delfi da Polymedes di Argo. In architettura convivono due stili differenti: lo stile dorico, semplice e austero, e lo stile ionico, più flessuoso e morbido. Nelle sculture le figure seguono criteri geometrici e sono caratterizzate da scarse varietà: le forme umane hanno un corpo molto semplificato.
È nell'età classica, tra il 5° e il 4°secolo a.C., che l'anatomia della figura diventa importante. In questo periodo Atene regna senza rivali: edifici splendidi e colorati sorgono nella città. Il più bello e imponente è il Partenone, un tempio realizzato a partire dal 447 a.C. sotto la direzione dello scultore e architetto Fidia, sull'Acropoli ("città alta"). Dedicato alla dea Atena, il Partenone è l'esempio più splendido dell'epoca classica. Il fregio, che si snoda per 160 metri, rappresenta la Processione delle Panatenee (la festa più importante della città) e vuole offrire un'immagine ideale di Atene: dei e uomini che si mescolano nei cortei alla presenza di tutti gli eroi che hanno fatto grande la città, in un insieme ordinato che simboleggia il trionfo della potenza ateniese sul caos.
Mai come nella cultura greca le arti si intrecciano con la filosofia: i Greci pongono l'uomo al centro di tutte le cose e lo considerano la creatura più importante dell'Universo.
Le statue degli atleti olimpici colpiscono per la loro naturalezza, ma con identica naturalezza venivano rappresentate le statue degli dei: non immagini soprannaturali e piene di mistero come quelle dei templi egiziani, ma raffigurazioni di una bellezza semplice e armoniosa.
Anche negli edifici ogni elemento architettonico è calcolato e costruito in base alle proporzioni e alle misure del corpo umano: uno spazio fatto a misura d'uomo per l'uomo stesso.
La scultura romana è meno attenta alle rappresentazioni dell'uomo in generale e punta soprattutto alla celebrazione delle gesta dell'imperatore: è perciò il mezzo per una vera e propria propaganda politica.
La Colonna Traiana, eretta a Roma all'interno del Foro di Traiano nel 113 d.C., non è solo il monumento funerario di un imperatore ma anche una specie di 'libro di pietra', destinato a durare nei secoli. Infatti, dalla base alla cima dei suoi circa 40 metri di altezza, corre un bassorilievo a spirale che descrive le vittorie dell'imperatore Traiano sui Daci, una popolazione che abitava a nord del Danubio. Lo scultore, pur nella celebrazione imperiale, presta attenzione anche alla dignità degli sconfitti e riesce a cogliere gli aspetti più drammatici e intensamente umani della guerra.
La Colonna di Marco Aurelio, che si trova a Roma in piazza Colonna, fu eretta all'incirca tra il 182 e il 190 d.C. Riprende il modello della Colonna Traiana ma propone figure a bassorilievo più schematiche, più semplici e dotate di minore realismo: racconta le gesta vittoriose dell'imperatore sulle popolazioni barbare mettendo a nudo la spietatezza e la crudeltà delle azioni di guerra.
I Romani chiamavano mausolei i sepolcri innalzati alla memoria di illustri defunti. La parola deriva dal nome del governatore della Caria, Mausolo, in ricordo del quale la vedova Artemisia aveva fatto erigere nel 4° secolo a.C. una tomba monumentale, considerata una delle sette meraviglie del mondo.
Tra i mausolei più famosi vanno ricordati quelli di Augusto e di Adriano a Roma e quelli di Galla Placidia e di Teodorico a Ravenna.
Dalle civiltà egizia, greca e romana sono giunti sino a noi immagini e ritratti dipinti, scolpiti o incisi sulle monete per celebrare la fama e perpetuare il ricordo di personaggi illustri. Nei secoli nascono e si sviluppano nuovi modi di rappresentare la figura umana: c'è il ritratto realistico, quello di corte, il ritratto fotografico, quello psicologico.
Nel Medioevo il ritratto è riservato solo a personaggi aristocratici: l'imperatore, il papa o il re sono spesso dipinti di profilo e l'artista non mira a realizzare una rappresentazione realistica ma vuole piuttosto evidenziare alcuni caratteri della personalità del personaggio, grazie ai quali gli viene riconosciuto un ruolo importante nella società.
Tra il 14° e il 15° secolo il ritratto conosce una larga diffusione presso la nobiltà delle corti e la nascente borghesia cittadina. In Italia, Piero della Francesca ritrae nel 1465 il duca Federico da Montefeltro proponendoci l'immagine di un uomo rinascimentale sapiente, colto, sensibile alla bellezza, raffigurato secondo lo stile di quell'epoca, che rispetta la fisionomia dell'uomo e la sua classe sociale.
Leonardo da Vinci, Botticelli, Raffaello e Tiziano sono alcuni dei grandi artisti che ritraggono l'uomo valorizzandone gli aspetti interiori, cercando di coglierli nei lineamenti del viso e nella profondità dello sguardo.
Il genere pittorico del ritratto raggiunge livelli di massima raffinatezza tra il 15° e il 17° secolo nella zona delle Fiandre (Paesi Bassi, Belgio e Francia del Nord) dove i pittori, detti fiamminghi, operano una vera e propria rivoluzione. Il più noto è Jan van Eyck, il quale dipinge ritratti di tre quarti (cioè col soggetto un po' girato verso chi guarda) di estrema precisione. In Olanda, Rembrandt, adottando la stessa posa, amplia la rappresentazione alla figura intera e infonde ai soggetti un'eccezionale vitalità.
Diverso è il ritratto di corte che si sviluppa nel Settecento: il più rappresentativo, opera di Hyacinthe Rigaud, è quello di Luigi XIV, un sovrano all'apice del suo potere. In piedi davanti al suo trono, il re incarna il potere assoluto. Con un mantello sontuoso foderato di pelliccia di ermellino e una parrucca molto gonfia, il sovrano sembra sovrastare il mondo, effetto ottenuto dall'artista riprendendo la scena dal basso.
Nel 1839 il ritratto cambia: viene inventata la fotografia e, grazie a un cavalletto e a un apparecchio meccanico in grado di catturare immagini, nasce il ritratto fotografico in bianco e nero. Al principio, la vita di un fotografo ritrattista è difficoltosa: 50 chili di attrezzatura e una pessima resa dell'immagine. Ma il progresso tecnologico aiuta la fotografia a migliorare la qualità e la velocità di esecuzione. Un ritratto fotografico è riproducibile all'infinito, poco costoso e soddisfa la vanità di farsi immortalare in pose che facciano risaltare la propria posizione sociale. Nel 20° secolo, Arnolf Rainer lacera, graffia e ricopre le sue foto con pitture e disegni a indicare la ricerca d'identità degli uomini.
Per Vincent van Gogh, grande pittore del secolo 19°, ritrarre sé stesso o un altro voleva dire interrogare il viso per ritrovarvi l'anima. L'artista disegna e ridisegna ritratti di persone umili, di contadini, di altri artisti cercando di evidenziare, più che l'aspetto fisico ed esteriore dei personaggi che ritrae, la loro interiorità, i loro drammi, le loro emozioni.
Nel corso del 20° secolo il ritratto si trasforma nuovamente: l'artista non propone più tratti realistici e somiglianti. La caratteristica comune è la deformazione alla quale viene sottoposta la figura umana tanto da renderla quasi irriconoscibile, come nei ritratti di Picasso. Inoltre, molto spesso i ritratti vengono realizzati con materiali inusuali presi dalla vita quotidiana: fogli di giornali, pezzi di legno, sacchi di iuta, paglia, ferro e altri ancora.
Nel corso degli ultimi due secoli abbiamo assistito a importanti cambiamenti che hanno modificato il volto del mondo e dell'Europa: scoperte scientifiche e tecnologiche legate allo sviluppo dell'industria, emigrazione dalla campagna alla città, due guerre mondiali. L'arte, sensibilissima a questo alternarsi di avvenimenti storici, testimonia e suggerisce nuovi modi di vedere e di raccontare.
Nel 1872 l'artista francese Claude Monet dipinge Impression. Soleil levant, quadro che darà il nome al movimento artistico detto impressionismo. L'artista impressionista studia il fremito dei riflessi sull'acqua, scoprendo come le forme si modifichino al variare della luce che sfiora le cose e che sembra trasformare la materia. Gli impressionisti rinunciano al contorno, al chiaroscuro e a molte delle regole accademiche sulle quali si fondava la pittura tradizionale. Accostano i colori direttamente sulla tela senza mescolarli prima sulla tavolozza, con brevi tratti di pennello che obbligano chi guarda ad allontanarsi dal quadro per ottenere una 'mescolanza ottica' e riuscire a cogliere pienamente la visione d'insieme, il soggetto del quadro. Il colore si sostituisce alle forme e diventa strumento d'interpretazione dell'ambiente rappresentato: soprattutto le atmosfere parigine, dalle rive della Senna alle luci della città, agli interni dei caffè.
Il movimento dell'espressionismo, nato nei paesi dell'Europa settentrionale alla fine del 19° secolo, ha influenzato il resto dell'Europa, spaziando dalla letteratura al teatro e al cinema. Un artista espressionista, superando le convenzioni della tradizione artistica, vuole esprimere nel quadro la propria personale visione del mondo, anche se triste, dolorosa o addirittura crudele. Per esempio, nelle opere di James Ensor ed Edvard Munch, la tragedia della vita e gli avvenimenti drammatici del mondo si mostrano attraverso la deformazione dei tratti e l'uso di colori violenti.
Durante la Prima guerra mondiale, André Breton, studente di medicina, prestò servizio in un reparto di psichiatria dove ebbe modo di studiare le opere di Freud, il padre della psicanalisi, dalle quali trasse spunto per la nascita di uno dei movimenti artistici più importanti del 20° secolo: il surrealismo. Breton diventa il capofila di un movimento che punta alla produzione di opere artistiche, poetiche e letterarie fortemente collegate al mondo dei sogni e a quello dell'inconscio, ovvero ai nostri pensieri più nascosti. L'idea principale dei surrealisti è che l'arte debba rappresentare anche la fantasia e l'immaginazione, e non solo la realtà.
I surrealisti sono stati 'creatori di immagini': Dalí, Miró, Magritte, ma anche l'italiano De Chirico, con la loro inventività hanno allargato le frontiere dell'arte, inserendo all'interno di strutture architettoniche e paesaggi reali macchie multicolori, figure mitologiche, magiche, fantastiche. Il surrealismo è un tentativo di dimostrare che esiste un universo magico dove il pensiero può cambiare lo stato della realtà.
Prendiamo un vetro e disegniamoci motivi con olio di lino o d'oliva e inchiostri colorati a base d'acqua. Olio e acqua si respingono e formano macchie…enigmatiche. Sovrapponiamo al vetro un foglio di carta e tamponiamo delicatamente con uno straccio, fino a quando la composizione sarà asciutta.
Guardando le macchie, proviamo a contornare con un pennarello i soggetti e i paesaggi che il nostro cervello 'vede' in questo universo fantastico. Aggiungiamo, ritagliandoli dalle riviste, ulteriori immagini che completeranno la nostra composizione dove sogno e realtà si mescolano.
La fotografia racconta, denuncia, esprime, fa cronaca e ferma il tempo in un'immagine. La sua nascita ha prodotto importanti cambiamenti nella società. Dai primi tentativi in bianco e nero alle immagini a colori, la fotografia è diventata un'arte.
Quando le prime macchine fotografiche entrarono in circolazione fu stupefacente comprendere che, con un semplice scatto, l'istante e la realtà potevano essere bloccati e riprodotti. Agli inizi, però, la fotografia era considerata una forma meccanica di espressione, i pittori avevano difficoltà a utilizzarla e i fotografi spesso ritoccavano le fotografie con il pennello; ma con l'affermazione del fotografo P. Henry Emerson "la fotografia non deve mostrare la verità ma ciò che vede l'occhio". I pittori superano le iniziali perplessità e imparano a manipolare le immagini fotografiche; allo stesso tempo, la fotografia è riconosciuta da tutti come arte espressiva.
Secondo uno slogan molto in voga negli anni Trenta del secolo scorso bastava essere in grado di girare una chiave e di premere un campanello per essere capaci di fare anche fotografie!
Altri passi avanti vengono fatti nel corso del secolo scorso. Dal 1935 la fotografia si colora e vengono costruite macchine fotografiche alla portata del grande pubblico, che le utilizza per fermare ricordi personali. I fotografi di professione sfruttano le potenzialità della pellicola a colori, che nei lavori di Franco Fontana diventano l'occasione per utilizzare forme semplici, poche linee e poche tonalità. Un altro artista, Luigi Ghirri, sfrutta invece il colore per combinare tra loro oggetti che nella vita quotidiana non hanno nulla in comune.
A volte le fotografie hanno raccontato l'arte. È successo a Firenze, intorno al 1850, per opera dei fratelli Alinari. Leopoldo, Giuseppe e Romualdo Alinari aprono un piccolo studio fotografico, dedicandosi alla riproduzione dei capolavori dell'arte su grandi lastre fotografiche. Queste foto, tecnicamente perfette e raccolte oggi in molti cataloghi, dimostrano la maestria degli Alinari agli albori della fotografia e costituiscono un archivio storico di fondamentale importanza.
Nel 20° secolo la fotografia diventa anche documento della storia e del tessuto sociale: per esempio, negli anni Trenta, negli Stati Uniti, il gruppo raccolto attorno alla FSA (Farm security administration) racconta l'America di Roosevelt. Negli stessi anni la fotografia apre nuovi scenari sull'interpretazione della realtà che ci circonda. Mario Giacomelli nelle ricerche sul paesaggio indaga, utilizzando i primi scatti aerei, il tema del trascorrere del tempo. Alcun fotografi sperimentano un uso surrealista della fotografia, dove tutte le immagini diventano simbolo di qualcos'altro o vengono filtrate da giochi di specchi. Altri si addentrano in soluzioni ancora più ardite, sperimentando nuove tecniche, come quella dell'off camera, che prevedono la manipolazione artistica dell'intero processo di sviluppo fotografico.
Artisti di tutto il mondo e di tutte le epoche hanno mostrato nelle loro opere le follie delle guerre. Tra loro l'italiano Paolo Uccello e lo spagnolo Pablo Picasso che, a distanza di cinque secoli, descrissero in due celebri dipinti, ugualmente drammatici e intensi, due terribili episodi bellici.
La guerra civile è la più atroce delle guerre. La Spagna è stata teatro dal 1936 di un terribile e sanguinoso conflitto militare tra le forze socialiste del Fronte Popolare e i gruppi nazionalisti guidati dal generale Franco, alleatosi con la Germania nazista e l'Italia fascista. Il 26 aprile del 1937 l'aviazione tedesca bombardò pesantemente la piccola città basca di Guernica. Per quattro ore, ininterrottamente, caddero bombe, colpendo la città per un raggio di dieci chilometri. Era sabato, giorno di mercato, molte donne e bambini si trovavano tra le bancarelle e nelle strade: vi furono quasi 1.700 morti, migliaia di feriti e di senzatetto, rovine su rovine!
Picasso, sconvolto, impugna il pennello. Per un mese intero lavora su una tela lunga circa otto metri, per raccontare il martirio della città di Guernica, l'orrore, la collera, la paura, la morte; in una parola, la guerra. Una donna, che urla di dolore con un bambino morto tra le sue braccia, rivolge il viso implorante al toro, immagine di brutalità. Tutti gli altri personaggi sono girati verso di lui, con le teste riverse, le braccia levate, sprofondando nel terreno o strisciando, vinti, feriti. Un cavallo agonizzante, simbolo dell'intero popolo, nitrisce disperatamente. Tutti sono straziati nelle carni, lacerati da un dolore che non ha nome. Al centro del quadro Picasso inserisce una lampada, uno spiraglio di luce; in basso, da una spada rotta sta nascendo un fiore. La speranza è là. Picasso dice:
"In Guernica esprimo chiaramente il mio orrore per la casta militare che ha sommerso la Spagna in un oceano di dolore e di morte".
Il 4 giugno 1937 Guernica viene esposto al padiglione spagnolo dell'Esposizione Universale di Parigi ed è immediatamente celebrato dal mondo intero. Ha in sé una forza e una potenza immense perché non è descrittivo. Esprime, attraverso i simboli del toro e del cavallo, miti vitali della Spagna, la terra offesa, la libertà negata. Picasso costruisce per i suoi personaggi uno spazio, grigio, nero e bianco, dove mette a nudo le sue emozioni e la sua indignazione. Nel quadro senza colori anche lo spazio è spezzato e confuso, non ci sono regole: un orrore quale quello di Guernica non rispetta nessuna legge umana. Picasso ci fornisce in quest'opera una testimonianza della barbarie, una traccia che resta nella memoria. Il quadro rimane per 42 anni al Museo d'arte moderna di New York; ma dal 1981, quando in Spagna viene eletto un governo democratico, Guernica torna a Madrid.
Intorno alla metà del Quattrocento, Paolo Uccello dipinge La battaglia di San Romano: il quadro racconta la vittoria dei Fiorentini sui Senesi nel 1432 ed è stato voluto da Cosimo de' Medici, il signore di Firenze, città dove vive Paolo Uccello. I soldati cedono il passo ai cavalli; le lance s'incrociano, le milizie si scontrano. Sembra quasi di sentire il galoppo dei cavalli, il rumore delle lance, l'urto delle armature. I numerosi cavalieri che caricano dalla sinistra del quadro sembrano essere un solo uomo dipinto in progressione mentre punta in basso la sua lancia. Paolo Uccello, che era prima di tutto un uomo del Rinascimento, particolarmente interessato agli aspetti figurativi, fu ammirato dai surrealisti per la sua sconfinata fantasia, ma anche dai cubisti, dei quali alcuni lo considerano addirittura un precursore.
Fabbrica di sogni e di memoria, il cinema racchiude molti linguaggi. Dalla sua nascita a oggi ha raccontato, in bianco e nero o a colori, in silenzio o con la voce, le storie, le fantasie, i sogni dell'uomo contemporaneo. Il cinema dà forma al desiderio millenario di registrare il movimento, trasformando in forma d'arte e in spettacolo una tecnica di riproduzione delle immagini.
"Accorrete alle 9 di sera del 28 dicembre 1895 al Grand Café, Parigi!". Questo l'invito dei fratelli Lumière alla loro prima proiezione cinematografica (v. cinema). Gli spettatori sono appena 35 ma è ugualmente un trionfo. Le prime proiezioni hanno luogo nei negozi, nei caffè, nei bazar, durante le fiere e sono accompagnate da un organo, un pianoforte o un grammofono.
Altri avevano preparato la strada ai Lumière: Eadweard Muybridge nel 1872 inventa un dispositivo per fotografare il galoppo di un cavallo. Nel 1877 Émile Reynaud proietta disegni animati nel suo teatro ottico a Parigi. Thomas Edison inventa nel 1890 il cinetoscopio, scatola nella quale scorre una scena animata con immagini stampate su pellicola.
Louis e Auguste Lumière costruiscono un sistema che concentra tutte le funzioni del cinema: macchina da presa, laboratorio di sviluppo e stampa, macchina da proiezione. Il meccanismo di trascinamento della pellicola, il supporto sul quale sono fissate le immagini (film) e il tempo di proiezione (16 fotogrammi al secondo) rendono realizzabile la proiezione su schermo: nasce il Cinematografo Lumière.
In Italia le prime proiezioni avvengono a Milano e Roma nel 1896. Negli studi di Hollywood nel 1903 si gira il primo western. Nel 1905 Filoteo Alberini realizza il primo film italiano non documentaristico, La presa di Roma. Nel 1911 il futurista Ricciotto Canudo conia per il cinema la definizione settima arte.
I primi film sono senza sonoro e in bianco e nero fino ai primi anni Venti del secolo scorso, quando diventa tecnicamente possibile la ripresa diretta a colori naturali. Negli stessi anni nasce il film sonoro. È una rivoluzione.
Durante il periodo del cinema muto hanno avuto grande popolarità le comiche, brevi film (cortometraggi o mediometraggi) dove attori, bravissimi nella mimica e spesso spericolati, si producevano in azioni buffe con esiti disastrosi: i più famosi furono Harold Lloyd, Buster Keaton, Stan Laurel e Oliver Hardy (v. Stanlio e Ollio) e Charlie Chaplin. Quest'ultimo divenne presto regista e produttore dei film che lo vedevano protagonista. Sin dai primi cortometraggi indossa una bombetta, scarpe larghe e ampi pantaloni, impugna un bastone e ha piccoli baffi. Charlot, il suo personaggio, domina gli schermi ma evolve rapidamente verso forme di comicità ricche di critica sociale.
In questo senso, tra le opere più famose di Chaplin ricordiamo Tempi moderni (1936), Il grande dittatore (1940) e Monsieur Verdoux (1947), nei quali l'attore muove una profonda critica ai ritmi sfrenati di produzione delle industrie, all'ideologia del nazismo e alla società tesa solo all'arricchimento.
In Italia, alla fine della Seconda guerra mondiale, nasce il neorealismo, un movimento cinematografico che introduce nel linguaggio della settima arte importanti novità: spesso gli attori non sono professionisti, ma provengono dalle borgate o dalle campagne, le storie raccontano il quotidiano e le scene vengono girate per le strade, nelle case, in città o nelle periferie. Lo scopo degli artisti neorealisti è quello di rendere in modo obiettivo la realtà politica e sociale del paese in un momento di grandi cambiamenti. Nel 1945 esce Roma città aperta di Roberto Rossellini. È il manifesto del neorealismo, testimonianza dei drammi della Resistenza e della lotta antifascista, nel quale l'attrice Anna Magnani interpreta il ruolo di donna del popolo e di madre travolta dalla tragedia della guerra.
Nel 20° secolo grandi cambiamenti avvengono nel mondo della produzione di oggetti per l'arredamento e la decorazione, fino allora frutto e opera di abili artigiani.
L'uso delle macchine industriali e la produzione in serie fanno perdere ogni rapporto tra la forma degli oggetti e colui che li produce. L'oggetto viene progettato secondo criteri che rispondono alle esigenze del mercato di massa.
Bauhaus, la parola tedesca che significa "casa della costruzione", deriva dalle antiche Bauhütten, corporazioni medievali di costruttori, artisti e artigiani che lavoravano in stretta collaborazione. Fondato in Germania nel 1919 dall'architetto Walter Gropius, il Bauhaus è una scuola che nasce con il preciso obiettivo di rispondere al desiderio di architetti, pittori e scultori di far confluire arte, artigianato e tecnologia in un'unica opera.
Gropius si preoccupa di realizzare prodotti che siano funzionali e adatti allo scopo per il quale sono stati creati, senza sacrificare l'estetica dell'oggetto. Prodotti, quindi, fabbricati in serie dall'industria ma anche pensati e progettati da artisti. Infatti il Bauhaus accoglie non solamente tecnologi, architetti e progettisti ma anche pittori, musicisti, scultori, grafici, fotografi. Tra loro Johannes Itten, pittore espressionista, figura centrale della scuola del Bauhaus, Paul Klee e Vasilij Kandinskij.
Se provassimo a immaginare per un istante città, paesi, bar, teatri, cinema senza pubblicità scopriremmo che colori, luci, manifesti sparirebbero brutalmente. Negli anni Sessanta del 20o secolo il mondo del consumo e la grande quantità di oggetti che quotidianamente vengono prodotti e pubblicizzati diventano motivo d'interesse per gli artisti. Nasce, così, in America la pop art, i cui maggiori esponenti sono Andy Warhol, Roy Lichtenstein, Robert Rauschenberg. Le immagini e i simboli della società dei consumi contraddistinguono il loro lavoro, che trae spunto dalla pubblicità e dai mezzi di comunicazione di massa: tv, radio, giornali, cinema. Le immagini delle star della musica, della danza, della moda, dell'arte e dell'architettura diventano parte integrante delle opere pop.
La pubblicità, espressione caratteristica della modernità, entra da quel momento anche nel mondo dell'arte. Per esempio, il pittore italiano Mimmo Rotella realizza le sue opere d'arte a partire dai manifesti pubblicitari attaccati ai muri: li strappa, poi li incolla e li assembla sulla tela mettendo in scena i 'prodotti' più evidenti del consumo.
È nel 1913 che un oggetto quotidiano viene elevato al rango di oggetto d'arte. Marcel Duchamp, artista francese, fissa una ruota di bicicletta su uno sgabello bianco e inventa la nozione di ready made, cioè del "già fatto!". Duchamp prende un oggetto già realizzato da altri, lo modifica e ne fa una vera e propria opera d'arte. In modo perentorio e umoristico Duchamp stabilisce che l'oggetto industriale, quale la ruota di una bicicletta, se esposto e guardato in modo diverso, acquista un significato nuovo e può diventare opera d'arte. Con Duchamp l'atto creativo dell'artista tradizionale perde importanza, in favore del pensiero e dell'idea. Le opere di Duchamp fecero inizialmente scandalo tra il pubblico ma furono molto importanti per lo sviluppo successivo dell'arte contemporanea.
Munari, con le sue Macchine inutili, le Sculture da viaggio, i Libri illeggibili, mette al centro delle sue opere oggetti trovati (di carta, di legno o di metallo) e li inserisce in situazioni sorprendenti, giocose e movimentate. L'originalità delle sue opere trova un bell'esempio nelle Forchette parlanti, che appaiono come prolungamento delle mani. Munari le pensa "senza nessuno scopo pratico, solamente per far giocare la fantasia".
I cartoni animati possono essere ottenuti tramite disegni o realizzazioni al computer, oppure possono essere pupazzi tridimensionali costruiti con legno, cartapesta, stoffa o plastilina. I pupazzi in plastilina, pasta morbida e modellabile, hanno raggiunto il grande pubblico grazie a personaggi come Wallace e Gromit.
I cartoni animati prodotti dalla Walt Disney sono tra i più famosi e importanti. In molti di questi, come Biancaneve, La sirenetta, Il re leone, è stata utilizzata la tecnica tradizionale, ovvero una sequenza di disegni colorati che, ripresi in successione, danno l'idea del movimento. La stessa tecnica è stata impiegata anche da altri disegnatori di cartoni animati, come nelle serie di Hanna e Barbera (Yoghi, Gli Antenati) o in quelle della Warner Bros. (Bugs Bunny, Daffy Duck).
Questa tecnica è solo una delle tante possibili per realizzare film d'animazione. I personaggi, infatti, possono anche essere pupazzi di stoffa e metallo, come in Nightmare before Christmas, oppure essere realizzati direttamente al computer, come nei due lungometraggi Toy story e Alla ricerca di Nemo. Infine, possono essere costruiti in plastilina, come i buffi personaggi del film Wallace & Gromit ed altre storie e le divertenti protagoniste di Galline in fuga.
Uno dei primi artisti a utilizzare la tecnica dei personaggi in plastilina è stato Jean Painlevé, che negli anni Trenta del secolo scorso, insieme allo scultore Bertrand, diresse Barbe-Bleue. Da quel momento in poi la plastilina diventa strumento nelle mani degli artisti per realizzare animazioni bidimensionali (con la tecnica delle figure ritagliate), dove l'effetto è la trasformazione continua delle forme: oggetti che diventano persone, persone che ritornano cose o si mutano l'una nell'altra; invece, nelle animazioni tridimensionali si utilizzano pupazzi animati. Una delle maggiori artiste che utilizza la tecnica bidimensionale è la giapponese Fusako Yusaki, mentre l'animazione tridimensionale è stata brevettata nel 1985 negli Stati Uniti, con il nome di claymation. Grazie a essa tanti artisti contemporanei hanno realizzato brevi film di grande poesia: basti pensare al delicato Harvie Krumpet, del 2003, dell'australiano Adam Elliot, che in 23 minuti racconta la vita intera di un pupazzo di plastilina.
I più conosciuti personaggi di plastilina sono Wallace e Gromit. Wallace è uno stravagante inglese appassionato di formaggio e di invenzioni e Gromit il suo geniale cane che legge Dog-stoevskij o La Repubblica di Pluto e vive in una stanza tappezzata di carta da parati decorata con ossi, lavorando all'uncinetto. I pantaloni sbagliati, uno dei cortometraggi che li vede protagonisti, vince il premio Oscar nel 1994.
Dopo un cane, ottiene il successo un centinaio di galline! Galline in fuga è un film interamente girato con pupazzi in plastilina. Per la sua realizzazione sono state necessarie 450 galline in plastilina sorrette da uno scheletro di ferro per facilitarne il movimento e per evitare l'usura delle articolazioni. Tutte hanno la sciarpa al collo, per nascondere l'attaccatura della testa che può essere sostituita con facilità per i cambi d'espressione e i movimenti del becco che simulano il parlato. Chi l'avrebbe mai detto che anche Hollywood sarebbe stata conquistata dalla plastilina?
Mentre per i cartoni animati basati sui disegni l'illusione del movimento è data disegno dopo disegno dagli animatori, per l'animazione di oggetti concreti e tridimensionali come i pupazzi è necessario spostare e modificare i personaggi, plasmandoli scatto dopo scatto. Nell'animazione in plastilina si creano veri set in miniatura: ambienti in tre dimensioni in cui collocare personaggi e sui quali far muovere la macchina da presa.
"A Lambicchi han regalato / un sassofono speciale, / e d'offrirsi egli ha pensato, / un concerto musicale. / Manca è vero il suonatore, / ma Lambicchi tra sé dice: / ne avrò uno di valore / con la mia arcivernice. / Rimboccatisi i polsini, / sul ritratto la distende / di quel certo Paganini / che di fama ancor risplende/".
Il professor Pier Cloruro dei Lambicchi ha inventato una vernice, anzi un'arcivernice, portentosa: basta passarla su una figura qualsiasi, una foto, un quadro, una pubblicità e subito le immagini diventano vive!
Pensa che comodità! Hai un languorino di stomaco? Basta prendere una rivista ed ecco immagini di pizze o di gelati pronte per diventare vere ed essere mangiate. Ci si sente un poco soli? Basta verniciare la foto di un amico ed ecco la compagnia.
Non solo! Con l'arcivernice si possono conoscere personaggi famosi: si può prendere il libro di storia e fare quattro chiacchiere con Cesare o Napoleone, o andare al cinema e spalmare di vernice i manifesti. Subito usciranno indiani e cowboy, astronavi e principesse aliene. Ma attenzione a non scegliere un film dell'orrore: riempireste di mostri la città… Anche a Lambicchi spesso capita di perdere il controllo delle immagini che ha reso vive. Paganini, per esempio, era un violinista, cosa mai se ne può fare di un sassofono?
""Questo è un atto assai scortese!" / grida il grande violinista. "È uno scherzo quest'arnese, / che non serve a un musicista!" Quindi svolge il gran concerto / maneggiando quell'oggetto, / da maestro proprio esperto… / sul groppon del poveretto".
Se si vogliono evitare inconvenienti, c'è un altro modo per far sembrare vive le figure: è la bravura dell'artista. Sakumat è un pittore famoso per la sua abilità. Un giorno riceve la visita di un messaggero che lo invita nella reggia del burban Ganuan, signore della terra di Nactumal, sulle montagne. Il suo compito questa volta è particolare: con i suoi colori deve far conoscere il mondo al figlio del signore che, per una grave malattia, non può mai uscire di casa e vive rinchiuso nelle sue stanze, senza neanche affacciarsi alla finestra. Lui non ha mai visto i monti e le pianure, la case del villaggio e l'azzurro del cielo, il volo degli uccelli o le spighe del grano. Il bambino e il pittore fanno amicizia e decidono di dipingere le pareti e i soffitti di tre intere stanze.
"Così esplorarono le pareti delle stanze come fossero lo spazio dei cieli. Cominciarono a immaginare e distribuire i soggetti della pittura. "Qui faremo il pascolo pieno di fiori profumati…". "Sì, Sakumat! Come quello della storia di Mutkul il pastore!". "Allora, ci metteremo la capanna di Mutkul il pastore. Piccola piccola, con il gregge di capre rosse… Erano rosse, vero, le capre di Mutkul?". "Sì. E ci metteremo anche il cane zoppo, Sakumat?"".
Pian piano le pareti si riempiono di magia: prati fioriti, carri e cavalli, castelli assediati, il mare con le navi dei pirati. Il bimbo osserva stupito il lavoro dell'artista: ogni nuova pittura racconta una storia ed è davvero magico vedere le pareti bianche che pian piano si trasformano nel mondo intero!
Se non si è abbastanza ricchi per chiamare in casa un pittore, c'è un'altra soluzione: si può andare al museo. Claudia ci pensa da settimane ma non vuole essere accompagnata dai genitori. Lei vuole andarci di nascosto, dopo essere scappata di casa. Insieme a Jamie, il suo fratellino, organizza un piano perfetto e un giorno, invece di andare a scuola, si nasconde nel Metropolitan Museum di New York. Ma non si tratta di una semplice gita: i due rimarranno lì per quasi una settimana, giorno e notte!
Il museo è un intero mondo da esplorare, è enorme, con grandi stanze e vasti corridoi, le scalinate e la fontana piena di monetine. Si può fare uno spuntino tra le mummie egiziane, gironzolare tra i capolavori dell'arte americana o dormire in un letto di lusso, addirittura del Cinquecento!
Ma la più grande sorpresa è una statua nella sezione del Rinascimento italiano, appena acquistata dal museo. Si tratta di un angelo che ha un grande mistero: è stato venduto all'asta per pochi dollari ma potrebbe valere una fortuna se, come dicono gli esperti, fosse opera di Michelangelo. Claudia rimane affascinata dall'angelo e dal suo segreto. Deve assolutamente scoprire la verità. Sa che solo in questo modo potrà tornare a casa.
"Io, Claudia Kincaid, voglio essere diversa quando torno. Per esempio, essere un'eroina. Jamie, voglio sapere se è di Michelangelo o no. Non posso spiegare perché, ma sento che ho bisogno di saperlo. Di sicuro. O sì o no. Se facciamo una vera scoperta sarò un'altra". Ma davvero guardare una statua può cambiare la vita? Forse l'arte ha davvero questo potere…
Certamente la vita è cambiata a casa di Max da quando il suo papà ha portato a casa un quadro nuovo. In effetti è abbastanza particolare con quel paesaggio di campagna, i corvi neri nel cielo e una forca al centro con tanto di impiccato. Si dice che fosse un terribile assassino che aveva venduto l'anima al diavolo ed era stato tradito dal figlio (che si vede dipinto a lato).
Il papà di Max l'ha comprato a poco perché si dice che sia un quadro maledetto. In effetti un po' lugubre è, ma come credere a certe superstizioni? Il nuovo acquisto viene appeso nel corridoio e nessuno ci pensa più. Eppure da allora i sogni di Max si fanno più turbolenti, l'atmosfera in casa diventa più cupa e il papà s'indebolisce e si ammala.
Fino a quando, una sera: "Suoni rauchi, raspanti. Occhi gialli di uccelli neri. Un'indefinibile sensazione di catastrofe imminente. Nel buio della camera, Max si agitava inquieto sotto le coperte, mentre gli uccelli sfrecciavano a volo radente sulla sua testa. Un cappio dondolava vuoto nel vento. …Un tonfo rimbombante. La porta si spalancò di colpo. Max sbarrò gli occhi. Era sveglio".
Davanti a lui è c'è l'ombra di un uomo che lo afferra al collo, ringhia e urla vendetta! Max scalcia e tira pugni ma l'uomo è troppo forte! Per fortuna la mamma ha sentito il baccano, ha preso il quadro maledetto e l'ha rotto in testa all'assassino. Si accende la luce e Max vede suo padre a terra, finalmente libero dalla maledizione. E poi non ditemi che non conta il modo in cui si arreda la casa!
Paura, gioia, malinconia: la grande arte provoca sempre emozioni. Lo sa bene Bailey, che si è appena trasferito in una periferia grigia e desolata dove ha ben poco da rallegrarsi, almeno fino a quando non capita di fronte a uno spettacolo mirabolante:
"E poi lo vide! Là, sul muro di cemento. Gli mancò il fiato, perché il muro era coperto dai colori più luminosi e abbaglianti che avesse mai visto. Così tanti colori da nascondere il cemento. Verde smeraldo! Rosso rubino! Azzurro zaffiro! E mulinellavano e turbinavano tutti insieme! Un caleidoscopio di stelle, cerchi, mezzelune, comete vorticanti e roteanti, piroettanti, volteggianti. "SCRIBBOLO!", esclamò Bailey. Dopodiché, svenne".
Bailey scopre di avere visto uno 'scribbocchio', uno dei pochi grandi graffiti del quartiere.
Un tempo, infatti, si aggirava nelle notti il misterioso Scribbolo che cercava di rallegrare con i suoi graffiti il grigiore del quartiere. Ma è passato parecchio tempo ormai, e quasi nessuno se lo ricorda più; anzi c'è chi non crede nemmeno alla sua esistenza. Bailey però non si rassegna e una notte decide di esplorare il condotto dell'aria che si apre nella sua cameretta.
In fondo al tunnel scopre il mitico giaccone di Scribbolo, lo indossa e subito si sente pieno di magia: le dita gli prudono, hanno bisogno di bombolette spray e di una superficie da colorare. Scribbolo è tornato! Pian piano il quartiere comincia a risplendere di nuovi colori e anche l'umore delle persone cambia: sbocciano nuovi amori, si ricomincia a far festa e centinaia di bambini ricreano lo Scribbolo Fan Club.
A confronto, il piccolo Jimmy ha ben poco da rallegrarsi. La sua passione è disegnare fumetti e certo il talento non gli manca. Ma a casa non ha molte soddisfazioni: la mamma è sempre impegnata e le sorelle lo interrompono sempre sul più bello dell'ispirazione. Ma il vero problema è il papà: "Non è che Jimmy non gli piacesse, è solo che non aveva la minima idea di che tipo fosse. Lui voleva un figlio con cui parlare delle medie di lanciatori e battitori. E invece aveva Jimmy. Nonostante tutto, cercava di fare del suo meglio… E si sforzava di trovare qualcosa da dire a Jimmy, tipo: "Devi proprio lasciare i tuoi fumetti sparsi per tutto il pavimento?" … Jimmy non pensava che papà volesse offenderlo. Era solo che non sapeva come comportarsi con un figlio che disegnava fumetti".
Un giorno Charlie, il ragazzo più ammirato di tutta la scuola, si offre per creare una società: lui come autore delle storie, Jimmy dei disegni. Il nuovo eroe si chiama Testa di proiettile e ha la missione di distruggere tutto quello che incontra: muri, teste, braccia. Peccato che Jimmy, tra tutte le cose, non sappia disegnare le mani. Come fare a non sfigurare con tutte quelle braccia tagliate? Insomma è davvero dura la vita dell'artista: prima bisogna andare a caccia dell'ispirazione, poi bisogna esercitarsi di continuo per migliorare lo stile e non si è mai sicuri se il risultato piacerà anche agli altri. Ne vale la pena? Forse bisognerebbe chiederlo a chi ha scritto la storia di Jimmy: è diventato un grande fumettista, famoso in tutto il mondo, e ora le mani gli vengono benissimo. (Emilio Varrà)
Jules Feiffer, Il supereroe del soffitto, Bompiani, Milano 1997 [Ill.]
Elaine Lobl Konigsburg, Fuga al museo, Salani, Firenze 1997 [Ill.]
Giovanni Manca, Lambicchi, Paganini e il sassofono, in Gli eroi del 'Corriere dei piccoli', Edizioni Eurostudio, Bergamo. s.d.
Giovanni Manca, Pier Lambicchi e l'arcivernice, Genio, Milano 1952 [Ill.]
Roberto Piumini, Lo stralisco, Einaudi Ragazzi, Trieste 1993 [Ill.]
Philip Ridley, Il favoloso Scribbolo, Mondadori, Milano 1998 [Ill.]
Paul van Loon, L'autobus del brivido, Salani, Firenze 1996 [Ill.]