In Italia, il legislatore del 1942, rispetto al codice del 1865, che recepiva la tradizionale definizione della proprietà facilmente oggetto degli equivoci dell’interpretazione individualistica e antisociale del sec. 19°, ha preferito anziché definire l’istituto, definire il contenuto del diritto del proprietario, mettendone indirettamente in risalto la finalizzazione e, direttamente, l’inquadramento giuridico. La enunciazione («Il proprietario ha il diritto di godere e disporre delle cose in modo pieno ed esclusivo, entro i limiti e con l’osservanza degli obblighi stabiliti dall’ordinamento giuridico») è stata criticata dalla dottrina in quanto il diritto del proprietario può sussistere senza risolversi né in un atto di godimento (per es., proprietà gravata di usufrutto), né in un atto di disposizione (per es., proprietà gravata da vincoli dotali), essendo essenzialmente costituito da un titolo di appartenenza del bene. È da notare inoltre che la disciplina del codice, più di quello che non appaia dall’enunciazione, si fa esplicita nelle norme che dispongono le cosiddette limitazioni della proprietà (art. 833-839 c.c.; divieto degli atti di emulazione, espropriazione per pubblico interesse, ammassi e, in particolare, espropriazione per abbandono di conservazione, coltivazione ed esercizio di beni interessanti la produzione o il decoro della città o le ragioni dell’arte, della storia o della sanità pubblica); nonché nelle norme volte a dirimere i conflitti di proprietà (art. 934 s. c.c.) e in tutta la regolamentazione della proprietà fondiaria (art. 840 e seguenti c.c.: in specie riordinamento della proprietà rurale, bonifica integrale, vincoli idrogeologici e difese fluviali). Nella disciplina del codice la dottrina aveva già individuato l’intento del legislatore di indirizzare la proprietà al perseguimento della cosiddetta funzione sociale, mettendo in crisi il concetto di proprietà come pura espressione di diritto soggettivo.
Per quanto concerne i modi di acquisto della proprietà, tradizionalmente si distingue tra modi di acquisto originari e derivativi: nei primi l’acquisto è giustificato da un rapporto diretto della persona con la cosa, indipendentemente da ogni rapporto con un precedente proprietario che può non esserci o, se c’è, perde la proprietà pur contro la sua volontà; nei secondi l’acquisto si opera per effetto del trasferimento della proprietà da un precedente a un successivo titolare che l’accetta quale era in testa al suo autore, con gli stessi oneri e con gli stessi limiti. Modi originari di acquisto della proprietà sono: l’occupazione, l’invenzione, l’accessione, la specificazione, l’unione o commistione, l’usucapione. Altre ipotesi di acquisto a titolo originario sono poi i cosiddetti incrementi fluviali (art. 941-947 c.c.), la disciplina dei quali ha subito in alcune fattispecie modificazioni a seguito della l. 37/1994. Derivativi sono invece i modi di acquisto della proprietà che si attuano attraverso il fenomeno della successione, che può essere: inter vivos, mediante i contratti cosiddetti a effetti reali (per es., compravendita, donazione, permuta); ovvero mortis causa, mediante testamento o per legge.
Le azioni a tutela della proprietà sono: l’azione di rivendicazione, l’azione negatoria, le azioni di denuncia, di nuova opera e di danno temuto, l’azione per apposizione di termini, l’azione per regolamento di confini.
Con le espressioni proprietà industriale e proprietà intellettuale ci si riferisce, rispettivamente, a istituti che attribuiscono esclusiva nei settori dell’immagine.