scompènso cardìaco Condizione fisiopatologica per la quale il cuore non riesce a pompare sangue nel circolo arterioso nella quantità adeguata alle richieste metaboliche dei tessuti. È generalmente secondario a ipocontrattilità del cuore, e significativamente del ventricolo sinistro. Questa può essere determinata dalla perdita (anatomica o funzionale) di parte del tessuto contrattile, come avviene dopo un infarto del miocardio, oppure essere imputabile a una compromissione diffusa delle fibre miocardiche, come nelle cardiomiopatie e nelle miocarditi. Lo scompenso cardiaco può essere anche secondario a un carico di lavoro cronico eccessivo che causa ipertrofia del muscolo cardiaco.
Il sovraccarico cronico può essere di pressione, come nell’ipertensione arteriosa del circolo sistemico o polmonare, o nei casi di stenosi valvolare aortica o polmonare, oppure di volume, come avviene in alcune malattie valvolari (per es., insufficienza aortica); può anche essere determinato da condizioni che impongono cronicamente al cuore una gittata elevata (per es., nell’anemia cronica severa e nell’ipertiroidismo), per le quali si parla di scompenso ad alta portata.
Entro certi limiti, il cuore tende a mantenere l’equilibrio circolatorio attraverso meccanismi ‘di compenso’ che incrementano la contrattilità del miocardio e la pressione di perfusione degli organi: aumento della frequenza delle contrazioni (tachicardia), dilatazione delle sue cavità (atriali e ventricolari), ipertrofia del miocardio, attivazione di sistemi neuro-ormonali (come il sistema renina-angitensina-aldosterone, RAAS). Tali meccanismi di compenso, anche quando riescono ad assicurare una discreta portata circolatoria, comportano sia una diminuzione della riserva cardiaca (cioè della capacità del cuore di rispondere con maggiori prestazioni in caso di aumentate esigenze), sia un aumentato fabbisogno di ossigeno (e quindi di sangue arterioso che perviene al cuore attraverso le arterie coronarie che lo irrorano). Se ipertrofia, dilatazione, tachicardia e attivazione di sistemi ormonali risultano inadeguati a mantenere una sufficiente portata cardiaca (cioè una congrua quantità di sangue ai tessuti nell’unità di tempo), dall’insufficienza cardiaca compensata si passa allo scompenso vero e proprio: si verificano una netta diminuzione della portata circolatoria, un rallentamento della velocità di circolo, una tendenza alla stasi sanguigna (più o meno manifesta nei diversi distretti corporei, a seconda del meccanismo con cui lo scompenso stesso si è instaurato), un aumento della pressione venosa a livello dei capillari e una facile insorgenza di edemi (e di versamenti trasudatizi a livello delle sierose), vale a dire accumulo di acqua ed elettroliti negli spazi interstiziali. Aumenta così il volume dei liquidi extracellulari, mentre diminuisce il volume dei liquidi circolanti. Quest’ultima evenienza rappresenta uno stimolo alla attivazione del RAAS e, conseguentemente, a un aumentato riassorbimento del sodio a livello dei tubuli renali; la ritenzione di sodio, a sua volta, favorisce, con meccanismo osmotico, nuova ritenzione di acqua e accentuazione degli edemi.
Le manifestazioni cliniche variano considerevolmente e dipendono da diversi fattori, che comprendono l’età del paziente, la severità e la velocità con cui la funzione cardiaca si riduce, e il ventricolo interessato inizialmente dalla malattia. La dispnea è il sintomo base dello scompenso e consiste in una sensazione di fatica respiratoria più o meno associata a ‘fame d’aria’, conseguenza della congestione polmonare che provoca edema interstiziale e riduce la distensibilità dei polmoni e gli scambi gassosi. Altro sintomo-chiave è la ridotta tolleranza all’esercizio fisico, imputabile ad ipoperfusione muscolare e ad alterazioni del metabolismo delle cellule muscolari scheletriche.
Lo scompenso cardiaco è una sindrome relativamente comune. Si stima che in Europa circa 15 milioni di persone vengono trattate per scompenso ogni anno, con un rapporto uomini:donne di 1:1. La prevalenza aumenta drasticamente con l’età, essendo del 2-3% nei soggetti di età compresa tra i 50 e 59 anni, e fino al 10-20% nei soggetti con età superiore a 75 anni.
La terapia si basa prevalentemente sull’utilizzo di diuretici, ACE-inibitori, antagonisti recettoriali dell’angiotensina, beta-bloccanti e spironolattone. Nei pazienti con malattia avanzata che rispondono in modo insoddisfacente ai diuretici, la tecnica dell’ultrafiltrazione può consentire la rimozione dei liquidi in eccesso. Nei soggetti con funzione del ventricolo sinistro severamente compromessa e sintomi avanzati può essere indicato l’impianto di un defibrillatore automatico (implantable cardioverter defibrillator, ICD) per proteggere dal rischio di morte improvvisa secondaria a gravi aritmie cardiache come la tachicardia ventricolare o la fibrillazione ventricolare. In pazienti selezionati è stata dimostrata l’efficacia di particolari dispositivi impiantabili, noti come stimolatori biventricolari, che svolgono la funzione di migliorare la sincronia di contrazione delle pareti del ventricolo sinistro. Negli stadi avanzati di malattia, e in presenza di specifici requisiti, può essere indicato l’utilizzo di sistemi per l’assistenza meccanica al circolo o il trapianto cardiaco.