transfert In psicologia generale, e con particolare riferimento ai problemi dell’apprendimento, il fenomeno di ‘trasferimento’ che facilita nuove acquisizioni quando altre, specie se strutturalmente analoghe, si siano già verificate. Il t. si dice negativo sia quando un nuovo apprendimento viene a interferire, per inibizione retroattiva, su quello già realizzato, sia quando l’apprendimento precedente interferisce, per inibizione proattiva, sul successivo. In un senso diverso il termine è usato per indicare l’acquisizione di un condizionamento, precedentemente stabilito in relazione a un solo emisfero cerebrale, anche da parte dell’altro (t. interemisferico).
In psicanalisi, t. è il processo di trasposizione inconsapevole, durante l’analisi e sulla persona dell’analista, di sentimenti e di emozioni che il soggetto ha avvertito in passato nei riguardi di persone importanti della sua infanzia. Il concetto (ted. Übertragung) fu introdotto da S. Freud (1895). Il t. può essere positivo, negativo o ambivalente. Nei decenni che seguirono la nascita della psicanalisi, si è progressivamente consolidata in ogni ambito psicodinamico l’opportunità di riconoscere al t. la qualità di luogo privilegiato e di strumento principe di osservazione, di interpretazione e, infine, di terapia. La riflessione sul t. ha via via costituito uno dei principali oggetti di indagine, di discussione e di riflessione teorica. Freud assegnava al t. lo statuto di strumento di indagine sui conflitti infantili e considerava, a questo scopo, necessario il superamento della forma, per così dire immediata, che il t. assume in riferimento alla figura dell’analista, per poter giungere a una ricostruzione il più possibile attendibile di quanto avvenuto nel passato. Uno dei problemi più discussi riguarda tuttavia il modo in cui pervenire a una condizione di t. non perturbante rispetto all’emergere oggettivo di un ricordo, se poi è proprio nella perturbazione reciproca tra paziente e analista che va colta la natura essenziale del transfert. Appare probabile che ogni situazione analitica crei i suoi specifici fenomeni di t., che risultano, quindi, dipendenti da fattori molteplici, come il particolare comportamento (per es., più o meno assertivo) dell’analista, ma anche la sua particolare emotività, la sua visione del mondo, la sua tecnica interpretativa, il suo sesso, oltre ad aspetti più formali come, per es., le caratteristiche del suo studio, la frequenza delle sedute, le forme pattuite di pagamento. Quanta parte del t. riferire al conflitto infantile e quanta ascriverne alle caratteristiche reali (specifiche e aspecifiche) della relazione, al cosiddetto ‘qui e ora’, diverrebbe, dunque, un inevitabile oggetto di ‘negoziazione’ tra paziente e analista. Si capisce, allora, perché la teoria successiva a Freud abbia voluto rendere via via più espliciti i termini di tale negoziazione, agendo eventualmente su di essi per realizzare interventi terapeutici più efficaci. Ciò ha condotto a trasformazioni dell’impianto teorico stesso della psicanalisi che sono andate esplicitandosi man mano che si rendeva possibile un distacco dalle concezioni freudiane: è stato sostenuto, infatti, che il t. non fosse da intendere, freudianamente, come ascrivibile a fasi dello sviluppo libidico individuale, quanto, piuttosto, a specificità duali dei rapporti primari del bambino con le figure parentali. Nelle contemporanee dispute sul t. si intrecciano due prospettive difficili da separare: una prima, utilizza l’attenzione per i contenuti del t. come ‘grimaldello’ per modificare l’approccio ortodosso, in favore di una teoria che affermi una differente priorità di eventi significativi; una seconda, a prescindere da ogni specifica esigenza teorica, valorizza il ‘qui e ora’ del t. come premessa di una percezione realistica del lavoro analitico, come base, cioè, di un diverso accordo tra paziente e analista che evidenzi il contributo comune alla costruzione di una situazione terapeutica.