In statistica, la d. di una serie numerica è la somma dei quadrati delle differenze tra i valori della serie e la loro media; divisa per il numero dei valori considerati dà la varianza. La d. viene soprattutto utilizzata nell’analisi della varianza.
Azione o comportamento, di un individuo o di un gruppo, che la maggioranza dei membri della collettività all’interno della quale si sviluppa giudica violi le norme condivise. Più in particolare, un comportamento può essere definito deviante laddove violi determinate aspettative connesse a uno specifico riferimento normativo, venendo quindi identificato come deviante da una collettività specifica, attraverso una valutazione che consideri la situazione circoscritta in cui si è sviluppato e i ruoli sociali degli agenti, tenendo parallelamente conto della sua intensità e della sua direzione. Il concetto di d. deve essere distinto dal concetto di illegalità, poiché non sempre le norme sociali esistenti all’interno di uno specifico contesto sociale rappresentano anche precetti dell’ordinamento giuridico vigente al suo interno.
La prospettiva in base alla quale un’azione può essere considerata deviante soltanto in riferimento al contesto sociale all’interno del quale essa si sviluppa è attualmente largamente condivisa all’interno del panorama delle scienze sociali, ma in passato essa è stata al centro di un vivace dibattito, che vedeva da un lato i sostenitori di una concezione relativistica della d., in base alla quale esistono soltanto mala quia prohibita, ovvero atti che sono devianti in quanto condannati dalla collettività, e dall’altro lato i sostenitori di una concezione assolutistica, in base alla quale esisterebbero invece anche mala in se, ovvero atti intrinsecamente malvagi.
Paradigmi della d. All’interno del contesto delle scienze sociali sono state elaborate diverse interpretazioni della d., che possono essere schematizzate in cinque paradigmi principali. Secondo il paradigma bio-antropologico il fatto che alcuni individui compiano atti devianti sarebbe da imputarsi a un quadro di tratti biologici di cui essi sono portatori; l’idea al centro di questa prospettiva è che alcuni individui abbiano geneticamente, e quindi ereditariamente, una maggiore tendenza al crimine, determinata e spesso identificabile attraverso l’analisi di alcuni elementi corporei. Principali esponenti di tale paradigma sono stati C. Lombroso, W.H. Sheldon e i coniugi S. ed E. Glueck. Secondo il paradigma sociale, invece, l’elemento centrale nella spiegazione del comportamento deviante è rintracciabile nei difetti che il processo di socializzazione può avere avuto nel trasmettere ad alcuni individui i valori e modelli di comportamento condivisi all’interno del contesto sociale. La d. rappresenterebbe quindi per un verso il risultato di una difficoltà da parte dell’individuo tanto nel percepire e comprendere le regole della collettività quanto nell’adattarsi a esse (teoria della tensione), e per altro verso il risultato di una socializzazione all’interno di una subcultura portatrice di valori e norme differenti da quelli dominanti all’interno della società (teoria della subcultura). Principali esponenti di questa prospettiva sono stati da un lato É. Durkheim e R.K. Merton e dall’altro R. Park e altri esponenti della scuola di Chicago. Secondo il paradigma razionale il comportamento deviante può essere spiegato considerandolo come il risultato di un’azione razionale, ovvero di una valutazione della convenienza di adottare un comportamento deviante invece di un comportamento non deviante sulla base dei costi a essi connessi in vista del raggiungimento dei propri obiettivi. In questo caso quindi non ci sono elementi particolari di ordine psicologico, ambientale o sociale che distinguano l’individuo deviante dagli altri. Ispiratori del paradigma della scelta razionale possono essere considerati C. Beccaria e l’utilitarismo settecentesco. Secondo il paradigma interazionista, al quale è connesso il concetto di ‘etichettamento’, nel tentativo di comprendere il comportamento deviante non è invece sufficiente considerare unicamente motivazioni e scelte del singolo attore, bensì è necessario analizzare l’interazione tra chi crea le norme, chi le applica e chi le infrange, tenendo parallelamente conto dell’immagine che di tali soggetti sviluppa la società. In tal senso bisogna distinguere tra il compimento di un atto che trasgredisce le regole e il conseguente emergere di una reazione sociale in base alla quale l’attore viene identificato come un deviante, con la conseguenza che i suoi comportamenti presenti e passati vengono interpretati alla luce di tale giudizio. Tra i principali esponenti di questo paradigma troviamo A.K. Cohen e H.S. Becker. Secondo il paradigma conflittualista, infine, i comportamenti devianti devono essere interpretati anzitutto come il risultato di una preesistente situazione conflittuale all’interno della società, una situazione che vede contrapporsi gruppi portatori di interessi differenti. In questa prospettiva la definizione delle norme, e quindi delle leggi, diventa appannaggio del gruppo che acquisisce, almeno temporaneamente, il dominio. Da un lato quindi il comportamento deviante rappresenta una forma di resistenza messa in atto dai dominati nei confronti dello status quo esistente, e dall’altro lato la definizione stessa di tale comportamento come deviante, appannaggio dei gruppi dominanti, rappresenta una forma di difesa di quello stesso status quo. Seppur in prospettive differenti si rifanno a tale approccio da un lato L. Coser, R. Dahrendorf e R. Collins, dall’altro G. Vold e T. Turk.