Italia
Durante le feste di Pasqua del 1897 un fotografo francese, Henri Le Lieure, aprì con il socio italiano Luigi Topi una sala di proiezioni a Roma, avviando così, dopo le prime proiezioni avvenute l'anno precedente a Milano e Torino, la diffusione del cinema in Italia. Nel volgere di pochi anni numerosi produttori diedero inizio a una vera e propria attività cinematografica; tra questi, a Torino, Rinaldo Arturo Ambrosio (v. film ambrosio) che, dopo alcune riprese dal vero della corsa automobilistica Susa-Moncenisio girate con l'operatore Roberto Omegna, produsse, a partire dal 1906, film comici e drammatici che avrebbero riscosso grande successo anche all'estero. Ma Torino, con l'altra importante casa di produzione, la Film artistica 'Gloria', fu solo una delle capitali del nascente cinema italiano: c'era infatti Roma, dove alla Film Ambrosio faceva concorrenza la Cines di Filoteo Alberini e Dante Santoni, che debuttarono nel 1905 dirigendo La presa di Roma, imponente ricostruzione degli avvenimenti del 1870, forse il primo film italiano a soggetto; c'era Milano, dove Luca Comerio aprì i suoi stabilimenti alla Bovisa, seppur per cederli presto a un gruppo di aristocratici che sarebbero andati incontro a un fallimento con l'ambizioso Excelsior (1913, diretto dallo stesso Comerio); c'era Napoli, che applaudiva con entusiasmo ‒ e l'eco doveva arrivare fino a New York ‒ i film di Elvira Notari per la Film Dora, modellati sulla forma di teatro popolare della canzone sceneggiata. Già nel 1908 uscì ‒ mentre stava per affermarsi anche il genere comico con il personaggio di Cretinetti ‒ un successo internazionale quale Gli ultimi giorni di Pompei, prodotto da Ambrosio per la regia di Luigi Maggi, che anticipò il genere kolossal esibendo grandi scenografie tridimensionali, masse imponenti, trucchi sofisticati e un'accuratissima fotografia (l'operatore era ancora Omegna, il maggiore dell'epoca, con Giovanni Vitrotti e Comerio). Da quel momento ebbe grande sviluppo la produzione di film storici ispirati a vicende di epoche remote o del Risorgimento, tratti con onnivora indifferenza da romanzi d'avventura e opere classiche: Omero (L'Odissea, 1911, di Francesco Bertolini e Adolfo Padovan), Dante (L'Inferno, 1911, di Padovan, Bertolini e Giuseppe De Liguoro), T. Tasso, W. Shakespeare, F. Schiller, A. Manzoni, A. Dumas, E.R. Bulwer-Lytton (ancora con una versione di Gli ultimi giorni di Pompei, diretta nel 1913 da Eleuterio Rodolfi, della durata di quasi tre ore), H. Sienkiewicz, che fornì il testo per il Quo vadis? diretto nel 1913 da Enrico Guazzoni, un successo mondiale che provocò le prime discussioni sul cinema come arte. Ma a compiere il passo decisivo in tale direzione fu Giovanni Pastrone, grande personaggio del cinema italiano del tempo. Dopo La caduta di Troia del 1911 Pastrone elaborò un progetto ancora più ardito, e per Cabiria (1914) chiese la collaborazione di Gabriele D'Annunzio per la sceneggiatura, costruì imponenti scenografie e, con la collaborazione di Segundo de Chomón, fece ricorso a movimenti di macchina di ardita modernità utilizzando sistematicamente l'illuminazione artificiale con intenti estetici.
Il film colossale, insieme al divismo soprattutto femminile (Francesca Bertini, Lyda Borelli, Diana Karenne, Italia Almirante Manzini, Dora e Pina Menichelli, Maria e Diomira Jacobini), ma anche maschile in particolare nei generi (il Maciste di Bartolomeo Pagano, che debuttò in Cabiria, lo Za la Mort del misterioso Emilio Ghione), sarebbe stato il punto di forza del cinema italiano fino alla crisi irreversibile del primo dopoguerra, quando esso fu travolto dalla concorrenza statunitense, dalla mancanza di idee nuove e dai costi esorbitanti per divi e divine. Tuttavia, nel corso degli anni Dieci ‒ durante i quali crebbe anche la pubblicistica di settore e nella produzione svolse un ruolo di un certo rilievo la Film d'arte italiana, filiazione della Film d'art della Pathé (v. pathé frères) ‒ non mancarono altre opere di grande suggestione, nell'ambito di un universo ancora in parte da indagare, come Assunta Spina (1915) di Gustavo Serena, con una notevole Francesca Bertini, a un film di cui si sono perse le tracce, Sperduti nel buio (1914) di Nino Martoglio e Roberto Danesi, che rivelano la dominante tendenza realista del cinema italiano, con il ricorso a scene en plein air; da Rapsodia satanica (1917) di Nino Oxilia a Malombra (1917) di Carmine Gallone, dove le pose e gli atteggiamenti di Lyda Borelli sono una preziosa e intelligente antologia di un gusto pittorico che va dal preraffaellismo al liberty. E ancora un'opera comico-fantastica quale Saturnino Farandola (1913), film in quattro episodi diretto da Marcel Fabre; melodrammi come Ma l'amor mio non muore! (1913) di Mario Caserini, che aveva segnato l'esordio nel cinema di Lyda Borelli; Il fuoco (1915) e Tigre reale (1916) entrambi di Pastrone e con Pina Menichelli; Mariute (1918) di Edoardo Bencivenga; l'unica, ma assai intensa, prova cinematografica di Eleonora Duse, Cenere (1917) di Febo Mari e Arturo Ambrosio Jr; fino a La serpe (1920) di Roberto Roberti. Un cinema in apparenza più di attori che di autori, eppure non certo privo di interessanti personalità, se si considerano, oltre i citati, anche i casi di R. Omegna con il documentario La vita delle farfalle (1911) e di un altro documentarista come L. Comerio, fino ai primi film di Augusto Genina che già denotavano la competenza e il nitore figurativo evidenti nei suoi lavori più noti degli anni Trenta e Quaranta. Una macchina, quella del cinema, da cui tutti sembravano essere attratti: i futuristi in prima linea (v. futurismo), con tanto di apposito manifesto, La cinematografia futurista (1916), con alcuni cortometraggi dei fratelli Corradini, in arte rispettivamente Bruno Corra e Arnaldo Ginna, e anche con un'opera, esterna al gruppo del manifesto ma nata in seno a umori futuristi quale Thaïs (1917) di Anton Giulio Bragaglia, con scene e costumi di Enrico Prampolini.
La crisi, dunque, arrivò all'inizio degli anni Venti. Ma alla fine del nuovo decennio s'impose l'arrivo del film sonoro ‒ con La canzone dell'amore (1930) di Gennaro Righelli ‒ e le sale tornarono a riempirsi anche per le numerose proiezioni di The jazz singer (1927; Il cantante di jazz) di Alan Crosland, che causò sulla terza pagina del "Corriere della sera" un'accesa polemica pro o contro il sonoro, con articoli, tra gli altri, di O. Vergani e di S. Pittaluga. La politica protezionistica del fascismo incoraggiò la produzione e se nel 1931 G. Bottai presentò una legge sulla cinematografia, l'anno precedente erano stati inaugurati i nuovi padiglioni sonori della Cines. Nel 1933 iniziò l'attività la Titanus di Goffredo Lombardo, l'anno dopo Giovacchino Forzano si costruì un suo regno privato negli Stabilimenti di Tirrenia e Riccardo Gualino fondò la Compagnia italiana cinematografica Lux (v. lux film); poi vennero fondate altre società (Manenti film, Scalera film, Rizzoli e C., G. Amato), finché nel 1937 nacque Cinecittà (v.), sede confacente a esprimere le manie di grandezza del regime, per es. con Scipione l'Africano (1937) di Gallone. Il numero dei film realizzati crebbe ogni anno e i contatti con le cinematografie internazionali vennero assicurati a partire dal 1932 con la prima Mostra internazionale d'arte cinematografica di Venezia, mentre i corsi del Centro sperimentale di cinematografia, fondato nel 1932, provvidero a preparare le nuove leve, e i cinegiornali Luce (v. cinegiornale e istituto nazionale l.u.c.e.), iniziati nel 1927, amplificarono con il sonoro la figura di B. Mussolini e la retorica propagandistica. I film a soggetto variavano dalla commedia al melodramma, al film d'avventura, e nel suo insieme quello del ventennio fascista fu un cinema più bianco che nero, vista la predominanza delle cosiddette commedie dei 'telefoni bianchi' sui film di aperta propaganda quali Camicia nera di Forzano (1933), Vecchia guardia di Alessandro Blasetti (1935) o Il grande appello di Mario Camerini (1936). Forse solo in Condottieri (1937) di Luis Trenker si respira, come osservato da F. Savio, un fascismo teutone e un'inquietudine mortale. Certo, nel finale di quel film straordinario che è Rotaie (1930) diretto da Camerini i due ragazzi protagonisti abbandonano i saloni e le terrazze degli alberghi rivieraschi non già per tornare, come all'inizio, nel loro grigio mondo crepuscolare da Kammerspiel, ma per dirigersi verso una fabbrica e un modesto quartiere periferico dal sapore vagamente autarchico e mussoliniano; proprio come in Terra madre (1931) di Blasetti, dove il giovane duca Marco preferisce la sana vita rurale alle pericolose conseguenze dell'urbanesimo, e nel notevole La tavola dei poveri (1932, da e con Raffaele Viviani), ancora Blasetti indica nella vigorosa produttività dell'industria italica un'alternativa alla decadenza dell'aristocrazia e al furbesco cinismo dei sottoproletari (un ruolo analogamente positivo, come del resto nel testo originario di G. Giacosa, ebbe l'onesto e laborioso Massimo rispetto alla frivola famiglia Rosani in Come le foglie, 1935, di Camerini). Ma, in questi e in altri casi, si tratta di un generico e benpensante atteggiamento borghese, verso il quale si indirizzarono anche registi più 'allineati' come Goffredo Alessandrini oppure come Genina, che al rimario delle avventure nel deserto o nel fortino assediato del West ricondusse, rispettivamente, le vicende ispano-franchiste di L'assedio dell'Alcazar (1940) e quelle coloniali di Bengasi (1942).
Sarebbe comunque ingiusto ridurre al solo livello di registi di regime Blasetti e Camerini. Se il primo poté risultare gradito al regime per l'affresco risorgimentale di 1860 (1934) ‒ ricco di belle immagini en plein air di gusto 'sovietico' e di un riuscito plurilinguismo verbale ‒e per le gremite coreografie pseudostoriche di Palio (1932), di Ettore Fieramosca (1938) e del felicissimo Un'avventura di Salvator Rosa (1939; ma già il delirio kitsch di La corona di ferro, 1941, appare intriso di un pacifismo sospetto ancorché generico e confuso), Camerini rappresentò un mondo a sé. Da sempre etichettato, con rigido schematismo, come modesto precursore provinciale e piccolo-borghese del Neorealismo, egli è stato in realtà, insieme forse solo a Roberto Rossellini, l'unico regista italiano degli anni a cavallo tra i Trenta e i Quaranta che, sia pure con una buona dose di sano e scettico empirismo, si sia preoccupato di integrare i destini individuali in una dimensione che comunque li trascenda, magari a costo di farli aspirare, insoddisfatti e irrequieti, all'emigrazione in un altro setting e in un altro film: come l'edicolante Gianni (Vittorio De Sica) di Il signor Max (1937), o Annetta (Assia Noris) che sogna di essere invitata al ballo dall'altra parte del lago (Una romantica avventura, 1940). Nonostante queste tensioni interne ‒ ma tutto il cinema italiano degli anni Trenta, in presaga attesa dell'uscita neorealistica dagli studi, tendeva a un 'oltre' che all'epoca era solo la falsa Ungheria in stile Mille lire al mese (1939) di Max Neufeld o il modello irraggiungibile della commedia statunitense ‒ la tavolozza cameriniana dipinge un mondo perfettamente autosufficiente e nettamente delineato.
Fra il 1939 e il 1944 il cinema italiano appare segnato dal debutto registico di Vittorio De Sica, inizialmente garbato e timido ma presto, grazie anche all'incontro con Cesare Zavattini, commosso e deciso in I bambini ci guardano (1944). Poteva contare sulle commedie malinconiche e sui melodrammi eleganti e intelligenti, di grande gusto figurativo, di Ferdinando Maria Poggioli e sulla robusta prosa di Amleto Palermi, rafforzata nel caso di La peccatrice (1940) dagli apporti di Umberto Barbaro e Luigi Chiarini e dall'atmosfera di fronda del Centro sperimentale di cinematografia; sulla padronanza del mezzo cinematografico espressa in Fari nella nebbia (1942) di Gianni Franciolini. Persino i modesti film sentimentali e di routine di Mario Mattoli appaiono costruiti con grande cura (Luce nelle tenebre, 1941; Labbra serrate, 1942), e i divi autarchici italiani, o alcuni fra questi (Alida Valli, Assia Noris, Isa Miranda, Massimo Girotti, Osvaldo Valenti, Fosco Giachetti, Amedeo Nazzari, Clara Calamai), acquistavano un alone suggestivo, lasciando intravedere qualità e risonanze fino ad allora insospettate. E c'era anche e soprattutto il filone calligrafico del film in costume, la 'bella forma', tanto vituperata dalla giovane critica dell'epoca ‒ impegnata nelle pre-neorealistiche battaglie per un cinema più attuale e più vivo ‒ ma più tardi giustamente recuperata nel suo fascino non solo esteriore, nelle sue scelte non solo evasive.
Di fronte ai risultati più compiuti di questa tendenza (che vide in prima linea gli esordienti Alberto Lattuada e Renato Castellani, il Mario Soldati delle incursioni fogazzariane, per certi aspetti anche Poggioli, Chiarini e lo stesso Camerini), non basta nemmeno parlare di scelta elitaria, di aristocratico distacco dall'esaurimento dei generi dominanti e dagli slogan sempre più scopertamente vacui del fascismo declinante: i paesaggi lombardi di Piccolo mondo antico (1941) di Soldati e di Giacomo l'idealista (1943) di Lattuada, la sonnolenta e oppressiva atmosfera di La bella addormentata (1942) di Chiarini, il café chantant provinciale di Zazà (1944) di Castellani, amorosamente e ironicamente filtrato attraverso gli echi del cinema di Josef von Sternberg, non sono solo cornici o pretesti per eleganti confezioni di drammi esangui e uniformi, anche se di per sé testimoniano l'ammirevole livello professionale di operatori, scenografi, costumisti e tecnici. Si avvertiva qualcosa di diverso: per es., in quella grande festa visiva e sonora che è la merenda sull'erba di Un colpo di pistola (1942) di Castellani non si assiste a un esercizio calligrafico aulico e compiacente, bensì al rifiuto nevrotico di immagini troppo belle, dolorose e ingannevoli, accumulate con frenesia e poi carezzate con struggimento e subito allontanate. Così come la follia di Marina (Isa Miranda), le candele che stridono e oscillano nel vento, l'imbarazzo degli invitati e degli astanti nella scena finale di Malombra (1942) di M. Soldati fanno crescere una tensione difficilmente sostenibile. Forse dipende dalla consapevolezza delle grandi tragedie della storia, che ben presto avrebbero guastato una volta per tutte quelle cene sulle verande e quelle merende sui prati, ma è certo che sulle luci, le musiche e i profumi di quel cinema impalpabile si era diffuso, sottile e contagioso, un velo di tristezza, un senso di nevrosi e di precarietà.
Nonostante il duro clima bellico, i primi anni Quaranta videro ugualmente lo sviluppo di un dibattito artistico e culturale, che proseguiva quelli del decennio precedente e all'inizio del quale era stato usato il termine Neorealismo (v.)
Un critico autorevole quale G.C. Castello (Il Neorealismo cinematografico italiano, 1954) stabilì nel 1945 e con il film Roma città aperta di Roberto Rossellini la data d'inizio del Neorealismo, precisando tuttavia che esistevano alcuni precedenti del movimento, individuati, in rigoroso ordine cronologico, nei film Sperduti nel buio (1914) di Nino Martoglio e Roberto Danesi, 1860 di Blasetti, e Uomini sul fondo (1941) di Francesco De Robertis, fino a rintracciare in tre opere dei primi anni Quaranta gli antecedenti più immediati: Quattro passi tra le nuvole (1942) di Blasetti, I bambini ci guardano di V. De Sica e Ossessione (1943), l'opera prima di Luchino Visconti. Nomi che, come ha sostenuto Paul Virilio (I tanti padri del Neorealismo, in "L'illustrazione italiana", n.s., marzo 1986, 28, pp. 98-104), si possono definire i tanti padri del Neorealismo, anche se lo studioso francese ha ritenuto di individuare tali padri soprattutto nel cinedocumento della Prima guerra mondiale e nella figura di L. Comerio, che definisce "il padre spirituale del Neorealismo", con particolare riferimento a Paisà (1946) di Rossellini. Una tesi suggestiva, che pone l'accento sulla valenza documentaristica che lo sguardo sulla realtà di questi registi contiene e che in Paisà combina scene recitate con immagini documentarie. Ma una visione nuova della realtà è già presente nel Visconti di Ossessione, ardito nella scelta e nel disegno di personaggi, ambienti e situazioni ispirati al modello del melodramma ottocentesco.
Un'attenzione a dettagli d'ambiente e a personaggi comuni riservò il Blasetti di Quattro passi tra le nuvole, importante anche per la presenza, come soggettista e sceneggiatore, di Zavattini, vero e proprio nume della stagione neorealista, che avviò con questo film la sua grande stagione cinematografica, proseguita poi con la sceneggiatura di I bambini ci guardano, inizio della proficua collaborazione con De Sica. Con la fine della guerra il Neorealismo, entrato nella sua fase centrale con Roma città aperta, presentò alcuni degli aspetti principali di questa tendenza: la predilezione per le riprese en plein air, l'impiego di attori generalmente non professionisti, la collaborazione di gruppo alla sceneggiatura e, soprattutto, l'attenzione alla cronaca e alla Storia. Roma città aperta uscì nell'anno della Liberazione (1945) e porta i segni del tragico della Storia ‒ così come Paisà e Germania anno zero (1948) ‒ in scene rimaste commoventi e di grande intensità. La pratica del documentario, consueta già in Rossellini (Il ruscello di Ripasottile e La nave bianca, entrambi girati nel 1941), venne perseguita anche da Michelangelo Antonioni, che nel 1943 iniziò le riprese di un cortometraggio concluso solo nel 1947, Gente del Po, descrizione della misera vita dei pescatori padani. Le tappe di avvicinamento al suo primo lungometraggio di finzione proseguirono con N.U. (Nettezza urbana) (1948) e con il 'film nel film' L'amorosa menzogna (1949); ma nel frattempo Antonioni fu anche sceneggiatore nell'esordio di Giuseppe De Santis, Caccia tragica (1947), dove questi rivelò un'attenzione al paesaggio e alla sua funzione nello sviluppo dell'azione, nonché l'influenza di generi quali il western e il gangster film. Nel clima neorealistico G. De Santis fu forse il regista allo stesso tempo più nazional-popolare e più direttamente influenzato dalle suggestioni cinefile, come appare anche in Riso amaro (1949), importante viatico per le future star Silvana Mangano e Vittorio Gassman, storia di amore e morte, memore dei grandi scenari western; con Non c'è pace tra gli ulivi (1950), dramma di ambiente pastorale, e con quel notevole intreccio di storie personali, ispirato a una cronaca drammatica del tempo, di Roma ore 11 (1952). Tra un impianto neorealistico e canoni del film poliziesco e del melodramma, si collocò Il bandito (1946) di Lattuada, architetto e, soprattutto, ottimo fotografo, mentre Castellani in Mio figlio professore (1946) sembrò attenuare i suoi raffinati stilemi per una commedia d'ambiente popolare, densa di umori teneri e malinconici. Alla commedia satirica e, talvolta, dotata di un pungente sguardo nel sociale, si rivolse Luigi Zampa, in opere quali Vivere in pace (1947), Anni difficili (1948), scritto con Vitaliano Brancati, e L'onorevole Angelina (1947), che offrì alla più grande delle attrici italiane, Anna Magnani, uno dei ruoli più famosi. A Napoli e con la partecipazione di molti bambini (gli scugnizzi) Luigi Comencini girò la sua opera prima, Proibito rubare (1948), che con il cortometraggio documentario Bambini in città (1946) rivelò una capacità non comune, poi mantenuta, nel raccontare i sentimenti e le inquietudini del mondo dell'infanzia.
Se possono esservi, come si è visto, molti padri per il Neorealismo, vi sono anche molte e variegate opere che nell'I. del secondo dopoguerra portarono alla ribalta registi che si erano formati in questo humus. Tanto che si può parlare di 'opere neorealiste', ovvero film che si identificano in gran parte con un certo progetto estetico ed etico, e di 'film del Neorealismo', opere sostanzialmente estranee a quel progetto, ma da esso variamente toccate e contaminate, a dimostrazione della sua ampiezza e della sua forza d'influenza sul cinema italiano del dopoguerra. Ecco allora, entro la varietà delle proposte, film d'ambiente partigiano come Il sole sorge ancora (1946) di Aldo Vergano o Un giorno nella vita (1946) di Blasetti e Due lettere anonime (1945) di Camerini; un'opera dai toni surrealisti come Roma città libera (1946) di Marcello Pagliero; altre di ambiente popolare come il dittico Abbasso la miseria! (1945) e Abbasso la ricchezza! (1946) di Gennaro Righelli; il dramma rurale di Genina su Maria Goretti, Cielo sulla palude (1949), che si avvalse della fotografia di G.R. Aldo, il più celebre degli operatori legati alla stagione neorealista; il melodramma musicale O sole mio (1946) di Giacomo Gentilomo con Tito Gobbi, lo stesso che ripropose Tosca nella Roma occupata (Avanti a lui tremava tutta Roma, 1946, di Gallone); il documentario a più mani sulla Resistenza Giorni di gloria (1945); uno splendido 'noir' quale Fuga in Francia (1948) di Soldati. E, nell'ambito di una logica di dialogo stretto tra i generi, avvenne l'esordio di Pietro Germi, con i toni western e d'azione di In nome della legge (1949), quelli, memori di Grapes of wrath (1940) di John Ford, di Il cammino della speranza (1950), e con il poliziesco La città si difende (1951). Forse lo spirito più puro del Neorealismo è espresso, oltre che da Rossellini, dai primi film del binomio De Sica-Zavattini, dove la teoria zavattiniana della 'distrazione involontaria' della macchina da presa, che coglie aspetti del reale solo in apparenza marginali, e lo sguardo apparentemente non mediato di De Sica crearono opere quali Sciuscià (1946) e Ladri di biciclette (1948), espressione, per dirla con André Bazin di una "fenomenologia della storia" (Qu'est-ce que le cinéma, 4. Une esthétique de la réalité: le néo-réalisme, 1962; trad. it. parz. 1973, p. 311), rispetto alla quale il successivo film-fiaba Miracolo a Milano (1951) mise in risalto la vena favolistica e surreale dello sceneggiatore. Nello stesso anno di Ladri di biciclette uscì anche un altro grande film di Visconti, la sua opera seconda La terra trema, forse quella più legata allo spirito del Neorealismo grazie alla scelta di un soggetto ispirato ai Malavoglia verghiani e all'uso del dialetto, ma entro una concezione e un gusto plastico-pittorico dell'immagine che ha pochi eguali nella storia del cinema. Sul finire degli anni Quaranta la stagione neorealista in senso proprio tuttavia sembrò chiudersi, anche se, almeno dal punto di vista della fabula, un film come Sotto il sole di Roma (1948) di Castellani ‒ con la Roma di borgata durante l'occupazione tedesca ‒ appare a metà strada tra Neorealismo e commedia degli anni Cinquanta, gettando le basi del cosiddetto neorealismo rosa; mentre nel 1952 lo stesso regista firmava un'opera di robusta vena populistica come Due soldi di speranza, il cui spirito picaresco evoca il Il novellino, ma anche Lo cunto de li cunti di G.B. Basile.
La commedia, dopo la grande stagione cameriniana degli anni Trenta e alcuni sparsi esempi neorealistici, tornò con forza all'inizio degli anni Cinquanta con Luciano Emmer, già autore di rilevanti film sulla storia dell'arte, che con Una domenica d'agosto (1950) disegnò il vivace ritratto di un variegato gruppo di romani in gita a Ostia, su soggetto dell'abituale collaboratore di Rossellini, Sergio Amidei. Un'opera che delinea un certo gusto del bozzetto, non necessariamente da intendere in senso negativo, seppur di non grande respiro, un gusto che Emmer rivelò anche in Le ragazze di piazza di Spagna (1952), nel quale la voce narrante di Giorgio Bassani ‒ che interpreta il ruolo di un professore ‒ scandisce le vicende, intrise di delicata malinconia, di tre giovani lavoranti di sartoria. Era questo il periodo del neorealismo rosa, anche se proprio all'inizio del decennio De Sica firmò un altro capolavoro nel suo stile, un film teso e spoglio, a tratti crudele, Umberto D. (1952). Intanto nel 1951 Visconti aveva girato Bellissima, uno dei vertici del cinema italiano, che segnò un importante cambiamento; nel cast appare Anna Magnani, ne è sceneggiatore C. Zavattini e Visconti ambienta il racconto nello stesso mondo del cinema e traccia con grande acume e crudeltà il rapporto tra questo mondo e quello popolare ('neorealistico'), attraverso l'iniziale e ironico contrappunto dell'Elisir d'amore di G. Donizetti. In quegli anni esordirono Antonioni e Federico Fellini, i quali, neorealisti o meno, introdussero elementi del tutto nuovi nel panorama italiano. Esordi inizialmente non molto fortunati, pur con opere che restano tra le loro migliori (Cronaca di un amore, 1950, e La signora senza camelie, 1953, per Antonioni; Luci del varietà, 1950, e Lo sceicco bianco, 1952, per Fellini, ma il primo codiretto da Lattuada), analoghi sia nella diversità dell'approccio al mezzo cinematografico sia nella visione del mondo. Da un lato gli spazi spogli e gli interni magari eleganti ma diacci di Antonioni, ove i personaggi sono seguiti, nel loro disagio, con inquadrature lunghe e geometriche e immagini che richiamano parte della grande pittura contemporanea (da G. Morandi a P. Mondrian, da J. Pollock a M. Rothko); dall'altro il gran teatro barocco del mondo felliniano, pieno di figure e figurine da circo o da cartoons in perenne agitazione, continuamente immerse in uno spazio sospeso tra realtà e sogno. Entrambi, tuttavia, provengono dalla provincia (Ferrara e Rimini), spezzano la mera dicotomia città-campagna che, tranne Ossessione, il Neorealismo aveva mutuato dal cinema del fascismo, e propongono, in particolare Fellini, uno sguardo inedito sul rapporto fra provincia e grande città (le sequenze magistrali di Ferrara e quelle di Milano in Cronaca di un amore, la Vibo Valentia da cui provengono gli sposini di Lo sceicco bianco e la dialettica Rimini-Roma in Fellini, da I vitelloni, 1953, in avanti).
Accanto ai due principali esordi del decennio fu dunque la commedia a ritrovare un certo smalto e a proporre la più grande maschera del cinema italiano, Totò. La sua impronta ha lasciato un segno indelebile in tutti i film che ha interpretato, nella combinazione, talvolta, di registro comico e registro drammatico, da Napoli milionaria (1950) di Eduardo De Filippo, a Guardie e ladri (1951) di Steno e Mario Monicelli, da Dov'è la libertà…? (1954) di Rossellini a I soliti ignoti (1958) di Monicelli. Aristocratico e plebeo, erede dell'Atellana e della Commedia dell'arte, Pulcinella moderno e antico, Totò rifulge ancor più nella sua grandezza in canovacci più o meno organizzati come l'irresistibile Totò a colori (1952) di Steno e Monicelli o in commedie di artigiani, dai meccanismi ben calibrati e surreali, quali Totò, Peppino e… la malafemmina (1956) di Camillo Mastrocinque, dove è affiancato da un altro comico straordinario quale Peppino De Filippo. È la punta di un iceberg, o di un parco d'attori che nella commedia o nel film drammatico trovavano sempre più spazio, da Alberto Sordi a Vittorio Gassman, Ugo Tognazzi e Marcello Mastroianni, alle bellezze emerse dai concorsi di miss Italia, per prime Lucia Bosè e Silvana Mangano, ma anche Marisa Allasio, Eleonora Rossi Drago, Gianna Maria Canale, Anna Maria Ferrero, Yvonne Sanson, Gina Lollobrigida, Sofia Loren, e altre glorie nazionali ancora in felice e più o meno costante attività (Alida Valli, Isa Miranda, Clara Calamai e, naturalmente, Anna Magnani).
Fu soprattutto negli anni Cinquanta che in I. si manifestarono da un lato il lancio di nuovi attori e dall'altro la proposta di un cinema popolare, segnato nella commedia da titoli quali Poveri, ma belli (1957) di Dino Risi e che in un altro genere, il melodramma, vide le opere, talora un po' involute e non immuni da effettoni strappalacrime, e tuttavia dotate di un robusto impianto narrativo e di un legame con la buona letteratura d'appendice, di Raffaello Matarazzo, già autore negli anni Trenta di un bel film quale Treno popolare (1933), seguito, tra gli altri, da Catene (1949), Tormento (1950), I figli di nessuno (1951), Vortice (1953), Guai ai vinti! (1954) e Angelo bianco (1955). Dentro la logica dei generi si mossero Pietro Francisci (Le fatiche di Ercole, 1958) e Riccardo Freda, esordiente negli anni Quaranta con opere di valore quali Don Cesare di Bazan (1942) e I miserabili (1948), e che si mantenne fedele negli anni Cinquanta a un cinema altamente spettacolare, ricco di un ottimo senso del ritmo e di doti figurative (Teodora, 1954; Beatrice Cenci, 1956; I vampiri, 1957). Qualità che si riscontrano anche in alcuni film di Soldati (La provinciale, 1953; La mano dello straniero, 1954), peraltro assai suggestivi nella loro densità narrativa e visiva. E ancor più nei film diretti da Vittorio Cottafavi, anch'egli a proprio agio nella varietà e nel trattamento dei generi: da Traviata '53 (1953), immissione della tradizione melodrammatica in un racconto e in uno stile visivo tersi e quasi straniati, a Una donna libera (1954), bel ritratto di una giovane inquieta e altro esempio di melodramma 'freddo'.
Lo spettacolo dilaga nei film di Freda, ma anche in quelli, poetici e melanconici, di Fellini (La strada, 1954; Le notti di Cabiria, 1957), e nel primo film a colori diretto da Visconti, Senso (1954), dove il teatro e l'opera lirica, la pittura e la Storia s'intrecciano in sequenze di straordinaria bellezza. Estraneo a queste suggestioni appare invece Rossellini, peraltro autore nello stesso periodo di alcuni dei suoi film più belli (Stromboli, 1950; Francesco giullare di Dio, 1950; Europa '51, 1952; Viaggio in Italia, 1954), di un rigore e di un'asciutta drammaticità di cui forse solo Carl Theodor Dreyer e pochi altri nella storia del cinema sono stati capaci. Opere che imprigionano, un po' come in Antonioni, i personaggi nello spazio (la prigione, l'isola o il manicomio), anche se poi, con Viaggio in Italia, culmine della ricorrente presenza di Ingrid Bergman, invano i protagonisti potranno lasciar fuori dal quadro una realtà mediterranea di canzonette, miseria, donne incinte e, soprattutto, di morte e di museificazione: lo 'spettacolo' del viaggio in I. si prende una rivincita sul film che lo contiene. Tra commedie, melodrammi e opere d'autore, il cinema di quegli anni offrì anche un significativo spaccato del Belpaese, spesso reso con grande acume nella forma del documentario, cui fecero ricorso molti registi, da Florestano Vancini (Delta padano, 1951) a D. Risi, da Vittorio De Seta (Isole di fuoco, 1955) a Luigi Di Gianni, da Gianfranco Mingozzi a Michele Gandin, da Francesco Pasinetti a molti altri, compresi i registi più celebri di quegli anni e dei successivi.
E se il decennio in questione si era aperto anche con un'attenta ricostruzione di un episodio della Resistenza, Achtung! Banditi! (1951) di Carlo Lizzani, in seguito passato al quadro intimistico di Cronache di poveri amanti (1954), esso si avviò alla conclusione con lo choc del suicidio dell'operaio di Il grido (1957) diretto da Antonioni, uno degli esiti più alti del cinema italiano, ove lo spazio è ancor più spoglio e angosciante del solito, e senza confini. Per giungere, in fase conclusiva al volger del decennio, a un bel dramma sospeso tra cronaca intimistica e contesto storico (il 1943), quale Estate violenta (1959) di Valerio Zurlini, e a un intenso e desolato sguardo sulla vita di borgata quale La notte brava (1959) di Mauro Bolognini, ispirato a un romanzo (Ragazzi di vita) di uno scrittore e poeta già importante, che lo sceneggiò, Pier Paolo Pasolini.
Fu proprio lo scrittore e poeta, di nascita bolognese e di formazione friulana, l'autore nuovo più importante espresso dal decennio della 'dolce vita' e del boom economico, delle canzonette e della contestazione, dei viaggi difficili dal Sud al Nord e del primato (ancora non assoluto) della città sulla campagna. Fu il decennio più vivace, al di là di ogni facile agiografia, sul piano artistico e culturale, nonché politico; quello in cui il numero di opere cinematografiche prodotte aumentò in modo considerevole e così quello degli spettatori. Una vera e propria età dell'oro del cinema italiano, come l'ha definita un attento studioso quale P. Bondanella (1983), ricca di molteplici e significativi esordi, a cominciare da quello dello stesso Pasolini. Privo di un'effettiva esperienza tecnica, egli rivelò subito una grande affinità con la scrittura cinematografica, e con il tragico percorso di un borgataro (Accattone, 1961) trasferì sullo schermo la sua poesia e la sua prosa, nonché le proprie notevoli doti di sensibilità e gusto pittorico, alimentate anche dalla scuola di R. Longhi. Scandito dalla musica di J.S. Bach, Accattone sembra rivelare un'innocenza dello sguardo, una pressoché totale disponibilità del suo autore verso la materia della rappresentazione. I volti 'masacceschi' e 'caravaggeschi' dei giovani sottoproletari romani si ritrovano anche in Mamma Roma (1962), che segnò anche un'altra grande prova di Anna Magnani, mentre il rapporto tra quel mondo di borgata e miseria e la sua rappresentazione sullo schermo ‒ e tra questi e la pittura ‒ sono al centro di La ricotta (1963), episodio interno a un'opera collettanea, RO.GO.PA.G., straordinario esempio di autoriflessione d'artista, con ricostruzioni in forma di tableaux vivants di opere di Rosso Fiorentino e Pontormo. Tra i sassi di Matera e la Calabria ionica Pasolini girò Il Vangelo secondo Matteo (1964), scandito da citazioni pittoriche del Quattrocento italiano e da frasi messianiche. Intellettuale militante e provocatorio qual era, Pasolini non poteva non riflettere sulla figura del chierico anche in forma di film; nacque così Uccellacci e uccellini (1966), il conte philosophique in cui il tragicomico e il grottesco del mondo sono visti attraverso le figure di Totò e di Ninetto Davoli. A questa 'strana' coppia Pasolini affidò anche due splendidi cortometraggi, La Terra vista dalla Luna (episodio del film collettivo Le streghe, 1967) e Che cosa sono le nuvole? (episodio del film collettivo Capriccio all'italiana, 1968), entrambi fondamentali apologhi sulla vita e la morte. Infine il regista si avviò verso il declinare del decennio con una rivisitazione del mito classico, Edipo re (1967).
Con Pasolini mosse i primi passi Bernardo Bertolucci, che da un racconto del suo 'maestro' realizzò La commare secca (1962), spaccato di una Roma sottoproletaria che tuttavia cerca di staccarsi immediatamente dall'influenza pasoliniana, per es. preferendo avvolgenti e ripetuti movimenti di macchina alle ricorrenti inquadrature frontali e ai primi piani del regista di Accattone. Più 'pasoliniano', semmai, risulta il successivo Prima della rivoluzione (1964), una delle sue opere migliori, film un po' stendhaliano, analogo a un Bildungsroman. Le nuove generazioni, espressione dei fermenti degli anni Sessanta, fecero il loro ingresso nel cinema con Bertolucci e con Marco Bellocchio. Dopo alcuni cortometraggi, questi si impose con l'iconoclastica analisi, condotta sovente con inquadrature sghembe e stranianti, di un ambiente familiare borghese di provincia, i cui membri sono affetti, con una sola ma 'mostruosa' eccezione, da vari tipi di tare: I pugni in tasca (1965). Film che rivelò la propensione al grottesco del primo Bellocchio, confermata da alcuni passaggi del successivo La Cina è vicina (1967), dove più evidente, ma meno efficace dal punto di vista formale, si fa la dimensione 'politica' dell'assunto. Alcuni anni prima, nella Spagna franchista, aveva esordito con spirito caustico e surrealista Marco Ferreri, autore di due film bizzarri, El pisito (1958) ed El cochecito (1960), apologhi sull'insensatezza e sulla valenza utilitaristica dell'agire umano, nei quali Ferreri rivelò già la sua predilezione per figure singolari o addirittura freaks (lo sciancato del primo film, il paralitico protagonista del secondo) e per situazioni svelate nel loro lato più paradossale e demistificante. Una strada seguita nel suo primo film italiano, L'ape regina (1963), dove il grottesco è assai sapientemente calibrato in un crescendo che porta l'assunto iniziale alle sue estreme conseguenze. L'universo di Ferreri è costantemente abitato da figure concepite su una base realistica, ma prontamente virate in risvolti 'mostruosi'. Una galleria che annovera donne scimmia (La donna scimmia, 1964), bambole di plastica e automi (Marcia nuziale, 1966), fino all'ingegnere feticista (Michel Piccoli) di quella che è forse l'opera più importante di questo regista, Dillinger è morto (1969), lenta scansione di atti gratuiti e alienanti, dove le immagini di vecchi film sembrano rivelare che tutto è già accaduto nel lucido nonsense ferreriano. Se del Ferreri di Dillinger si può affermare che sia fuori o oltre la Storia, quasi in un dopo-storia, dentro la Storia e anche dentro la cronaca rimane Francesco Rosi, già assistente di Visconti e autore, con La sfida (1958), di un'opera prima ricca di senso del ritmo e tensione narrativa. Ma fu con Salvatore Giuliano (1962) che si poté apprezzare anche un notevole senso delle immagini e del montaggio. Con quest'opera Rosi mise a punto la tecnica dell'effetto documentario, ottenuto anche grazie all'uso o al rifacimento di brani di repertorio, inseriti con grande perizia nel tessuto narrativo, mentre un effetto di realtà o di ripresa in diretta si avverte in alcune sequenze di Le mani sulla città (1963), coraggiosa riflessione sulla corruzione politica. Il gusto per la valenza documentaria del cinema appartiene anche a Gillo Pontecorvo, che forse lo ricavò dalla frequentazione, in gioventù, di Joris Ivens. Dopo un film, Kapò (1960), non privo di momenti intensi e con l'indubbio merito di aver iniziato una via cinematografica alla comprensione del genocidio ebraico, la sua vena documentaria si rivelò appieno in La battaglia di Algeri (1966). Sull'onda della rievocazione storica si mosse anche il bell'esordio di Florestano Vancini, l'intenso La lunga notte del '43 (1960), suggestivo, partecipato e coraggioso racconto di una terribile pagina di storia italiana ‒ il massacro di numerosi ebrei e non, a Ferrara, da parte dei repubblichini di Salò ‒ tratto, con ottima capacità descrittiva di ambienti e personaggi, da una de Le storie ferraresi (Torino 1960) di G. Bassani. Lungo questa ipotetica linea storico-sociale del cinema italiano degli anni Sessanta s'incontra anche il buon esordio di un regista teatrale, Gianfranco De Bosio, con Il terrorista (1963), e soprattutto Banditi a Orgosolo (1961) di V. De Seta, costruito con grande senso del montaggio e frutto di una sapiente pratica nel documentario (di cui mantiene il taglio) alimentata nel corso degli anni Cinquanta, lucido e incisivo sguardo su comportamenti e mentalità.
Particolarmente attento al ruolo del Tempo e della Storia, Visconti aprì il decennio con un dramma, Rocco e i suoi fratelli (1960), strutturato come una tragedia greca, sulla perdita delle radici e la disgregazione del ghenos nel viaggio da Sud a Nord. Quindi fece un salto all'indietro, ma a mo' di metafora di un pressoché eterno presente, con un altro grande e sontuoso quadro di immagini a colori e musica, Il Gattopardo (1963), per tornare poi al bianco e nero che fotografa una tenebrosa Volterra (Vaghe stelle dell'Orsa, 1965). La crisi e l'avventura dei sentimenti, il rapporto disarmonico tra uomo e spazio (il mondo, la natura), il mistero del reale che mai si dischiude veramente sono al centro della tetralogia di Antonioni, che inizia con L'avventura (1960), passa per La notte (1961) e L'eclisse (1962) e si conclude con la natura innaturale di Deserto rosso (1964), che costituisce lo stadio estremo dell'alienazione in questo suo primo film a colori (con splendidi effetti tachistes e pennellate degli esterni in grigio-verde e degli interni in rosso e nero). Una geometria d'immagini che costituisce forse la punta più avanzata di tutta l'arte figurativa di quegli anni, pur se suggestionata da una parte di essa, in particolare di area americana. Con il successivo Blow-up (1966), riflessione sul rapporto tra arte e realtà e tra arte e illusione, Antonioni sembrò chiudere realmente tutta una lunga e ricca ricerca sulle immagini. Nel suo tipico e unico gran teatro del mondo Fellini immise nuovi personaggi, spesso paradossali dramatis personae, in spazi metropolitani scioccamente festaioli e cinematografari (La dolce vita, 1960) o in quelli sospesi tra sogno e realtà, rappresentazione mentale di un regista di un film da farsi che infine vede passare in rassegna tutte le creature (lui compreso) del suo 'circo' (8¹/₂, 1963). Con il suo primo film a colori, Giulietta degli spiriti (1965), tentò poi di adottare il punto di vista della sua nevrotica protagonista, immergendola in un universo magico e incantato; quindi in un notevole viaggio allucinante e onirico verso la morte (Toby Dammit, episodio di Histoires extraordinaires, noto anche come Tre passi nel delirio, 1968) elaborò un tema (appunto la morte) sempre più presente nell'universo felliniano, a partire da quel viaggio fantastico e visionario nella Roma imperiale costituito dal Fellini Satyricon (1969), dove la decadenza del passato sembra alludere a quella del presente. Tutt'altra strada seguì Rossellini, che dopo un fiacco omaggio al 1860 garibaldino, tuttavia suggestivo nelle sequenze en plein air (Viva l'Italia!, 1961), avviò un progetto lungo e coraggioso, ma sostanzialmente irrisolto, con le prime opere del ciclo storico-didattico per la televisione il cui esito più alto resta La presa di potere di Luigi XIV (1966). Anche De Sica non ebbe momenti innovativi, se si escludono il fantasioso e bizzarro finale di Il giudizio universale (1961) e alcuni passaggi di La ciociara (1960), Il boom (1963), Ieri oggi domani (1963) e Matrimonio all'italiana (1964).
Nella commedia, che in quegli anni assunse la denominazione di commedia all'italiana (v.), furono altri registi a offrire alcune opere memorabili: D. Risi con Una vita difficile (1961) elaborò un grande racconto di quasi un ventennio di storia d'Italia, con inserti d'epoca e giornali a far da 'effetto di reale', attraverso la figura di un giornalista umiliato e offeso (un magistrale Alberto Sordi), che si concede infine una bella rivincita. Quindi con Il sorpasso (1962) propose una sorta di moderno Capitan Matamoro (le suggestioni della Commedia dell'arte alimentavano quella 'all'italiana'), interpretato con grande perizia da Vittorio Gassman per una storia di vita e di morte, brillante e drammatica a un tempo, melanconica e grottesca, come altri significativi esempi di commedia anni Sessanta. Affidata alla perizia di registi, attori e sceneggiatori (Age, Furio Scarpelli, Rodolfo Sonego, Ettore Scola), la commedia all'italiana trovò esempi efficaci in regie di Zampa (Il vigile, 1960; Il medico della mutua, 1968) e Germi (Divorzio all'italiana, 1961; ma ancor più in Un maledetto imbroglio, 1959, da C.E. Gadda, che anche grazie all'apporto di un 'narratore' robusto come Ennio De Concini costruì un'efficace macchina narrativa e incisivi quadri ambientali). Maggiore spessore assunsero le figure femminili, quali l'Aida (Claudia Cardinale) di una bella e un po' crepuscolare storia d'amore, La ragazza con la valigia (1961) di Valerio Zurlini, che nel successivo Cronaca familiare (1962) si rifece alla pittura di O. Rosai per narrare con toni elegiaci un rapporto tra fratelli; e ancor più l'Adriana (una bravissima Stefania Sandrelli) di Io la conoscevo bene (1965) di Antonio Pietrangeli, autore nel 1961 di un'opera ricca di una brillante vena fantastica quale Fantasmi a Roma. Donna malinconica e contornata di squallide figure maschili, Adriana è forse la più celebre tra le intense figure femminili del cinema di Pietrangeli, tra cui la protagonista (Catherine Spaak) di La parmigiana (1963). Che la commedia preveda una compresenza di comico, drammatico e grottesco lo rivelarono bene le opere di Monicelli, da La grande guerra (1959), con i due picareschi protagonisti, a La ragazza con la pistola (1968), viaggio di una sedotta e abbandonata siciliana nella swinging London, nel quale Monica Vitti venne scoperta come attrice comica. In mezzo vi fu uno dei maggiori successi del regista, L'armata Brancaleone (1966, con un grande Vittorio Gassman), combinazione di elementi 'aulici' e popolari, mediante l'adozione di un linguaggio maccheronico e il ricorso al paradosso, e con la grande cura nell'uso del colore, del trucco, dei costumi. Acre e grottesca è la rappresentazione di una fase storica complessa (il periodo successivo all'armistizio dell'8 settembre 1943), in Tutti a casa (1960) di L. Comencini, che propose anche una variante più sommessa di una materia simile con La ragazza di Bube (1963), dal romanzo di C. Cassola. Successivamente egli tornò a indagare l'universo dei bambini, con la sua gentilezza di tocco, non incline però a indulgenze, in Incompreso (1966) e soprattutto in Infanzia, vocazione e prime esperienze di Giacomo Casanova veneziano (1969), che immerge il diario del celebre libertino as a young man in una Venezia ben 'fotografata' e ricca di suggestioni pittoriche (da F. Guardi e da P. Longhi).
Una bella storia d'ambiente alto-borghese, indagato con sicurezza e incisività, era stato l'esordio (Gli sbandati, 1955) di Francesco Maselli, robusto studio di caratteri, come anche I delfini (1960) e Gli indifferenti (1964), dove il romanzo di A. Moravia fu adattato con molta cura scenografica e fotografica (l'operatore fu Gianni Di Venanzo). Agli effetti del bianco e nero 'alla Di Venanzo' furono affidate anche le immagini del bel film d'esordio di un'assistente di Fellini, Lina Wertmüller, I basilischi (1963), storia di alcuni giovani vitelloni della buona borghesia in un imprecisato paese del Meridione d'Italia: una commedia dolce-amara, che sembra alludere a una condizione congenita e, in parte, generalizzata. Toni dimessi, legati a una quotidianità restituita con occhio acuto e garbata ironia, si notano nella felice opera prima, Il posto (1961), di un regista, Ermanno Olmi, avviato al cinema da una nutrita serie di documentari d'ambiente industriale. Il rapporto tra città industriale (Milano) e periferia, e tra i diversi modi di vita, fa da sfondo alla storia di un giovane che si appresta a entrare nel difficile mondo del lavoro e alla tenera amicizia con una sua coetanea. Un motivo, quello dei rapporti umani, che fu al centro anche del successivo I fidanzati (1963), inconsueto ritratto di un operaio del Nord trasferito al Sud e dello scambio epistolare con la fidanzata, cadenzato da frequenti avanzamenti e arretramenti del racconto. Quella di Olmi appare come una delle figure più singolari del cinema italiano degli anni Sessanta, appartata nella realizzazione di film a basso costo e con attori sconosciuti, aspetti che insieme alla ricerca di un minuzioso realismo rendono questo regista uno dei più sensibili alle ascendenze neorealistiche. Del resto tutto il decennio fu cadenzato da altre presenze singolari, con opere talora di rilievo: La contessa azzurra (1960) di Claudio Gora, Leoni al sole (1961) di Vittorio Caprioli, Omicron (1963) di Ugo Gregoretti, o la sarcastica coniugazione degli stilemi da commedia all'italiana di un regista prematuramente scomparso come Franco Indovina (Lo scatenato, 1967). Dalle prime prove di registi poi in vario modo importanti, quali Giuliano Montaldo (Tiro al piccione, 1961), Elio Petri (Il maestro di Vigevano, 1963), Tinto Brass (Chi lavora è perduto, 1963), si sviluppò una tendenza di cinema innovativo, diverso sia rispetto ai canoni industriali sia rispetto al cinema d'autore. Tale tendenza fu caratterizzata da prove di artisti che sperimentarono inconsuete potenzialità del mezzo cinematografico (Mario Schifano, Alberto Grifi, Gianfranco Baruchello), oppure dalla poliedrica attività di registi indipendenti quali Silvano Agosti e Tonino De Bernardi.
Altrettanto singolare, ma sotto altri aspetti, fu anche Sergio Leone, che conferì particolare spessore a un sottogenere quale il cosiddetto western all'italiana (v.), assai popolare e fortunato (Duccio Tessari, Sergio Sollima e Antonio Margheriti, più noto con lo pseudonimo di Anthony M. Dawson, sono alcuni dei registi che lo coltivarono con più efficacia). Con la cosiddetta 'trilogia del dollaro' (Per un pugno di dollari, 1964; Per qualche dollaro in più, 1965; Il buono, il brutto, il cattivo, 1966) e i due film successivi (C'era una volta il West, 1968; Giù la testa, 1971) Leone elaborò un cinema di forte tensione spettacolare, con scene e sequenze magistralmente condotte, affidandosi ai temi musicali di Ennio Morricone e definendo una serie di eroi negativi, cinici e disincantati, dramatis personae senza particolari configurazioni psicologiche. Dentro la frequentazione dei generi ‒ assai praticati nel corso di tutto il decennio, segnato anche dalla 'serialità' dei film a episodi ‒ va infine ricordata, accanto a quella di R. Freda, che si misurò con perizia soprattutto con l'horror (L'orribile segreto del dottor Hichcock, 1962), la significativa figura di Mario Bava, segnalatosi con La maschera del demonio (1960), notevole per l'ideazione degli effetti sia visivi sia narrativi, poi autore dell'ottimo I tre volti della paura (1963), complesso esercizio autoreferenziale di stile, in atmosfere gotiche ispirate ad A.P. Čechov, L.N. Tolstoj e G. Snyder. Accanto a questa figura a lungo misconosciuta dalla critica, il suggello di un ricco decennio è costituito da un attore-regista singolarissimo come Carmelo Bene, la cui opera Nostra signora dei Turchi (1968), affascinante esempio di barocco e visionario teatro cinematografico, affidato all'uso reiterato di filtri e obiettivi deformanti, costituisce una notevole avventura dello sguardo.
Nel corso di un decennio segnato dal piombo e dalla strategia della tensione, dalle stragi, dai nuovi movimenti studenteschi e dal compromesso storico, dal terrorismo e dalla tragedia dello statista Aldo Moro, trovò fortuna il cosiddetto cinema politico, un nuovo sottogenere all'italiana connotato dal legame delle varie opere con la cronaca di quegli anni. Ma forse si dovrebbe parlare, almeno per alcuni registi, di insistenza sul confronto tra un passato più o meno lontano e il presente, oppure di continuità d'intervento, con gli ovvi aggiornamenti sul piano del soggetto. Talvolta l'excursus narrativo è molto ampio, come in C'eravamo tanto amati (1974) di E. Scola, le cui ottime qualità di sceneggiatore in commedie all'italiana, ma anche di narratore e disegnatore negli anni Cinquanta, scandiscono un iter che riprende e aggiorna quello del D. Risi di Una vita difficile, nella sapiente alternanza di bianco e nero e colore, di momenti comici ed elegiaco-malinconici che si ritrovano in parte anche in un'altra opera di rilievo quale Una giornata particolare (1977). In Novecento (1976) B. Bertolucci intensificò le sue suggestioni hollywoodiane, già svelate nella Tara/Sabbioneta di La strategia del ragno (1970), onirico viaggio interiore nella memoria personale e collettiva, laddove Il conformista (1970) aveva cercato di delineare, attraverso il protagonista e con sapienza rievocativa, un connubio perverso tra borghesia e fascismo (oltre che una metafora della 'uccisione' di padri e maestri cinematografici). La fluidità dei due atti di Novecento alterna alti e bassi con molta ambizione e senso dello spettacolo, dopo l'incursione fin troppo cinefila, tuttavia intrigante nella messinscena di un universo claustrofobico 'alla Francis Bacon', di Ultimo tango a Parigi (1972). Ma l'esito più alto di questo 'cinema della memoria' è il felliniano Amarcord (1973), il confronto più diretto del regista riminese tra l'individuale e l'universale, il sogno e la realtà, il comico e l'elegiaco, un ritorno a casa dopo che con Roma (1972) egli aveva compiuto un viaggio ricco di possente visionarietà tra passato e presente nella città elettiva. Di grande respiro è anche la cosiddetta trilogia germanica di Visconti, guidata da uno dei suoi numi tutelari, Th. Mann. Del trittico lo scrittore ispira La caduta degli dei (1969, in cui si evoca Buddenbrooks) e ancor più Morte a Venezia (1971), tratto dal suo racconto Der Tod in Venedig. Il filo conduttore delle tre opere, l'ultima delle quali è Ludwig (1972), è la maggiore esplicitazione di un tema sempre presente nell'opera viscontiana, quello della crisi o della decadenza di un mondo e di una società, che raramente perde una valenza metaforico-generalizzante, e quasi atemporale, dentro la consueta magnificenza d'immagini.
Afflato storicistico e lirismo epico, combinazione stilistica e tematica di una vena insieme minimalista e massimalista costituiscono gli esordi ‒ ma anche l'insieme dell'opera ‒ di un singolare e inossidabile team costituito da Paolo e Vittorio Taviani. Una vena che, dopo Sovversivi (1967), docufiction intorno ai funerali di P. Togliatti, e Sotto il segno dello Scorpione (1969), favola filosofico-brechtiana, trovò uno sviluppo e una maturazione in un apologo intenso e di ampio respiro quale San Michele aveva un gallo (1973), tratto da una novella di L.N. Tolstoj e strutturato in quattro blocchi narrativi. Quasi in contemporanea con esso i Taviani insistevano su tematiche storiche di tipo allegorico-rivoluzionario con Allonsanfàn (1974), magniloquente ma non sempre con-trollato spettacolo della storia; quindi tornarono a privilegiare un tono cronachistico-minimalista con lo spaccato duro e intenso di Padre padrone (1977) dal romanzo di G. Ledda. Di robusta valenza allegorica si può parlare a proposito di Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto (1970) di E. Petri, che deforma in senso kafkiano una figura di ispettore di polizia (affidato all'incisiva ma un po' enfatica performance di Gian Maria Volonté) inserendolo in una struttura da giallo, mentre carattere da conte philosophique acquista una commedia cupa e grottesca quale Todo modo (1976), secondo e significativo incontro con la poetica di L. Sciascia. Autore, questi, frequentato anche da F. Rosi (Cadaveri eccellenti, 1976, tratto da Il contesto), che con Il caso Mattei (1972) mise a punto una tecnica rigorosa di docufiction, già accennata a suo modo, un decennio prima, con Salvatore Giuliano (1962), di notevole riuscita.
Gialli che continuamente trascolorano nel thriller sono poi quelli di Dario Argento, talvolta un po' compiaciuti dei propri virtuosismi visivo-sonori, ma anche di forte impatto (in particolare L'uccello dalle piume di cristallo, 1970; Profondo rosso, 1975; Suspiria, 1977). Liliana Cavani, una delle rare figure di regista donna, dopo aver offerto sprazzi di buon cinema in I cannibali (1970), si è poi cimentata in ardue e claustrofobiche ricostruzioni d'ambiente (Il portiere di notte, 1974). Significative ‒ soprattutto a uno sguardo retrospettivo ‒ appaiono figure di registi che debuttarono negli anni Settanta: lo scrittore-regista Fabio Carpi, autore di storie intense in cui raffinate suggestioni letterarie introducono a una riflessione accorata sulla memoria e sul confronto generazionale (Corpo d'amore, 1973; cui sono seguiti Quartetto Basileus, 1984; Barbablù Barbablù, 1989; L'amore necessario, 1991; Nel profondo paese straniero, 1997; Nobel, 2001); Franco Brusati (bella in particolare una commedia amara quale Pane e cioccolata, 1974); Franco Giraldi (La rosa rossa, 1973; La frontiera, 1996); Emidio Greco (il 'fantastico' L'invenzione di Morel, 1974; seguito da altre buone trasposizioni quali Ehrengard, 1982, da K. Blixen; Una storia semplice, 1991, e Il consiglio d'Egitto, 2002, da L. Sciascia); Pupi Avati (che ottenne una buona affermazione con l'horror venato d'ironia La casa dalle finestre che ridono, 1976, per poi passare dagli anni Ottanta a indagare l'universo dei sentimenti, percorso da venature melanconiche, trovando in un gruppo di attori legati al regista da una profonda affinità, sensibili protagonisti, come nel caso di Carlo Delle Piane: Una gita scolastica, 1983; Impiegati, 1985; Magnificat, 1993; Il testimone dello sposo, 1998); Luigi Faccini (Garofano rosso, 1976; che ha in seguito sviluppato un tono lirico-esistenziale in Inganni, 1985, su D. Campana; Donna d'ombra, 1988; Notte di stelle, 1991). E inoltre si sono segnalati: Romano Scavolini (La prova generale, 1976); Ansano Giannarelli (Sierra Maestra, 1969, sul caso Régis Debray; Non ho tempo, 1973, sulla vita del matematico évariste Galois); Gianfranco Mingozzi (Trio, 1967; Sequestro di persona, 1968; L'appassionata, 1988, con un'intensa interpretazione di Piera degli Esposti); Maurizio Ponzi (I visionari, 1969; Equinozio, 1971); Roberto Faenza (Escalation, 1968; Copkiller, 1983, passato poi a un cinema di prevalente ispirazione letteraria da Sostiene Pereira, 1995, a Marianna Ucrìa, 1997, dai rispettivi romanzi di A. Tabucchi e D. Maraini); Gianvittorio Baldi (Fuoco!, 1968, che dopo un'attività di produttore è ritornato alla regia con film di aspra drammaticità come Nevrijeme ‒ Il temporale, 2002); Sandro Franchina (Morire gratis, 1968); Marco Tullio Giordana (autore di film sospesi tra melodramma e ritratto sociopolitico, come Maledetti, vi amerò, 1980, linea proseguita fino al successo di I cento passi, 2000), e infine Salvatore Piscicelli (Immacolata e Concetta, l'altra gelosia, 1980; poi seguito da opere irrisolte ma coraggiose e assai personali, da Le occasioni di Rosa, 1981, a Regina, 1987, a Il corpo dell'anima, 1999).
La fortuna dei generi proseguì lungo tutto il decennio degli anni Settanta, in particolare con il poliziesco, l'erotico, il giallo, l'horror e il comico, affidati a registi quali Lucio Fulci, Flavio Mogherini, Umberto Lenzi, Fernando di Leo, Sergio e Bruno Corbucci. Autori, questi ultimi, di alcuni film campioni d'incassi, con una star della canzone quale Adriano Celentano, probabilmente il caso di maggior impatto sul pubblico degli anni Settanta, assieme a quello di Paolo Villaggio, arguto inventore del personaggio di Fantozzi, diretto con buona vena da Luciano Salce. Tuttavia fu la commedia ‒ ancorché in varie sfumature ‒ il genere più duraturo, sia che fosse affidato alla vecchia guardia (Risi, Monicelli), o ai film della coppia Bud Spencer-Terence Hill (come Lo chiamavano Trinità, 1970, di E.B. Clucher) che riscuotevano enorme successo di botteghino, sia che vedesse configurarsi all'orizzonte il passaggio alla regia dei cosiddetti nuovi comici di provenienza teatrale e televisiva (Massimo Troisi, Roberto Benigni, Francesco Nuti, Alessandro Benvenuti, Maurizio Nichetti, Carlo Verdone) o di un 'commediante'-moralista di valore quale Nanni Moretti (Io sono un autarchico, 1977; Ecce bombo, 1978), un cineasta che sarebbe poi cresciuto negli anni per rigore e controllo della materia privilegiata, posando il suo occhio acuto su una fenomenologia del vivere contemporaneo (si pensi, in particolare, a Bianca, 1984; La messa è finita, 1985; Caro diario, 1993, di cui notevole è soprattutto il primo episodio o segmento, che sembra alludere al cinema inteso come viaggio e come scoperta; La stanza del figlio, 2001).
A ideale chiusura degli anni Settanta, un decennio continuamente sospeso tra dramma e commedia, sovente tra loro intrecciati, si possono scegliere quattro opere diversamente rappresentative di una certa fase dei loro autori e anche del più generale contesto italiano, cinematografico e socio-culturale: Il Casanova di Federico Fellini (1976), con cui Fellini costruì un nuovo e ancor più visionario universo teatralizzato abitato dal sogno e dalla morte; Un borghese piccolo piccolo (1977) di Monicelli, dal romanzo di V. Cerami, dapprima commedia umana a dimensione familiare, poi Kammerspiel duro e assai incisivo, con precisi umori contemporanei; un altro Fellini, quello del piccolo ma robusto e inquietante concerto da camera, Prova d'orchestra (1979), che con la sua confusione ben funge da allegoria di un'epoca. Ma su di esse si pone lo sguardo delirante e profetico del pasoliniano Salò o le 120 giornate di Sodoma (1975), opera ardua e complessa, che per la tragica scomparsa dello scrittore rappresenta la sua opera testamentaria.
E' stato all'insegna dei comici che il cinema italiano ha attraversato una fase non eccelsa della sua storia, i primi anni Ottanta, peraltro caratterizzati dalla scarsa attività o dalla scomparsa dei grandi registi del recente passato. Certo nel tempo ancora si apprezza l'esordio di Massimo Troisi, quel Ricomincio da tre (1981) in cui egli ha rivelato tutta la sua sapienza di attore legato alla tradizione teatrale napoletana e una certa capacità nel creare scene e personaggi, non del tutto confermate in Scusate il ritardo (1983), anche se costante sarebbe rimasta la riuscita di una maschera malinconica e un po' stralunata, fino all'ultimo esito di Il postino (1994), ispirato al romanzo di A. Skarmeta, diretto da Michael Radford, ma con il notevole contributo dello stesso Troisi.
A ben guardare questi comici si apprezzano più per le virtù attoriali che per quelle registiche, perché scarsa è in loro la presenza di una vera e propria concezione del cinema. Si ha così una galleria di ritratti e di scene, talvolta assai efficaci, che rivelano ampie capacità trasformistiche in Carlo Verdone, in particolare con i vari tipi di Bianco, rosso e Verdone (1981), poi via via sostituiti da personaggi più delineati in commedie acute e di buona tenuta come Compagni di scuola (1988) e Maledetto il giorno che t'ho incontrato (1992); una maschera comica assai singolare fin dalle caratteristiche facciali è quella di Roberto Benigni, erede un po' surreale dei giullari di corte, scatenato nella mobilità corporale in Tu mi turbi (1983) e in Il piccolo diavolo (1988), da lui stesso diretti, come l'assai divertente Johnny Stecchino (1991), fino all'ispirato e commovente La vita è bella (1997). Francesco Nuti, a sua volta, inizialmente diretto da Maurizio Ponzi (Madonna che silenzio c'è stasera, 1982) è stato regista e interprete di Casablanca Casablanca (1985) e di Caruso Pascoski (di padre polacco) (1988). Un po' diverso è il caso di Maurizio Nichetti, uno dei pochi che riveli un'idea più definita di cinema (nel suo caso inteso come spettacolo onirico e surreale, come viaggio nella fantasia) e un'attenzione costante alla tecnica e alla sperimentazione, con esiti di particolare rilievo in Ladri di saponette (1989), Volere volare (1991) e in Luna e l'altra (1996), opere mature di un autore esordiente nel 1979 con un fortunato e assai divertente omaggio al muto e al burlesque, Ratataplan. Così come più consapevole degli strumenti cinematografici appare anche una figura come quella di Alessandro Benvenuti, che nel tempo ha delineato un cinema stralunato e bizzarro, talora con un eccellente controllo della storia e dei personaggi (Benvenuti in casa Gori, 1990; Belle al bar, 1994; Ivo il tardivo, 1995; Ritorno a casa Gori, 1996). Attraverso l'attività di produttore di Nanni Moretti è avvenuto anche l'esordio di Daniele Luchetti, che con Domani accadrà (1988) ha offerto la sua prova più riuscita, in parte confermata con Il portaborse (1991), efficace ma troppo mimetico spaccato di vita politica. Nel panorama della commedia degli anni Ottanta si collocano anche i grandi successi commerciali caratterizzati dall'accoppiata Adriano Celentano-Ornella Muti (Il bisbetico domato, 1980, e Innamorato pazzo, 1981, entrambi di Castellano e Pipolo), le commedie di Carlo Vanzina (Sapore di mare, 1983; Vacanze di Natale, 1983; Yuppies, i giovani di successo, 1986) e di Neri Parenti, che ha diretto Paolo Villaggio in altri episodi della saga Fantozzi (tra cui Fantozzi contro tutti, 1980; Fantozzi va in pensione, 1988) e, a seguire, il film a episodi Fratelli d'Italia (1989). All'interno di una crisi diffusa, che si è espressa nel calo dei film prodotti, degli spettatori, delle sale, e che è stata almeno in parte alimentata dalla crescita del numero delle reti televisive e dall'influenza che la televisione ha esercitato sulle nuove generazioni, il cinema italiano ha provato negli anni Ottanta a seguire altre forme di produzione e di organizzazione del film. Sono nati così gruppi quali Indigena, che tra Milano e Torino (e in particolare con una rassegna quale la milanese Filmaker) hanno consentito l'esordio di registi che in seguito si sono variamente affermati o comunque fatti conoscere da un pubblico non solo 'da festival' (per es. Silvio Soldini e Gianluca Maria Tavarelli). Esordi di un certo rilievo negli anni Ottanta sono stati quelli di Gabriele Salvatores, formatosi nel teatro con un proprio gruppo (Sogno di una notte d'estate, 1983, equivalente cinematografico di una sua messinscena shakespeariana; Marrakesh Express, 1989; Turné, 1990, film di ambiente teatrale; il premio Oscar Mediterraneo, 1991); di Giuseppe Tornatore, già fotografo, anch'egli premiato con l'Oscar per Nuovo cinema Paradiso (1988), preceduto da Il camorrista (1986) e seguito, tra gli altri, da Stanno tutti bene (1990) e Una pura formalità (1994), sapiente esercizio di stile, d'atmosfera Kammerspiel. Ma l'autore di maggiore rilevanza emerso nella fase contemporanea è Gianni Amelio, la cui esperienza è maturata prima con la collaborazione a western all'italiana degli anni Sessanta, quindi mediante la pratica televisiva. Passato alla regia cinematografica con un esordio già ragguardevole quale Colpire al cuore (1982), ha poi realizzato opere sempre rilevanti, e in particolare Il ladro di bambini (1992), un film che sa tenere insieme il senso dello spettacolo di ascendenza hollywoodiana (con qualche eco viscontiana nella sapienza della messa in scena) con la migliore lezione del Neorealismo, soprattutto l'istanza rosselliniana. Esordio significativo è stato anche quello di Carlo Mazzacurati, più legato a un'idea, espressa con molta sensibilità, di realismo del quotidiano (Notte italiana, 1987; Un'altra vita, 1992; Vesna va veloce, 1996). Scomparsi tra il 1975 e il 1994 quasi tutti gli autori maggiori (Pasolini, Visconti, Rossellini, Fellini), il solo Antonioni è rimasto, tra i 'vecchi', a provare a fare cinema, anche se la generazione più o meno mediana ha saputo offrire ancora opere di ottimo livello (Tre fratelli, 1981, di Rosi; La tragedia di un uomo ridicolo, 1981, e L'assedio, 1999, di B. Bertolucci; L'ultima donna, 1976, Diario di un vizio, 1993, e Nitrato d'argento, 1996, di Ferreri; La notte di San Lorenzo, 1982, dei fratelli Taviani; Voltati Eugenio, 1980, di Comencini; Speriamo che sia femmina, 1986, di Monicelli; Once upon a time in America, 1984, C'era una volta in America, di Leone; La nuit de Varennes, noto anche come Il mondo nuovo, 1982, La famiglia, 1987, Concorrenza sleale, 2001, di Scola; L'albero degli zoccoli, 1978, Camminacammina, 1983, Il mestiere delle armi, 2001, di Olmi; Salto nel vuoto, 1980, Il principe di Homburg , 1997, La balia, 1999 e l'importante e rigoroso L'ora di religione ‒ Il sorriso di mia madre, 2002, di Bellocchio).
A parte è poi da ricordare (anche a dispetto della discontinuità dei risultati) la produzione di alcuni tra i più singolari e appartati autori degli ultimi vent'anni: una vena olmiana si può riconoscere nell'opera di Mario Brenta, che dopo Vermisàt (1974), raccontato con oc-chio da entomologo, ha confermato le sue doti con lo squallore metropolitano di Maicol, 1989, per approdare, in Barnabo delle montagne (1994), dal racconto di D. Buzzati, a una robusta rappresentazione di un paesaggio insieme affascinante e inquietante, in cui i silenzi e i rumori contano quanto e più delle parole e dei suoni; Franco Piavoli, documentarista di lunga esperienza che in realtà ha esordito nel lungometraggio agli inizi degli anni Ottanta con un film-evento quale Il pianeta azzurro (1982), sinfonia paesaggistica di grande respiro panico, legata a suggestioni classiche ‒ da Omero a Lucrezio ‒ come anche i successivi Nostos ‒ Il ritorno (1990) e Voci nel tempo (1996). Peter Del Monte, che con Irene, Irene (1975) aveva realizzato un racconto intimista cercando di recuperare una rosselliniana innocenza dello sguardo, si è confermato incline anch'egli alla sottolineatura di quel gioco di sguardi e di silenzi che si ritrova in Compagna di viaggio (1996). Più rapsodica è risultata l'opera di Giuseppe Bertolucci, che nei suoi film ha saputo tuttavia far emergere con notevole intensità caratteri e sentimenti (Amori in corso, 1989), talvolta affidandosi ad arditi ed emozionanti incastri narrativi (come nel precedente Segreti segreti, 1985), quindi realizzando una complessa commistione di cinema e teatro (Il dolce rumore della vita, 1999; L'amore probabilmente, 2001). Infine Sergio Citti si è ritagliato uno spazio insieme naturalistico e immaginario di ascendenza pasoliniana, ove il comico e il tragico si combinano con uno humour 'nero', mentre l'iperreale e il surreale delineano un'idea di racconto libero da costrizioni e bizzarro (Casotto, 1977; Il minestrone, 1981; I magi randagi, 1996).
Assai ampia, ricca e variegata è ormai la bibliografia sul cinema italiano, anche limitandola alle opere di carattere più generale. In sintesi si indicano alcuni testi di riferimento per l'insieme della storia del cinema italiano per i vari periodi. Sulla storia del cinema italiano nel suo complesso:
G.P. Brunetta, Storia del cinema italiano, 1° vol. Roma 1979, 1993², 2° vol. Roma 1979, 1993², 3° vol. Roma 1982, 2000³, 4° vol. Roma 1982, 1998³.
P. Bondanella, Italian Cinema. From neorealismo to the present, New York 1983.
Sul cinema muto:
E. F. Palmieri, Vecchio cinema italiano, Venezia 1940.
M.A. Prolo, Storia del cinema muto italiano, Milano 1951.
A. Bernardini, Cinema muto italiano, 3 voll., Roma-Bari 1980-1982.
R. Redi, Cinema muto italiano (1896-1930), Milano 1999.
A nuova luce. Cinema muto italiano 1: Atti del convegno internazionale, Bologna, 12-13 novembre 1999, a cura di M. Canosa, Bologna 2000.
A. Bernardini, Cinema italiano delle origini: gli ambulanti, Gemona 2001.
Sul periodo tra le due guerre:
G.P. Brunetta, Cinema italiano tra le due guerre: fascismo e politica cinematografica, Milano 1975.
F. Savio, Cinecittà anni Trenta: parlano 116 protagonisti del secondo cinema italiano, 1930-1943, a cura di T. Kezich, 3 voll., Roma 1979.
M. Argentieri, L'occhio del regime: informazione e propaganda nel cinema del fascismo, Firenze 1979.
Il cinema dei dittatori: Mussolini, Stalin, Hitler, a cura di R. Renzi, Bologna 1992.
M. Argentieri, Il cinema in guerra: arte, comunicazione e propaganda in Italia, 1940-1944, Roma 1998.
Sugli anni del Neorealismo:
Il neorealismo cinematografico italiano, a cura di L. Miccichè, Venezia 1975.
M. Mida, L. Quaglietti, Dai telefoni bianchi al neorealismo, Roma-Bari 1980.
Neorealismo: cinema italiano 1945-1949, a cura di A. Farassino, Torino 1989.
Sugli anni Cinquanta:
Il cinema italiano degli anni Cinquanta, a cura di G. Tinazzi, Venezia 1979.
Sugli anni Sessanta:
Prima della rivoluzione: schermi italiani 1960-1969, a cura di C. Salizzato, Venezia 1989.
L. Miccichè, Cinema italiano: gli anni '60 e oltre, Venezia 1995.
Sugli anni Settanta e Ottanta:
F. Montini, I novissimi: gli esordienti nel cinema italiano degli anni '80, Torino 1988.
Il cinema del riflusso: film e cineasti italiani degli anni Settanta, a cura di L. Miccichè, Venezia 1997.
Schermi opachi: il cinema italiano degli anni '80, a cura di L. Miccichè, Venezia 1998.
Sugli anni Novanta:
La 'scuola' italiana. Storia, strutture e immaginario di un altro cinema (1988-1996), Venezia 1996.
V. Zagarrio, Cinema italiano anni Novanta, Venezia 1998, 2001².
Per la storia orale:
L'avventurosa storia del cinema italiano raccontata dai suoi protagonisti: 1935-1959, a cura di F. Faldini, G. Fofi, 2 voll., Milano 1979.
F. Faldini, G. Fofi, Il cinema italiano d'oggi raccontato dai suoi protagonisti: 1970-1984, Milano 1984.
A partire dagli anni Novanta alcuni cineasti italiani (Monicelli, Scola e Risi), che erano stati tra i principali artefici della commedia all'italiana, hanno proseguito la loro attività, pur se in maniera irregolare; mentre tra i comici che avevano esordito negli anni Ottanta, Roberto Benigni è risultato quello con i migliori riscontri al botteghino. I film di Carlo Verdone hanno continuato a caratterizzarsi per la deformazione grottesca dei personaggi, con uno sguardo sempre attento ai mutamenti di costume della società; così come Maurizio Nichetti ha continuato ad analizzare, con il consueto taglio sperimentale, i dispositivi visivi dei comici del muto (come le gag visive) e Alessandro Benvenuti ha caratterizzato sempre di più i suoi film con un tono surreale e amaro. Mentre Francesco Nuti, complice anche il flop commerciale di Occhio Pinocchio (1994), non è riuscito a confermare quella popolarità che aveva raggiunto nel decennio precedente, hanno invece continuato a riscuotere successo le opere di Carlo Vanzina e di Neri Parenti, spesso destinate a un pubblico giovanile e, nel caso di Vanzina, caratterizzate da un atteggiamento cinefilo che si esprime ora come parodia ora come rievocazione nostalgica (Sognando la California, 1992; A spasso nel tempo, 1996; Vacanze di Natale 2000, 1999; Febbre da cavallo ‒ La mandrakata, 2002). Il meccanismo del successo è invece giocato, nel caso di Parenti, sull'utilizzazione di gag e sulle performances degli attori protagonisti, come la coppia Massimo Boldi-Christian De Sica (Vacanze di Natale '95, 1995; Tifosi, 1999; Merry Christmas, 2001; Natale sul Nilo, 2002). Dal canto suo, il ciclo di Fantozzi, che aveva ottenuto un vasto seguito sin dalla metà degli anni Settanta, sembra essere giunto alla sua fase conclusiva con Fantozzi ‒ Il ritorno (1996) di Parenti e Fantozzi 2000 ‒ La clonazione (1999) di Domenico Saverni.
Un'ulteriore categoria è costituita da quegli attori che, dopo aver raggiunto il successo nel cabaret e nei varietà televisivi, hanno poi affrontato il cinema sia in veste di registi sia di interpreti: è il caso di Antonio Albanese che ha portato sullo schermo il proprio universo stralunato (Uomo d'acqua dolce, 1997; La fame e la sete, 1999; Il nostro matrimonio è in crisi, 2002), o del trio composto da Aldo, Giovanni e Giacomo (Tre uomini e una gamba, 1997; Così è la vita, 1998; Chiedimi se sono felice, 2000; La leggenda di Al, John e Jack, 2002) che nei loro film, sempre firmati assieme a Massimo Venier, hanno costruito la loro comicità prevalentemente sulla base di sketch isolati ma dai quali emerge il loro collaudato affiatamento. In Toscana invece Leonardo Pieraccioni, dopo aver esordito come regista con I laureati (1995), ha ottenuto uno dei maggiori incassi del cinema italiano con Il ciclone (1996), basato su una comicità garbata e gentile anche se inserita in una struttura narrativa spesso fragile. Utilizzando una formula analoga ha poi diretto Fuochi d'artificio (1997), Il pesce innamorato (1999) e Il principe e il pirata (2001), film scritti in collaborazione con Giovanni Veronesi (autore, a sua volta, di opere come Per amore, solo per amore, 1993; Il barbiere di Rio, 1996; Il mio West, 1998) e interpretati da lui stesso, l'ultimo in coppia con Massimo Ceccherini (anch'egli regista in proprio di due film, Lucignolo, 1999 e Faccia di Picasso, 2000). Un altro comico che, dopo aver raggiunto il successo in televisione, si è confrontato con il cinema come regista è stato Giorgio Panariello (Bagnomaria, 1999 e Al momento giusto, 2000, dei quali è stato anche protagonista). Questi comici sono stati inclusi dalla critica, assieme a Roberto Benigni e Alessandro Benvenuti, in una 'scuola comica toscana', con film prodotti quasi esclusivamente da Vittorio Cecchi Gori. Dell'area napoletana invece ha fatto parte Vincenzo Salemme che, dopo aver recitato nei film di Nanni Moretti, ha raggiunto il successo con la sua opera d'esordio, L'amico del cuore (1998), riproponendo poi lo stesso modello di commedia con A prima vista (1999), A ruota libera (2000), Volesse il cielo (2002).
La struttura della commedia all'italiana ha intanto continuato a costituire un preciso punto di riferimento per cineasti come Paolo Virzì e Gabriele Muccino. Virzì ha esordito con La bella vita (1994), seguito da Ferie d'agosto (1995) e Ovosodo (1997) in cui ha combinato l'osservazione degli ambienti (Ventotene nel primo caso, un quartiere di Livorno nel secondo) con un'analisi dei costumi dai riferimenti sociali e politici e con una propensione a deformare i personaggi in chiave grottesca. Questi elementi sono emersi, anche se in maniera meno evidente, anche in Baci e abbracci (1999) e My name is Tanino (2002). Muccino invece, dopo Ecco fatto (1998), ha raggiunto una notevole popolarità con Come te nessuno mai (1999) e L'ultimo bacio (2001) in cui ha ritratto inquietudini adolescenziali e nevrosi generazionali.Sul versante della commedia sentimentale, oltre a Francesca Archibugi che ha affrontato il genere con storie di famiglie e di adolescenti (da Mignon è partita, 1988, a Domani, 2001), negli anni Novanta si sono messi in luce Ferzan Ozpetek, Giuseppe Piccioni e, in parte, Carlo Mazzacurati e Silvio Soldini. Ozpetek (Il bagno turco ‒ Hamam, 1997; Harem suare, 1999; Le fate ignoranti, 2001) ha saputo rappresentare tensioni sentimentali e pulsioni emotive, alternando cadenze di commedia con momenti più tragici; mentre Piccioni ha messo a fuoco la dimensione privata dei suoi personaggi, disegnando ora ritratti generazionali (Il grande blek, 1987; Chiedi la luna, 1991), ora spaccati surreali (Condannato a nozze, 1993), ora vicende sentimentali tratteggiate con tono amaro (Cuori al verde, 1996) o doloroso (Fuori dal mondo, 1999; Luce dei miei occhi, 2001). Di Soldini va ricordata l'incursione nella commedia sentimentale con Pane e tulipani (2000), opera che privilegia gli ambienti esterni, così come il cinema di Mazzacurati che, dopo i primi film, ha successivamente realizzato anomali road movie con un'attenzione particolare ai dettagli ambientali e al confronto tra personaggi di culture diverse (La lingua del santo, 2000; A cavallo della tigre, 2002). Daniele Luchetti ha invece utilizzato la commedia per rileggere il cinema civile in chiave surreale (Arriva la bufera, 1993), le istituzioni (La scuola, 1995), la Storia (I piccoli maestri, 1998), tratto dal romanzo di L. Meneghello.
Tra gli attori che sono passati dietro la macchina da presa, una delle attività più continuative è stata quella di Sergio Rubini che, dopo aver sperimentato vari generi e forme narrative (La stazione, 1990; La bionda, 1993; Prestazione straordinaria, 1994; Il viaggio della sposa, 1997), ha realizzato Tutto l'amore che c'è (2000), rievocazione con toni nostalgici di un'estate degli anni Settanta, e ha proposto uno stile che privilegia elementi visivi visionari in L'anima gemella (2002). Anche nelle opere di Gianluca Maria Tavarelli (Portami via, 1994; Un amore, 1999; Qui non è il Paradiso, 2000) torna l'analisi delle inquietudini esistenziali di personaggi in fuga dal loro mondo; mentre Alessandro D'Alatri, già regista di spot pubblicitari, è passato dalla rievocazione d'epoca (il Veneto del 1934 di Americano rosso, 1991) a tematiche religiose (I giardini dell'Eden, 1998), privilegiando invece l'indagine della quotidianità nelle commedie sentimentali (Senza pelle, 1994; Casomai, 2002). Il tema della memoria (incentrata spesso sul racconto delle esperienze di un gruppo di amici) ha caratterizzato la prima parte dell'opera di Gabriele Salvatores che, successivamente ha accentuato il proprio stile visionario con il fantascientifico Nirvana (1997) e poi con Denti (2000). In Giuseppe Tornatore, invece, già nei primi film e poi in Malèna (2000), i toni della commedia sentimentale sono apparsi molto più sfumati; il passato infatti viene letto dal regista in chiave enfaticamente malinconica e tende a sottolineare più i rimpianti che i ricordi dei personaggi.
Negli anni Novanta si è intensificato nel cinema italiano il fenomeno degli esordi, apprezzabili sia sul piano quantitativo sia su quello qualitativo, tanto da caratterizzare il periodo alla svolta del nuovo millennio come uno dei più fertili e stimolanti, ma anche dei più contraddittori per questo cinema. Se infatti da un lato si è potuto parlare, come la critica più attenta ha fatto, di ricambio generazionale, di 'rinascita', di 'nuovo cinema', di tendenze riconoscibili, addirittura di 'scuole' e di aree di fervida operatività (soprattutto nel Sud, configurando così uno spostamento creativo-produttivo lontano da Roma e dalle convenzioni dell'ambiente cinematografico), dall'altro, sul piano della circolazione dei più recenti film italiani e della individuazione di un pubblico per i nuovi autori, insomma sul piano della visibilità del rinnovamento, notevoli sono risultate le aporie. Se infatti i film dei giovani autori sono stati apprezzati anche all'estero, e non solo nei festival internazionali ma anche sui mercati del cinema di qualità, debole è risultata invece la loro tenuta economica nelle sale. Ciò è avvenuto, comunque, in un quadro italiano in cui si è stentato a varare un adeguato sistema di norme e leggi per il cinema e in cui il mercato si è dimostrato asfitticamente appiattito su gusti e abitudini di tipo televisivo, nonché stretto nella morsa di un duopolio come quello RAI/Mediaset, che ha condizionato, con le sue appendici produttive-distributive in campo cinematografico, procedimenti e modelli. In questo contesto è stato significativo il progressivo recedere degli incassi del cinema italiano rispetto a quelli del cinema statunitense: in termini percentuali negli anni Ottanta si è effettuato un ribaltamento rispetto alla proporzione di vent'anni prima, valutabile attorno al 70% per il prodotto statunitense e di altre cinematografie e al 30% per quello italiano, mentre negli anni Novanta gli incassi sono andati oscillando nella percentuale del 20-25% per quanto riguarda il cinema nazionale e 55-60% per il cinema statunitense.Il meccanismo dei finanziamenti statali per i film cosiddetti di interesse culturale nazionale e quello degli aiuti alle nuove produzioni di opere prime hanno prodotto il paradosso di una proliferazione di nuove opere e nuovi registi, che se da un lato ha propiziato l'emergere di personalità d'autore, di tendenze, di stili e tematiche, dall'altro si è arenata di fronte all'indisponibilità dell'esercizio e del mercato ad assorbirla e quindi valorizzarla, rimanendo così per larga parte invisibile. Ciononostante, sullo sfondo di uno scenario di transi-zione e di notevole cambiamento anche del paesaggio socioantropologico italiano, si è fatta strada una nuova tensione creativa, si sono delineati mondi autoriali capaci di innovazione sul piano del linguaggio, si è imposto un rinnovamento sia di nomi sia di stili recitativi, si sono sperimentati formati inediti e modalità produttive all'insegna della ricerca e dell'indipendenza. Si è inoltre allargato a dismisura lo spazio per mettere alla prova le capacità di giovani autori, per es. nel cortometraggio e nel video (anche digitale). Quest'ultimo ha conosciuto, insieme al documentario, stagioni di intensa operatività e ha modificato e facilitato i modelli di accesso alla 'macchina cinema' per nuovi autori, ma anche per gruppi e movimenti organizzativi, con moduli alternativi di produzione, promozione, diffusione.
Una tendenza che si è venuta configurando fin dagli inizi degli anni Novanta potrebbe essere ricondotta alla categoria di 'rilettura' del paesaggio italiano, proprio recuperando quel significato che il Neorealismo, sul piano teorico oltre che nelle opere, attribuiva nel secondo dopoguerra all'emergere di segni concreti e drammatici dagli strati profondi dell'identità italiana sotto l'impeto della trasformazione storica e nell'epifania di ambienti, spazi, volti, comportamenti. Anche se la nuova attenzione al realismo si è in parte differenziata, accentuando crudezza e disincanto, dai toni fenomenologici o epici o sentimental-melodrammatici della prima stagione neorealista, la lucidità e la tensione poetica di alcuni autori hanno scavato a fondo, con notevoli configurazioni di stile, nelle ragioni profonde, spesso nei risvolti oscuri dell'identità italiana. Con pochi film, un cineasta come Mario Martone ha tratteggiato una poetica incentrata su una lettura tragica del confronto tra individuo e comunità (quest'ultima individuata sempre nel coacervo complesso del paesaggio antropologico napoletano, tra passato e presente) in film come Morte di un matematico napoletano (1992), L'amore molesto (1995), Teatro di guerra (1998). In analogo ambito creativo, legato a un'immagine alterata, icastica, a volte crudele e allucinata dell'universo napoletano, si è mosso Antonio Capuano nello spaccato, oscillante tra documentarismo e teatralità brechtiana, di Vito e gli altri (1991) e nella rilettura barocca della tragedia greca, ambientata in uno stilizzato hinterland degradato e divorato dalla violenza camorristica, di Luna rossa (2001). Alla cosiddetta scuola napoletana appartengono anche registi come Pappi Corsicato con i suoi stravaganti ed eclettici attraversamenti di generi e stili, dal pop al musical al film mitologico al fotoromanzo (Libera, 1993; I buchi neri, 1995; Chimera, 2001); Stefano Incerti, che con Il verificatore (1995) ha tracciato un dolente ritratto umano in un contesto urbano notturno e lacerato; Nina Di Majo, rivelatasi con Autunno (1999) e che con L'inverno (2002) ha proseguito con coerenza su una sua cifra intimista articolata con eleganza e asprezza; e infine Antonietta De Lillo, che in Non è giusto (2001) ha saputo restituire, con tenerezza e disinvoltura e con un uso anticonformista della tecnica digitale, la spontaneità e i piccoli segreti di due undicenni, figli di genitori separati, in una confusa estate napoletana.Tra coloro che sono riusciti a inventare un'immagine pregna di forza allucinatoria e di una violenza figurativa al limite dell'incubo metafisico, va ricordato il duo di registi palermitani Daniele Ciprì-Franco Maresco, i quali (dopo una lunga, parallela produzione di video trasmessi anche in Rai sotto la sigla Cinico TV) con soli due film, Lo zio di Brooklyn (1995) e Totò che visse due volte (1998), hanno destrutturato le convenzioni visive configurando un universo autosufficiente tra visione apocalittica, resti antropologici dell'atavico paesaggio siciliano e pittoricità allucinatoria con rimandi al cinema di Pier Paolo Pasolini, Luis Buñuel e Samuel Fuller. Alla realtà creativa molto fertile del cinema 'fatto in Sicilia' (terra di cinema per eccellenza, tanto quanto Napoli, per la storia del cinema italiano) appartengono pure la produzione malinconicamente ironica di Francesco Calogero (Nessuno, 1992; Cinque giorni di tempesta, 1997), quella dai colti riferimenti letterari di Roberto Andò (Il manoscritto del principe, 2000) e quella dai toni insieme sociologici ed estetizzanti di Aurelio Grimaldi (Le buttane, 1994). Alla storia siciliana raccontata con toni di epicità e distacco alla Brecht si rifanno i primi due film della milanese Roberta Torre (Tano da morire, 1997; Sud side stori, 2000), che ha reinventato una Sicilia tutta risolta in un immaginario trasgressivo, esotico e insieme ironico, acceso di funamboliche sperimentazioni visive e calato nella memoria del musical, mentre Angela (2002), asciutto e palpitante ritratto di una donna fieramente in lotta contro convenzioni e ricatti mafiosi, in nome unicamente di una passione amorosa, ha spostato il cinema della Torre su un piano più cupo e interiore. Geometrie dell'anima e risvolti drammatici di solitudini e disagi psicologici e sociali si ritrovano nei film di Wilma Labate, un'altra regista che ha gettato uno sguardo nuovo sulle contraddizioni italiane e su realtà relative ad ambienti visivi e psicologici inusuali: dalle strade percorse da Sud a Nord da un carabiniere e da un ex terrorista in La mia generazione (1996), ai vicoli napoletani instancabilmente calpestati da un sofferto ispettore di polizia accompagnato da una ragazzina orfana tanto desiderosa di affetto e affamata di vita, quanto dolorosamente sola, in Domenica (2001). Un'immagine altrettanto dolente della condizione contemporanea e del rapporto tra le generazioni emerge dai film di Pasquale Pozzessere (da Verso Sud, 1992, a Padre e figlio, 1994), sorta di ricognizione delle trasformazioni civili ed esistenziali del paesaggio italiano. Torna ancora il contesto antropologico del Sud (in questo caso l'assolato Salento, pregno di ancestrali ricorrenze magico-religiose) nei film di Edoardo Winspeare (Pizzicata, 1996; Sangue vivo, 2000) che racchiudono un nucleo denso e arcano di risonanze tragiche, capaci di risuonare anche nel racconto della quotidianità.Un'altra visione del paesaggio meridionale, scissa tra documento, dato socioantropologico e iperrealismo, da una parte, e squarcio onirico, talvolta surreale, dall'altra, è emersa nel lavoro personalissimo di Giuseppe M. Gaudino (Giro di lune tra terra e mare, 1997); altrettanto interessante è risultata la visione stravagante e ipnotica di un gruppo di giovani nella Bari 'postmoderna' di Lacapagira (1999) di Alessandro Piva, come pure l'intensità materica del ritratto di donna avvolto dalla natura inquietante e magnifica dell'isola di Lampedusa in Respiro (2002) di Emanuele Crialese. Vincenzo Marra (Tornando a casa, 2001) ha scelto invece il versante del documento secco e della plasticità realistica (richiamandosi esplicitamente al modello viscontiano di La terra trema, 1948) nel racconto amaro dei destini di un gruppo di pescatori del litorale campano.
Una tensione realistica, che si richiama ai modelli del film-inchiesta e del cinema di denuncia, è riaffiorata, con esiti diversi ma spesso interessanti, nei film di Paolo Grassini e Italo Spinelli (Roma Paris Barcelona, 1990), Davide Ferrario (La fine della notte, 1990), Marco Risi (Ragazzi fuori, 1990), Ricky Tognazzi (Ultrà, 1991), Guido Chiesa (Il caso Martello, 1992), Michele Placido (Le amiche del cuore, 1992), Daniele Segre (Manila Paloma Blanca, 1992), Egidio Eronico (Annata di pregio, 1995), Sandro Cecca (Complicazioni nella notte, 1992), Bruno Bigoni (Veleno, 1993), Giacomo Battiato (Cronaca di un amore violato, 1995), Claudio Caligari (L'odore della notte, 1998). Una declinazione del reale più problematica, meno mimetica e soprattutto sorretta da una personale ricerca di stile (spesso capace di adottare un intenso sguardo sui sentimenti e di scavare nelle psicologie e nelle motivazioni etiche dei personaggi) si è configurata nelle convincenti prove di Mimmo Calopresti (in una sorta di trilogia sul disagio contemporaneo: La parola amore esiste, 1998; Preferisco il rumore del mare, 1999; La felicità non costa niente, 2002), ma anche nella forza visiva e nel racconto accorato e asciutto di tragedie collettive del cinema di Marco Bechis (da Alambrado, 1991 fino a Figli/Hijos, 2001), così come nell'introspezione dolorosa e nella capacità di ascolto delle irragionevoli logiche del cuore nei film di Francesca Comencini (Le parole di mio padre, 2001) e della sorella Cristina Comencini, più sfumati su un versante di commedia sentimentale (Il più bel giorno della mia vita, 2002). Un'ironia svagata, unita a un'acuta osservazione delle bizzarrie della vita e degli incroci del caso, ha caratterizzato i film di Piero Natoli (Gli assassini vanno in coppia, 1990); altrettanta ironia, tenera e feroce, ha segnato la descrizione del mondo lunatico, sospeso tra ossessioni, notazioni amare e grottesche, disadattamenti psicologici, acre disincanto, dei film di Matteo Garrone (da Terra di mezzo, 1997 a L'imbalsamatore, 2002). In conclusione, si è andato verificando, alla svolta del nuovo millennio, un ricambio generazionale che ha contribuito a una rinnovata vitalità espressiva del cinema italiano, confermata anche dall'affermazione di nuove figure di attori (da Fabrizio Bentivoglio a Claudio Amendola, da Stefano Accorsi a Luigi Lo Cascio, da Silvio Orlando a Toni Servillo e a Fabrizio Gifuni) e di attrici ( da Valeria Golino a Iaia Forte e a Licia Maglietta, da Margherita Buy a Giovanna Mezzogiorno, da Asia Argento a Chiara Caselli e a Sonia Bergamasco), nonché dalla nuova giovinezza artistica di attori di vaglia (basti pensare a Carlo Delle Piane), appiattiti nei decenni precedenti in ruoli comici oppure di caratterista.