Figlio (Gand 1500 - San Jerónimo de Yuste 1558) dell'arciduca d'Austria Filippo il Bello (perciò nipote dell'imperatore Massimiliano d'Asburgo) e di Giovanna la Pazza (figlia di Ferdinando d'Aragona e di Isabella di Castiglia), divenne a soli sei anni, per la morte del fratello e della sorella maggiore della madre, come pure di quella del padre, erede non solo dei Paesi Bassi ma dell'Aragona e della Castiglia. Passò i primi anni della sua infanzia a Malines e a Bruxelles, dove la zia Margherita d'Austria, reggente dei Paesi Bassi, gli fece impartire un'accurata educazione dagli umanisti spagnoli Juan de Vera e Luis Vaca e da Adriano, decano di Utrecht (futuro papa Adriano VI). Crebbe in mezzo alla nobiltà fiamminga, verso la quale dimostrò particolare attaccamento anche dopo la sua ascesa al trono di Spagna. Diventato infatti nel 1516, alla morte di Ferdinando il Cattolico, re di Aragona e di Castiglia, si recò in Spagna per prendere possesso dei suoi reami, ma la rapacità del suo seguito formato quasi esclusivamente di Fiamminghi e la sua incomprensione per quel conglomerato d'istituzioni e di elementi contrastanti ch'era la Spagna, lo rese tutt'altro che gradito ai nuovi sudditi. Questo malcontento verso l'atteggiamento del nuovo sovrano si manifestò nelle adunanze delle Cortes, che opposero ostacoli di ogni genere al governo di C. nel timore che egli volesse esautorarle e conferire le più alte cariche dello stato a uomini della sua terra natale. Quando poi nel 1519, in seguito alla morte del nonno Massimiliano, C. lasciò temporaneamente la Spagna, affidando la reggenza in Castiglia ad Adriano di Utrecht, per porre la propria candidatura alla corona imperiale, scoppiò la cosiddetta rivolta dei comuneros, che tuttavia ben presto fallì a causa della defezione della nobiltà e del clero dal movimento insurrezionale allorché questo minacciò di assumere un carattere sociale. L'incoronazione di C. ad Aquisgrana, che ebbe luogo il 23 ott. 1520 e alla quale C. giunse dopo lunghe trattative con i principi elettori dai quali ottenne, con molto oro, il conferimento della dignità imperiale, mise tutt'a un tratto il nuovo Cesare di fronte a gravi e ardue responsabilità politiche: egli era ormai impegnato a fondare un'egemonia europea. Contro questo sovrano non più fiammingo o spagnolo, ma europeo, la Francia si difese: Francesco I, che invano aveva tentato di contrastare a C. l'ambita corona, si trovava circondato da ogni parte dai possedimenti del rivale, che liberamente poteva, a suo beneplacito, attaccare nello stesso tempo la Francia dalle Fiandre, dai Pirenei, dalle Alpi e lungo il Reno. Per liberarsi da questa morsa Francesco, allegando a pretesto i suoi diritti sul ducato di Milano, iniziò nel 1521 quella serie di guerre contro C. che si trascinarono quasi senza soluzione di continuità, fino al 1544 e continuarono anche sotto il regno di suo figlio Enrico II. La prima guerra (1521-25), terminata a favore dell'imperatore con la vittoria di Pavia (24 febbr. 1525), dove lo stesso re Francesco I fu fatto prigioniero, fu ben presto seguita da un'altra campagna, che vide alleati contro C. il re di Francia, papa Clemente VII e la maggior parte degli stati italiani. Ancora una volta l'imperatore riuscì vittorioso. Lo stesso pontefice, rinchiuso in Castel Sant'Angelo dalle orde dei lanzichenecchi del Frundsberg, dovette venire a patti e i trattati di Barcellona (1529) e di Bologna (1530) assicurarono finalmente a C. un periodo di pace. C. stesso venne in Italia per compiere l'antico rito medievale: a Bologna il 22 ed il 24 febbr. 1530 Clemente VII gli pose sul capo rispettivamente la corona ferrea e quella imperiale. Nel frattempo in Germania era dilagato il movimento luterano. Ma C., tutto preso dalla lotta contro Francesco I, non poteva assumere contro i protestanti un atteggiamento troppo energico che avrebbe potuto facilmente suscitare un nuovo focolaio di guerra rovinosa. Anche per consiglio del suo cancelliere Mercurino da Gattinara, l'imperatore si mostrò propenso alla riunione di un concilio generale, dove tutte le divergenze di carattere teologico ed ecclesiastico potessero essere esaurientemente dibattute, contrario invece a qualsiasi misura che significasse condanna preventiva del luteranesimo. Cercò egli insomma di mantenersi in una posizione d'equilibrio che non urtasse eccessivamente i principi protestanti. D'altra parte l'atteggiamento di Clemente VII, che si era alleato contro di lui con il re di Francia, costituiva una giustificazione più che plausibile alla sua condotta blanda verso coloro che erano considerati eretici dalla S. Sede. Pertanto C., pur rimandando al futuro concilio generale qualsiasi definitiva determinazione sulla controversia religiosa, permise nel 1526 (dieta di Spira) ai luterani il libero esercizio della loro confessione. Solo dopo la riconciliazione col pontefice C. tentò di ritogliere quanto aveva elargito, ma di fronte alle proteste dei luterani, unitisi nella lega di Smalcalda, e al pericolo di una guerra in Germania, non insistette nella sua pretesa. Dal 1530 al 1535 C. poté infine, dopo dieci anni di guerra, dedicarsi al riordinamento dei suoi stati, la cui decadenza economica, unita a un'inefficiente organizzazione fiscale, aveva sempre condizionato la sua dispendiosa politica europea. Nominò reggente dei Paesi Bassi la sorella Maria; fece proclamare re dei Romani il fratello Ferdinando, al quale fin dal 1522 aveva ceduto i possedimenti asburgici tedeschi; promosse in Italia la costituzione di una lega tra gli stati della penisola, lega alla quale aderirono anche il pontefice e Venezia e che gli era garanzia di pace, poiché altri due importanti stati della penisola gli erano assai obbligati, Genova con Andrea Doria, e Firenze, ove C. aveva ricondotto i Medici con la forza delle armi. In questo stesso periodo egli decise, sensibile alle sollecitazioni soprattutto spagnole, di affrontare la questione dei Turchi, che si facevano sentire non solo in Ungheria, lungo il Danubio, ma proprio nel Mediterraneo, divenuto a causa delle scorrerie dei Barbareschi una strada marittima spesso infida. Dopo l'occupazione di Tunisi da parte del temuto pirata Barbarossa, C. nel 1535 organizzò una spedizione, alla quale parteciparono, salvo Venezia, quasi tutti gli stati italiani: Tunisi fu presa d'assalto e il Tirreno e il Mediterraneo occidentale per un certo tempo furono liberati dai pirati. Ma il ducato di Milano continuava a costituire il pretesto giuridico delle lotte tra C. e Francesco. Due nuove guerre ne furono causate: l'una nel 1535, alla morte dell'ultimo duca sforzesco, Francesco II; l'altra nel 1542, sorta in seguito all'investitura del figlio di C., Filippo. Ambedue queste campagne furono favorevoli all'imperatore (anche se con la pace di Crépy del 1544 la Francia ottenne condizioni relativamente favorevoli) e Francesco I, con le sue abituali riserve mentali, dichiarò ancora una volta di rinunciare a qualsiasi diritto sul ducato. Nel 1546, quando ormai a Trento era stato aperto il concilio, C. stimò giunto il momento di risolvere con la forza la questione protestante. Radunato un esercito, la guerra procedette in maniera assai propizia fino alla vittoria di Mühlberg (1547), ma, di fronte alla successiva ostilità papale, che per quella vittoria che colpiva gli autonomisti germanici sentiva farsi più pesante il giogo cesareo sull'Italia, l'imperatore preferì ancora una volta ripiegare sulla politica del compromesso, concedendo forti garanzie ai protestanti. Onde lo sdegno e le proteste di Paolo III, colpito anche personalmente dall'uccisione del figlio Pier Luigi Farnese, fatto duca di Parma e Piacenza nel 1545, e soppresso, per il suo atteggiamento antispagnolo, col tacito consenso di C. La politica imperiale europea era comunque fallita: contro la Francia, che si era valsa all'ultimo del valido appoggio di Maurizio di Sassonia; contro la Germania che rifiutava l'imposizione d'un accentramento monarchico; contro la ripresa turca e contro gli altri infiniti particolari problemi europei e coloniali, che avevano reso la sua politica così complessa, a volte perfino contraddittoria, egli mostrò ormai una sua tetra stanchezza. Aveva tentato d'imporsi, animato da volontà tenace e da un profondo senso del dovere, quasi di una missione, all'Europa, le cui sorti il destino gli aveva affidato: ma i particolarismi e la varietà delle condizioni religiose, nazionali, economiche gli avevano opposto difficoltà insormontabili; né sempre, del resto, egli si era reso conto della complessità dei varî problemi. Ritiratosi a Bruxelles, lasciò al fratello Ferdinando la cura di comporre le cose di Germania; poi nel 1555 abdicò al governo dei Paesi Bassi e l'anno dopo a quello delle terre spagnole, a favore del figlio Filippo II (per la discendenza di C. cfr. tavola).
Portatosi quindi in Spagna, abitò una villa presso il monastero di S. Jerónimo de Yuste, intervenendo qualche volta ancora, però, negli affari politici di Spagna. ▭ Dettò in francese al suo segretario G. van Male alcuni Commentarî al suo regno, probabilmente col proposito che fossero volti in latino. L'originale è andato perduto e se ne conserva solo una trad. portoghese, di scarso interesse, compiuta verso il 1620.