stil novo Tendenza poetica (anche dolce stil novo) diffusa in Toscana tra la seconda metà del 13° e l’inizio del 14° sec., così chiamata dalla critica moderna sulla base di versi di Dante (Purg. XXIV, 49-62). Sua materia poetica è l’amore, sia in quanto confessione sentimentale, sia e soprattutto in quanto meditazione sulla sua essenza filosofica e sui suoi effetti psicofisiologici e soprattutto morali.
Lo s. rappresenta un momento storicamente essenziale di quel processo della poesia lirica italiana che, muovendo dai siciliani e perciò dai provenzali, giungerà poi alla poesia petrarchesca, e attraverso questa dominerà tutta la tradizione lirica posteriore.
Iniziatore dello s. e maestro degli stilnovisti, come dice Dante in un altro passo del Purgatorio (XXVI, 97-99), fu G. Guinizzelli; il breve canone dei componenti del gruppo, oltre lo stesso Dante e il suo «primo amico» G. Cavalcanti, comprende i loro giovani coetanei e amici Lapo Gianni, D. Frescobaldi, G. Alfani, fiorentini, ai quali si aggiunse più tardi Cino da Pistoia. Pallidi epigoni dello s., a metà del Trecento, furono i toscani M. Frescobaldi e S. Del Bene, e i veneti G. Quirini e N. dei Rossi.
Nel canto XXIV del Purgatorio, Dante immagina d’incontrare tra i golosi un poeta, Bonagiunta Orbicciani, esponente del vecchio gusto poetico, e di chiarirgli in che cosa consista la novità del nuovo ‘stile’, cioè del nuovo ‘modo’ di poesia, inaugurato da lui e dai suoi amici: «I’ mi son un, che quando Amor mi spira, noto, e a quel modo Ch’e’ ditta dentro vo significando». Bonagiunta replica dicendo di aver ora perfettamente compreso che cosa distingua i poeti giovani dai più vecchi, cioè dai poeti della Scuola siciliana (ricordati con uno dei più importanti tra essi, il notaio Iacopo da Lentini), da Guittone d’Arezzo e da lui stesso: «Issa vegg’io – diss’elli – il nodo Che ’l Notaro e Guittone e me ritenne Di qua dal dolce stil novo ch’i’ odo». Il significato della definizione dantesca, apparentemente così chiara, è tuttora assai controverso; quel che è certo è che Dante non voleva contrapporre polemicamente una presunta sincerità di sentimento degli stilnovisti a una ipotetica artificiosità dei loro predecessori, siciliani e guittoniani.
Di fatto, la novità stilnovistica della nuova poesia non fu sentimentale ma dottrinale e stilistica. Quest’ultima consiste nella dolcezza, che nel pensiero di Dante era dolcezza di suono, da ottenere mediante la scelta accurata di vocaboli, la loro semplice collocazione, il ripudio di suoni duri, di forme artificiose e aggrovigliate, cioè il ripudio dello stile di Guittone, che, maestro ammirato della precedente generazione, è il bersaglio degli stilnovisti. Meno chiaro in che cosa consista propriamente la novità contenutistica. Che la loro poesia tratti un amore diverso dal piacere sensuale, che, in genere, rifugga da ogni rappresentazione realistica, è certo (la poesia sensuale e realistica è cantata anche dagli stilnovisti, ma in zone a parte dei loro canzonieri, aventi modelli e strutture stilistiche loro proprie); ma ciò non basta a distinguerli dai predecessori, i quali avevano cantato amori ugualmente casti, e, ciò che è più importante, avevano anch’essi considerato l’amore come segno di elevatezza spirituale e mezzo di ulteriore elevazione.
Una grande questione era in primo piano nel secondo Duecento e nel primo Trecento, quella circa la natura della nobiltà. All’opinione tradizionale, che faceva consistere questa nell’antichità della famiglia e nelle ricchezze, si era andata via via sempre più nettamente sostituendo l’opinione che vera nobiltà fosse solo quella delle opere individuali, il che significa che su una civiltà e una società feudali andavano prevalendo una civiltà e una società borghesi. In questo senso, la canzone di Guinizzelli considerata il manifesto della nuova scuola poetica mostra già nel suo primo verso, Al cor gentil rempaira sempre Amore, come lo s. rappresenti essenzialmente il riflesso letterario di quella grande questione. All’equazione nobiltà = virtù personale, lo s. aggiunge l’altra equazione, amore = virtù, da cui consegue che amore è segno di nobiltà, della vera nobiltà: «Amore e ’l cor gentil sono una cosa Sì come il saggio in suo dittare pone», ripete Dante in un suo sonetto. All’amore come sudditanza del poeta alla donna-signora feudale, così come era concepito generalmente dai provenzali e dai siciliani e, in parte, dai guittoniani, lo s. contrappone la sua concezione dell’amore come qualcosa che mette in essere la virtù, che in un cuor gentile, cioè nobile, non manca mai, ma può restare solo potenziale; in altri termini, l’amore è identificato con l’ansia di migliorare. La donna pertanto, che tende a scomparire come creatura poetica per lasciar campeggiare solo la figura del poeta-personaggio, è ‘angelicata’, è un angelo non nel senso generico della parola, ma nel senso tecnico della filosofia scolastica, secondo la quale gli angeli sono tramiti tra Dio e l’uomo. In tal modo, in clima bolognese-fiorentino, cioè comunale, cioè, ancora, democratico e laico, ma sempre preoccupato del problema religioso, si compone il dissidio tra l’amore sentito non solo come insopprimibile ma anche come segno di altezza spirituale, e l’amore condannato dalla religione come peccato: una moralità nata dall’amore, cioè dall’umanità più piena, è la guida più sicura a Dio, da Dio stesso voluta.
Tutto ciò non basta ovviamente a spiegare la poesia dei singoli stilnovisti, che sono da studiare, sullo sfondo dottrinale e di gusto a tutti comune, ciascuno nella sua singola individualità poetica. Rilevantissima quella di G. Cavalcanti e, naturalmente, di Dante, il quale, oltre le rime, ci ha dato nella Vita nuova quel che potrebbe dirsi lo s. della prosa e anche un’immagine estremamente idealizzata di vita stilnovistica; e nel De vulgari eloquentia, sia pure parzialmente, un ripensamento teorico degli ideali stilistici dello stil novo.