Orientamento politico e sociologico volto a promuovere il riconoscimento e il rispetto dell’identità linguistica, religiosa e culturale delle diverse componenti etniche presenti nelle complesse società odierne.
All’origine del m. si possono individuare due ordini di fenomeni. Il primo è rappresentato dalle nuove ondate migratorie, le cui dinamiche, per ampiezza e celerità, si differenziano da quelle del passato e non consentono nella maggioranza dei casi un’integrazione-assimilazione (peraltro ormai contestata nel suo stesso significato e valore) delle comunità di immigrati nei paesi di destinazione. Il secondo fenomeno è costituito dalla nuova ‘politica culturale dell’identità’. Affermatasi principalmente negli Stati Uniti, essa può essere considerata una filiazione del movimento giovanile degli anni 1960 e delle mobilitazioni in favore dell’uguaglianza istituzionale, sotto il profilo della loro specifica identità, di determinati gruppi discriminati o marginalizzati (femministe, afroamericani e ispanici e, in seguito, gay e lesbiche).
Il m. ha gradualmente acquisito una propria fisionomia in relazione a vari tipi di problematiche: di quale riconoscimento si tratti, che cosa voglia dire pari dignità, se all’interno di un quadro liberale siano concepibili diritti sovraindividuali, a quali tipi di gruppi o comunità vadano accordati riconoscimento ed eventuali diritti collettivi. Le ragioni per le quali la convivenza di culture diverse genera effetti dirompenti e problemi inusitati sembrano legate al mutare di aspetti centrali della nostra cultura: l’identità dell’individuo viene ora vista come una rappresentazione che la persona fa di sé stessa a partire dall’interazione con altri con cui entra in rapporti significativi; inoltre, si è rafforzato il convincimento che rispettare l’individuo vuol dire rispettarlo con tutto ciò che lo fa essere ciò che è – la sua cultura, la sua comunità, la sua storia, la sua lingua – aprendo una nuova fase del modo di intendere la società. Quella contemporanea, cioè, non appare più come una comunità di individui, bensì piuttosto come una unione di comunità, una ‘unione sociale di unioni sociali’.
Sulla possibilità di riconoscere un gruppo o una comunità come soggetto di diritto è in corso un acceso dibattito. Una delle soluzioni più interessanti afferma che il diritto alla cultura rimane appannaggio dell’individuo, ma può essere legalmente esercitato solo se esiste un numero minimo di individui che richiedono di goderne. Riguardo al concetto di cultura si confrontano concezioni più ampie, che definiscono la cultura solo per contrasto con altri sistemi di oggettivazione di raggio più ristretto, e concezioni più limitate, secondo le quali il termine ‘cultura’ va riservato solo a quei sistemi di mediazione simbolica che hanno dimostrato di sapere integrare una società per un certo numero di generazioni. La proposta di W. Kimlicka (1995) è di utilizzare un concetto di ‘cultura societaria’ (societal culture), intesa come vocabolario descrittivo e valutativo condiviso da uno stesso gruppo per più generazioni. La cultura diventa sinonimo di nazione intesa come «comunità intergenerazionale, più o meno istituzionalmente completa, che occupa un certo territorio o patria, e condivide una lingua e una storia distinte».
Per quanto poi riguarda la nozione di eguale dignità, alcuni studiosi osservano che dal diritto al riconoscimento della eguale dignità di ogni cultura non discende alcun diritto a una presunzione di eguale valore, che è cosa ben diversa dalla eguale dignità; in positivo, invece, ne discenderebbero: a) il diritto a condurre senza interferenze uno stile di vita, con la sola limitazione del principio del danno ad altri; b) il diritto a eque opportunità di rappresentazione di tale stile di vita sui media; c) il diritto a un aiuto da parte dello Stato per attività culturali delle comunità etniche. In alcuni casi, la richiesta di diritti culturali si concreta nel diritto di una minoranza etnico-culturale all’autogoverno, ovvero a una autonomia giurisdizionale su un territorio in cui il gruppo in questione risulti maggioritario; in altri casi, i diritti culturali prendono la forma di una protezione giuridica della libera espressione di tratti culturali tipici di una minoranza; infine, detti diritti assumono la forma di una rappresentanza speciale in seno a istituzioni legislative, amministrative o educative.
Ci si interroga su cosa giustifichi l’introduzione dei diritti culturali all’interno del quadro normativo delle società democratiche contemporanee. Con l’eccezione dell’ipotesi centrata sui requisiti dell’identità, le più importanti giustificazioni finora addotte a sostegno dei diritti culturali hanno fatto riferimento soprattutto ai valori della libertà e dell’uguaglianza; altre giustificazioni si possono chiamare storiche, basate sulla necessità di onorare gli antichi trattati bilaterali fra nazioni che convivono all’interno del medesimo Stato, e altre ancora legano i diritti culturali al perseguimento del pluralismo e delle diversità come bene in sé. Nelle giustificazioni che fanno perno sul valore della libertà, il diritto alla cultura viene inteso come parte del più ampio e fondamentale diritto alla libertà, in perfetto accordo con il quadro teorico liberale: ogni individuo ha interesse e diritto a scegliere e cambiare i propri fini secondo la visione di ciò che gli appare in grado di migliorare la sua vita; tale diritto alla scelta può essere esercitato effettivamente solo se esiste una pluralità di opzioni praticabili e l’individuo possiede degli standard di valutazione delle opzioni. Proteggere il pluralismo delle appartenenze culturali significherebbe proteggere l’autonomia dell’individuo e la libertà di scelta ovvero le condizioni che la rendono possibile. Una società che non offre ai soggetti l’opzione di crescere dentro la propria cultura è una società che discrimina due classi di cittadini: da un lato coloro che, essendo già nati in un contesto culturale cosmopolita, beneficiano di una continuità culturale lungo l’intero arco della loro socializzazione, dall’altro lato coloro che sono condannati a un processo di riacculturazione che non hanno scelto. È tuttavia legittima anche la considerazione inversa: l’appartenenza stretta a una determinata cultura può comportare una chiusura nei confronti di una società e di una cultura cosmopolita.
Molti anni prima che il termine m. si affermasse, R. Sennett (1977) aveva sviluppato una critica degli effetti distruttivi di quella che allora si chiamava identity politics, o, semplicemente, ‘nuovo modo di fare politica’, caratterizzata da intransigenza settaria e moralistica, unita all’inconcludenza che le deriva dalla mancata accentuazione del momento strategico. A parte alcuni ‘vizi dell’appartenenza’ e i rischi inerenti all’istituzionalizzazione di una sensibilità multiculturalista, il rischio maggiore insito nella prospettiva multiculturalista è forse quello di congelare ogni gruppo protetto nella sua configurazione attuale, inibendo processi di revisione interna della sua cultura. È stato osservato che considerare il gruppo nel suo complesso come soggetto di diritti culturali vuol dire dare per scontate le strutture esistenti e favorire le maggioranze interne. Tra i rimedi proposti contro questi rischi del m., uno in particolare è da segnalare: garantire all’individuo sempre e in qualunque caso il ‘diritto alla secessione’ ossia subordinare ogni misura protettiva dell’integrità di una cultura al dovere per la comunità in questione di lasciare i suoi membri liberi di allontanarsene senza subire vessazioni di sorta.