Minerali caratterizzati da una particolare durezza, preziosi per la loro rarità.
La definizione più completa ed esatta di p. è ancora quella data da Anselmo Boezio de Boodt, medico di Rodolfo II, nell’opera Gemmarum et lapidum historia (1609): p. è una pietra piccola, rara, dura, che ha ereditato dalla natura una sua intrinseca bellezza. Rarità e durezza sono proprietà che non apportano alcun pregio estetico a una pietra, ma vanno considerate come fattori di preziosità perché anch’esse influiscono sul valore venale. Entrambe però perdono ogni valore se non accompagnate dalla bellezza, che è il risultato di fattori diversi: lucentezza, trasparenza o acqua, forte rifrattività, intensità e omogeneità di tinta nelle pietre colorate, decisa assenza di tinta nelle incolori e assenza di inclusioni o di screpolature interne, a meno che non conferiscano particolari caratteristiche ottiche (labradorescenza, gatteggiamento, iridescenza ecc.). Determinante è la lucentezza, dovuta all’elevato indice di rifrazione proprio di alcuni cristalli. Le p. comprendono non più di venti specie mineralogiche, tutte cristallizzate, a eccezione dell’opale. La variazione di colore tra varietà di una stessa specie dipende dal fatto che la maggior parte di questi minerali sono allocromatici; in essi, cioè, il colore è determinato dalla presenza di impurezze che in percentuali minime, talora indosabili, entrano a far parte del cristallo. Tali impurezze sono talvolta costituite da elementi dispersi sotto forma colloidale; in altri casi invece le impurezze sono rappresentate da ioni degli elementi di transizione e delle terre rare. Il colore può quindi variare con la natura chimica della impurezza, mentre il tono e l’uniformità di tinta dipendono dalla percentuale e dalla distribuzione più o meno omogenea del principio cromogeno. Alcune impurezze sono caratteristiche di una data specie, e impurezze diverse possono conferire la stessa tinta; il colore non serve quindi come carattere diagnostico.
I metodi esatti di determinazione dei minerali risalgono al principio del 19° sec.: prima di tale epoca la determinazione era fatta in base a caratteri organolettici, perciò p. della stessa tinta erano classificate insieme.
Dal punto di vista mineralogico, i principali minerali e loro varietà usati come p. sono: berillo, incoloro, giallo oro o eliodoro, verde erba o smeraldo, azzurro-celestino o acquamarina, roseo o morganite; cianite, di cui si utilizzano solo le varietà trasparenti di colore azzurro intenso simile a quello dello zaffiro orientale; cordierite, di cui si utilizzano solo le varietà colorate in azzurro; corindone, incoloro, giallo, rosso o rubino (orientale), azzurro o zaffiro (orientale), verde, verde-azzurro, violetto ecc., e la varietà con gatteggiamento detta asteria; crisoberillo, verde asparago, verde oliva, verde smeraldo o alessandrite ecc., e la varietà gatteggiante o cimofane; diamante, incoloro, giallo, roseo, rosso, azzurro e nero; feldspati, di cui si utilizzano le varietà dette pietra di luna e di sole; granati, giallo-miele o hessonite, rosso-sangue o piropo, rosso-vinato o almandino, verde smeraldo o demantoide ecc.; lapislazzuli, opaco con punteggiature auree dovute a pirite, nella varietà azzurro oltremare intenso; opale nobile, con le sue varietà; quarzo, incoloro o cristallo di rocca, violetto o ametista, giallo o citrino, roseo, azzurro e affumicato o morione, oltre alle varietà che si distinguono per possibili inclusioni: avventurino, prasio, occhio di tigre, di gatto, di falco, giacinto di Compostella; o per una particolare struttura di aggregato: diaspro, corniola, microprasio, eliotropio; spinello, roseo, tendente al violaceo o (rubino) balascio, rosso intenso puro o rubino spinello, rosso tendente al giallo o rubicello; spodumene o trifane, nella varietà rosea o kunzite e gialla tendente al verde smeraldo o hiddenite; topazio, incoloro o goccia d’acqua, giallo verdolino, giallo oro, roseo, azzurro-verdolino; tormalina, incoloro o acroite, verde, gialla, azzurra o indicolite, rosea o rubellite; turchese, opaca, di colore variabile dal verde al celeste; tinta più pregiata il celeste carico; zircone, incoloro, verdognolo, giallo-oro, rosso-bruno, azzurro, cobalto, aranciato o giacinto.
La nomenclatura commerciale segue solo in parte quella mineralogica: vi è l’abitudine di creare nomi per tonalità più ricercate di una stessa specie, talvolta si usa indicare una p. col nome di un’altra e spesso si adopera uno stesso nome, modificato per lo più da termini di località, per p. che nulla hanno in comune se si eccettua una certa somiglianza di tinta. Ciò avviene, per es., per molte pietre rosee o rosse che sono indicate come rubino: rubino (orientale), varietà di corindone; rubino balascio, varietà di spinello; rubino brasiliano, varietà di topazio roseo; rubino siberiano, varietà di tormalina; rubino del Capo, varietà di granato; rubino di Boemia che è il quarzo roseo.
Le p. vengono tagliate per metterne in risalto i pregi, scartando le parti difettose, e dando una forma che favorisca i giochi di luce. Tale pratica è piuttosto recente; più antica è l’arte di inciderle o di lavorarle in rilievo. I tagli più comuni sono a brillante e a rosa; il primo è formato da due tronchi di piramide uniti per la base maggiore e aventi dimensioni diverse, rispondenti a leggi fisse; le facce laterali vengono poi tagliate in faccette triangolari. La rosa è formata da una sola piramide con i lati a faccette triangolari; viene usata per le p. di piccolo spessore. Altri tipi di tagli sono usati secondo i casi, per es.: a rosa doppia, a gradini, a tavola, a tagli misti, a superfici curve (cabochon), a marquise ecc.
La lavorazione inizia con la sgrossatura: la p. viene ridotta nella forma eliminando le parti imperfette con seghe metalliche a filo o a disco, umettate con una miscela di polvere di diamante e olio; poi si sfaccetta premendola contro un disco metallico in rapida rotazione bagnato con la stessa miscela. Tale operazione viene compiuta fissando la p. su congegni porta-pietra che permettono di regolare la pressione. La pulitura e lucidatura si eseguono nello stesso modo, variando il mezzo di taglio (polvere di Tripoli, pomice ecc.).
I progressi della minerogenesi hanno permesso di realizzare quasi tutte le p. preziose. Queste p. ottenute per sintesi di laboratorio, dette appunto p. sintetiche, scientifiche, artificiali, chimiche, ricostituite, hanno le stesse proprietà chimiche e fisiche di quelle naturali o vere. Solo in alcuni casi le pietre sintetiche sono state ottenute in dimensioni tali da potere essere utilizzate in gioielleria: negli altri casi hanno trovato impieghi industriali.
Poiché le pietre naturali sono costituite da monocristalli, anche per quelle sintetiche si è cercato di riprodurre questa caratteristica. Si possono ottenere partendo da singoli cristalli di dimensioni ridotte, che poi vengono fatti ingrandire in modo da arrivare a monocristalli di sufficienti dimensioni. L’ingrossamento dei cristalli si può ottenere o da massa fusa (della stessa composizione della pietra da riprodurre: sistema Verneuil) o da soluzioni (sia in acqua sia in solventi fusi). Le p. che vengono preparate, oltre al diamante, sono essenzialmente: rubino, zaffiro, smeraldo ecc.
Per il riconoscimento delle pietre si utilizzano le caratteristiche proprie dei cristalli. Il metodo di prova più seguito è quello dei liquidi pesanti: ci si serve di liquidi con peso specifico diverso e conosciuto e in essi si immerge la pietra in esame. La determinazione della durezza si fa per confronto con i termini della scala di Mohs (nella tab. è riportata la durezza delle principali pietre). Lo studio del colore, più complesso, va eseguito mediante scale di comparazione.
Per il commercio le p. hanno come unità di misura il carato (quello metrico equivale a 200 mg), suddiviso in centesimi, oppure il grano, pari a un quarto di carato. Il valore della p. dipende anche dalla regolarità del taglio, dalla colorazione, dalla purezza ecc.; naturalmente sul valore venale molto influisce la rarità, cosicché, per es., per i topazi, relativamente comuni in grossi individui, a massa doppia, tripla ecc., corrisponde un prezzo doppio, triplo ecc., mentre per i diamanti la relazione tra massa e prezzo segue altre leggi, valide peraltro sino a 20 carati. Le formule di J.-B. Tavernier e di A.B. de Boodt (metà del Seicento), di A. Schrauf (1869), sono cadute in disuso; una formula è quella riportata da Sutton (1880): P = (m−1)d+p, dove P è il prezzo cercato, m la massa in carati della p., p il prezzo della p. di un carato e d la differenza di prezzo fra la p. di un carato e quella di due.
Fin dalla remota antichità le p. furono usate come simbolo di autorità e come ornamento. Alle p. erano attribuite particolari virtù e poteri magici e apotropaici; del loro simbolismo testimoniano i testi biblici. Oltre che per ornamento personale le p. vennero da sempre utilizzate per decorare sfarzosamente oggetti comuni e sacri. L’uso iniziò forse presso i popoli orientali; il diamante, noto in Occidente dopo le spedizioni di Alessandro Magno, è già ricordato negli antichi poemi sanscriti. Assiri e Sumeri usavano onice, diaspro, agata e lapislazzuli. In Egitto si usarono per donare ai goielli una sontuosa e splendente policromia, anche grazie all’impiego di tecniche raffinatissime di lavorazione. In Grecia e ancora di più a Roma le p. furono largamente adoperate.
L’avvento del cristianesimo come religione ufficiale dell’Impero Romano ne indirizzò l’impiego in oggetti cerimoniali e rituali; nel loro uso, Bisanzio fu l’erede della simbologia cristiana come dei simboli del potere romani. Il gusto per la decorazione con p. tagliate in forme squadrate sembra provenire dall’Oriente, ma con l’avanzata dei popoli barbarici penetrò in tutta Europa. In Italia si diffuse già nel 5° sec., affermandosi dopo l’invasione degli Ostrogoti. Le p. erano incastonate a cabochon o incorniciate con filigrana semplice o granulata. Questa tecnica raggiunse grande perfezione in epoca merovingia e si ritrova ancora in età ottoniana e romanica, accordandone l’uso al carattere soprattutto religioso e liturgico dell’oreficeria.
Nel 13° e 14° sec. il gioiello si liberò della prevalente impronta religiosa, per divenire dal Quattrocento un elemento della moda. Le innovazioni tecniche, consentendo tagli di p. sempre più complessi, permisero di ottenere effetti sempre più raffinati: nella seconda metà del 15° sec., il gioielliere di Carlo il Temerario, Louis de Berken, cominciò ad applicare al diamante la tecnica della sfaccettatura. Fu il Seicento il secolo del diamante, grazie alla massiccia immissione sul mercato europeo di pezzi grezzi provenienti da Indie e Brasile; dal 17° sec. giunsero in Europa alcuni diamanti leggendari: il Gran Mogol e il grande diamante blu, portato nel 1660 da J.-B. Tavernier.
Il perfezionamento delle tecniche di lavorazione e i mutamenti sociali contribuirono alla diffusione delle p., la cui utilizzazione è continuata in seguito anche su scala industriale.
Pietre dure In oreficeria, minerali caratterizzati da elevata durezza, come agata, calcedonio, diaspro, giada, lapislazzuli, onice, porfido, cristallo di rocca; sono lavorate con strumenti simili a quelli usati per le p., e usate fin dall’antichità per sigilli, ornamenti personali e piccoli oggetti decorativi, per intagli e cammei, ma anche per oggetti di dimensioni maggiori: statue, bacini per vasche e sarcofagi in porfido.
Dal periodo tardo-romano, paleocristiano e bizantino, le pietre dure furono usate in architettura, accanto ai marmi colorati, come elemento strutturale o decorativo, in tarsie, pavimenti e rivestimenti. Dal mondo bizantino l’uso delle pietre dure, diffuso anche per il prezioso vasellame, si irradiò in quello musulmano e in Italia; gli Arabi produssero ed esportarono oggetti in pietre dure, specie intorno all’11° secolo. La lavorazione proseguì nei secoli successivi; la glittica conobbe un periodo di splendore con Federico II. Importanti centri di produzione tra il 13° e il 15° sec. si svilupparono in Francia (in particolare a Parigi) e in Italia meridionale. Dalla seconda metà del Quattrocento in poi, durante tutto il periodo rinascimentale e barocco, gli artefici italiani, cui si devono lo sviluppo della tecnica di lavorazione delle pietre dure e i nuovi modelli creativi, esportarono la loro arte nelle principali corti europee. Si sviluppò un gusto per oggetti dalle forme curiose e varie. Particolarmente attivi furono gli artefici milanesi (i Carrioni, Iacopo da Trezzo, i Miseroni, i Saracchi). A Firenze, sotto il granduca Cosimo, Francesco Ferrucci del Tadda fondò una bottega specializzata nella scultura in porfido. Il granduca Francesco fece erigere laboratori d’intaglio, dal 1586 negli Uffizi; l’officina (odierno Opificio delle pietre dure), compiutamente organizzata sotto Ferdinando I, verso il 1600 si specializzò nella tarsia con il cosiddetto mosaico fiorentino (commesso), realizzando decorazioni, piani per tavoli, cofanetti, stipi, e proseguì la sua attività per tutto il 18° secolo. Dopo un periodo di forte rallentamento, la lavorazione delle pietre dure ha avuto nel 20° sec. una leggera ripresa.
Oltre che nell’arte musulmana la lavorazione delle pietre dure fu di eccellenza in Oriente, soprattutto in Cina; tra le civiltà precolombiane, specialmente quella messicana ha impiegato pietre dure in ornamenti personali, armi e suppellettile sacra.