Il decreto-legge, al pari del decreto legislativo, è un atto avente «forza di legge»: è, cioè, un atto normativo del Governo parificato alla legge, sia come capacità di innovare nell’ambito dell’ordinamento giuridico (c.d. vis abrogans), che come resistenza all’abrogazione da parte di fonti subordinate. Pur non essendo esplicitamente previsto dallo Statuto albertino ed anzi avversato da parte della dottrina per contrasto con gli artt. 3, 6 e 82, il decreto-legge apparve e si affermò nella prassi come atto normativo del Governo sin dai primi anni dell’esperienza statutaria (secondo alcuni studiosi, il primo decreto-legge sarebbe stato il R.d. n. 1603/1853), anche se il nomen iuris di decreto-legge comparve solo nel primo decennio del secolo nuovo. È a partire dalla c.d. crisi di fine secolo che i decreti-legge crebbero la loro importanza: basti pensare al R.d. n. 227/1899, presentato dal Governo Pelloux, le cui disposizioni furono avversate da parte della stessa Corte di cassazione, che le considerò prive di ogni efficacia in quanto non ancora convertite in legge.
La prima disciplina legislativa del decreto-legge si è avuta solo con la l. n. 100/1926, che conferiva al Governo la facoltà di adottare norme aventi forza di legge in casi straordinari, nei quali lo richiedessero ragioni di urgente ed assoluta necessità. Era, inoltre, previsto che i decreti-legge fossero presentati alle Camere per la loro conversione in legge non oltre la terza seduta dopo la loro pubblicazione e che cessassero di avere vigore se non convertiti in legge entro due anni dalla loro pubblicazione. La cessazione di efficacia era immediata in caso di esplicito rifiuto di conversione da parte di una delle Camere.
Il decreto-legge nell’esperienza repubblicana. - Con la Costituzione repubblicana (Costituzione italiana), il decreto-legge ha avuto un’esplicita sanzione, ma al tempo stesso è stato configurato con una disciplina più rigorosa: l’art. 77 Cost. ha stabilito che il Governo, sotto la sua responsabilità, possa adottare provvedimenti provvisori aventi forza di legge in casi straordinari di necessità e di urgenza. Il decreto-legge è immediatamente efficace, ma deve essere presentato lo stesso giorno alle Camere per essere convertito in legge (Procedimento legislativo): se le Camere non lo convertono in legge nel termine perentorio di sessanta giorni, esso perde efficacia fin dall’inizio (ex tunc). Per evitare che i rapporti giuridici sorti sulla base di un decreto-legge successivamente non convertito possano trovarsi senza disciplina legislativa, le Camere possono comunque approvare una legge che ne faccia salvi gli effetti (art. 77, co. 3, Cost.).
Non vi è dubbio che questa puntuale disciplina sia stata distorta da una prassi divergente, che ha portato parte della dottrina a parlare di un vero e proprio «abuso» del decreto-legge. Al riguardo, va segnalata la prassi della c.d. iterazione e reiterazione del decreto-legge: il Governo, alla scadenza dei sessanta giorni, riproduceva – talvolta anche introducendo modifiche più o meno incisive – le disposizioni di un decreto-legge non (ancora) convertito in un nuovo decreto-legge, in modo da fare scattare nuovamente il termine di sessanta giorni per la sua conversione. Questa pratica era stata esplicitamente vietata dalla l. n. 400/1988, ma, poiché queste disposizioni erano contenute in una legge ordinaria, erano suscettibili di deroga da parte delle leggi successive (Criteri di risoluzione delle antinomie): nel corso degli anni novanta del Novecento, si era così arrivati alla situazione di decreti-legge giunti alla ventesima o alla trentesima reiterazione, senza che fossero mai stati convertiti in legge dal Parlamento.
Un ulteriore abuso del decreto-legge era costituito dalla mancanza, in alcuni casi, dei presupposti di necessità ed urgenza. Non diversamente da quanto verificatosi in età prerepubblicana, il decreto-legge veniva, infatti, utilizzato in luogo dei d.d.l. governativi, senza alcun reale controllo da parte dell’organo parlamentare sull’effettiva sussistenza di questi requisiti: in questo modo, il decreto-legge finiva per essere un vero e proprio strumento ordinario di legislazione e il Governo veniva ad assumere stabilmente poteri legislativi, in violazione del testo costituzionale, che qualifica il Parlamento come unico titolare della funzione legislativa (art. 70 Cost.; Procedimento legislativo).
Un fondamentale ruolo nella riconduzione del decreto-legge nell’alveo costituzionale è stato svolto dalla Corte costituzionale, che, seppur tardivamente, ha posto un deciso argine a queste prassi illegittime: nel 1996 è stata dichiarata l’incostituzionalità di un decreto-legge che reiterava le disposizioni di un decreto-legge non convertito; nel 2007 è stata dichiarata, sulla scia di quanto affermato dalla stessa Corte già un decennio prima, l’incostituzionalità di un decreto-legge privo di «evidenti» presupposti di necessità e urgenza, con l’ulteriore precisazione che l’eventuale conversione in legge non avrebbe sanato il vizio ab origine ed anzi si sarebbe riverberato sulla legge di conversione, configurandosi come vizio in procedendo.
Nella dottrina si è molto discusso sulle materie che possono essere oggetto di un decreto-legge: secondo alcuni – come indicato altresì nella l. n. 400/1988 – al decreto-legge sarebbe inibito provvedere in tutti quei casi previsti all’art. 72, co. 4, Cost. (c.d. riserva di assemblea). Anche in questo caso, però, si può notare come la prassi si sia alquanto discostata, come attestano i diversi e problematici casi di decreti-legge in materia elettorale.