secolarizzazione Termine entrato nel linguaggio giuridico durante le trattative per la pace di Vestfalia (1648), allo scopo di indicare il passaggio di beni e territori dalla Chiesa a possessori civili, e adottato in seguito dal diritto canonico per indicare il ritorno alla vita laica da parte di membri del clero. Nel 19° sec. è passato a indicare il processo di progressiva autonomizzazione delle istituzioni politico-sociali e della vita culturale dal controllo e/o dall’influenza della religione e della Chiesa. In questa accezione, che fa della s. uno dei tratti salienti della modernità, il termine ha perso la sua originaria neutralità e si è caricato di connotazioni valoriali di segno opposto, designando per alcuni un positivo processo di emancipazione, per altri un processo degenerativo di desacralizzazione che apre la strada al nichilismo.
Tra i fautori più convinti della s. come liberazione da ogni forma di tutela religiosa spiccano le secular societies, sviluppatesi in Inghilterra nella seconda metà dell’800 e variamente ispirate al positivismo e al materialismo: esse fecero del secularism un programma politico e ideologico, spesso improntato all’anticlericalismo e/o all’ateismo. Nell’ambito del pensiero sociologico, tra la fine dell’Ottocento e gli inizi del Novecento, si tentò di restituire al termine un significato neutrale e descrittivo.
É. Durkheim riteneva che il progresso avrebbe portato la religione tradizionale a un declino irreversibile; ma era altresì convinto che nessuna società potesse sopravvivere senza quel tessuto connettivo (valori, credenze e riti capaci di suscitare intensi legami di solidarietà) proprio di una natura essenzialmente religiosa. Nelle società progredite e altamente differenziate la religione non sarebbe quindi scomparsa, ma avrebbe subito una metamorfosi, consistente nella s. dei suoi contenuti (sacralizzazione della persona umana, culto dell’individuo).
Per M. Weber, invece, il mondo moderno è caratterizzato da un radicale ‘disincantamento’ (esito inintenzionale dell’etica protestante, che ha sciolto ogni legame magico-simbolico tra Dio e il mondo) e dall’affermazione della razionalità strumentale: di qui l’autonomizzarsi della politica, dell’economia e della ricerca intellettuale dalla religione. All’interno della sfera intellettuale il conflitto tra razionalismo e orientamento religioso è, secondo Weber, particolarmente acuto: il razionalismo della scienza empirica, che ha una pretesa di totalità e di autosufficienza, non riconosce l’esigenza di fondo della religione – la ricerca di un ‘senso’ nell’accadere intramondano – e la sospinge nel dominio dell’irrazionale: di conseguenza la religione, nel mondo moderno, viene a essere confinata nell’esperienza mistica.
Sulla scia di Weber si colloca il teologo liberale E. Troeltsch, il quale riprende l’idea del legame tra protestantesimo e mondo moderno, ma – a differenza di Weber – vede in alcune fondamentali idee della modernità (la separazione tra Stato e Chiesa, la tolleranza religiosa e la libertà di culto) una s. dei principi del cristianesimo evangelico. Anche successivamente, è stato in ambito protestante che la s. è stata interpretata in senso positivo, vale a dire come progressiva realizzazione dei principi cristiani e come tendenza verso un cristianesimo ‘adulto’, libero dal mito. L’interpretazione della s. come naturale protendersi del cristianesimo verso il mondo è condivisa anche da F. Gogarten, che però distingue da essa il secolarismo, inteso come pericolosa tendenza delle istituzioni terrene a divinizzarsi, sostituendosi alla dimensione religiosa.
La categoria di s. è tornata a giocare un ruolo centrale nelle scienze sociali negli anni 1960 e 1970, anche in seguito al manifestarsi, nel mondo occidentale, di nuovi movimenti religiosi, che sembravano incrinare la previsione – comune a larga parte della cultura moderna – di una inesorabile s. delle società moderne. Secondo B.R. Wilson, la società moderna priva la religione delle sue funzioni di integrazione morale e la confina pertanto nella sfera privata, dove peraltro essa assume caratteri e significati latamente culturali (s. come desacralizzazione). Per T. Luckmann, invece, la religione – in quanto bisogno dell’organismo umano di trascendere la dimensione biologica – rappresenta una costante antropologica insopprimibile; ma nella società industriale moderna, persa la capacità di imporre un ordine condiviso all’esperienza sociale e individuale, si è frammentata in una pluralità di tradizioni e istituzioni religiose, che agiscono in una sorta di situazione di mercato. Di qui la trasformazione della religione in una questione di ‘scelta’ o di ‘preferenza’ personale (s. come privatizzazione della religione). Per T. Parsons la moderna società industriale non è il frutto del ‘disincantamento del mondo’, ma della istituzionalizzazione dei valori cristiani, che si sono trasferiti nella sfera morale laica (s. come trasposizione della religione nella sfera secolare). Sulla stessa linea si colloca R.N. Bellah, che riprendendo da Rousseau il concetto di religione civile e facendone la chiave di volta per intendere i caratteri salienti della cultura americana, concepisce quest’ultima come un insieme condiviso di valori, simboli e riti derivati dalla tradizione cristiana, ma trasformati e adattati a legittimare l’identità nazionale. Sulle religioni ‘secolari’ o ‘politiche’ – ossia, sulle grandi ideologie contemporanee, considerate come ‘equivalenti funzionali’ della religione tradizionale – si sono soffermati sia Parsons sia J.P. Sironneau.
In ambito filosofico, di particolare interesse è la riflessione sviluppata da K. Löwith, secondo cui le moderne filosofie della storia traggono «origine dalla fede biblica in un compimento futuro» e finiscono «con la s. del suo modello escatologico». Secondo H. Blumenberg, invece, non esiste continuità tra l’escatologismo della tradizione ebraico-cristiana e l’idea illuministica di progresso, giacché quest’ultima è ispirata all’homo faber, creatore di storia e di forme.