Imperatore romano (Italica, Betica, 53 d. C. - Selinunte, Cilicia, 117). Di famiglia senatoria (il padre fu console, governatore della Betica, prese parte alla guerra giudaica, fu console in Siria e Asia), T. fu per dieci anni nell'esercito, facendovi una reale esperienza delle armi e del comando. Percorse poi i gradi della carriera civile senatoria: fu pretore in Spagna, comandò una legione in Germania, dove partecipò alla repressione della ribellione di Antonio Saturnino, fu console ordinario (91) e, quando Domiziano fu ucciso (96), era governatore della Germania superiore. Nerva, che aveva bisogno del sostegno d'un uomo forte e onesto non coinvolto nelle rivalità romane, e che godesse prestigio presso l'elemento militare, lo adottò come figlio, con cognome e dignità di Cesare, facendogli attribuire la potestà tribunicia (ottobre del 97). Morto Nerva (98), T. senza alcuna difficoltà gli succedette, assumendo l'impero. Non venne subito a Roma, ma si trattenne a sistemare il problema del confine renano, premurandosi nel contempo di inviare a Roma assicurazioni di amicizia per il senato. A T., inoltre, è probabilmente da attribuire la costituzione di un'ulteriore milizia personale dell'imperatore, quella degli equites singulares (v.), formata da elementi sceltissimi provenienti dalle popolazioni meno romanizzate dell'impero. Sistemato durevolmente il confine del Reno, T. passò a quello del Danubio, preoccupandosi specialmente della sistemazione della Dacia, mal risolta da Domiziano. Poi tornò a Roma (99), con modesto seguito, dando così inizio al suo sistema di governo, presto divenuto assai popolare presso tutti i ceti. Attivissimo e intelligente nell'amministrazione come nelle armi, amato dal popolo e dalla classe militare, T. riuscì durante il suo regno a mobilitare intorno a sé anche i migliori elementi senatorî ed equestri, cui infuse l'entusiasmo necessario per fondare e sostenere una buona tradizione amministrativa (fonte importante per i primi anni del regno di T. è il Panegirico di T., opera di Plinio il Giovane, tipico rappresentante dell'aristocrazia traianea). L'imperatore si preoccupò di alleviare alcune imposte e di arricchire il fisco vendendo largamente beni che i precedenti imperatori avevano accumulato e immobilizzato nel proprio patrimonio mediante acquisti, confische, doni, legati testamentarî. La sicurezza e la facilità degli scambî commerciali nei confini dell'Impero aumentarono notevolmente; si creò un'atmosfera di grande e non fittizia sicurezza finanziaria (l'età di T. fu sempre ricordata come un'età d'oro). Provvedimento notevole di T. fu l'istituzione degli alimenta, ossia la costituzione di una rendita destinata a fornire in Italia i mezzi di sussistenza a fanciulli e fanciulle povere, organizzata in modo tale da rappresentare al tempo stesso una forma di prestito agrario a basso interesse, onde agevolare il rifiorimento dell'agricoltura italica. Il principio del sistema (sul quale siamo informati da una delle più importanti epigrafi romane, la Tavola alimentare di Velleia, e da una iscrizione dei Ligures Baebiani, presso Benevento) consisteva nella destinazione di somme della cassa imperiale perché fossero date a prestito a proprietarî terrieri delle città italiane; i mutuatarî dovevano far iscrivere uno o più fondi in garanzia; gli interessi erano devoluti in favore di fanciulli o fanciulle povere della città. Alla vigilanza degli alimenta furono destinati i curatori delle grandi vie imperiali, per le zone contigue alle vie stesse. Analoghe istituzioni sorsero poi, su questo esempio, per opera di privati, in Italia e nelle province. In genere, T. curò al massimo l'onestà e l'efficienza dell'amministrazione e della giustizia. Sistemate le faccende interne, T., forte temperamento di soldato, ritenne necessario risolvere definitivamente alcune gravi questioni di confine, in primo luogo quella del Danubio, da tempo minacciato dal potente regno di Dacia, col suo re Decebalo. Negli anni 101-102 e 105-106 ebbero così luogo, sotto la sua personale direzione, le guerre daciche, al termine delle quali l'intera regione era ordinata a provincia romana. Di questa T. si preoccupò subito, ordinando grandi lavori di civilizzazione (organizzazione dei distretti minerarî, fortificazioni, apertura di strade, tra le quali notevole quella danubiana, che saldava ormai l'intero percorso dalle foci alle fonti del fiume). Tornato a Roma, T. inaugurò grandi imprese di sistemazione urbanistica e monumentale a Roma, a Ostia, in altre parti dell'Impero (v. oltre). Tra i problemi di politica interna, egli doveva affrontare quello dei cristiani, verso i quali fu intransigente, cercando però di rispettare i principî di giustizia del diritto romano, istruendo i giudici a non tener conto delle denunce anonime, a dar luogo a processi solo dietro precise accuse, senza ricercare preventivamente i cristiani e a condannare questi solo se ostinati; tali principî egli espose in una lettera a Plinio il Giovane, che aveva consultato l'imperatore riguardo al trattamento da riservare ai cristiani nella provincia di Bitinia e Ponto; e tale fu poi il sistema di persecuzione più o meno rimasto in uso fino ai tempi di Decio, che dette inizio alle persecuzioni vere e proprie. Altro grave problema era quello dei rapporti col regno dei Parti, e T. colse l'occasione del contrasto scoppiato a proposito della successione al regno di Armenia, per iniziare, più che sessantenne, la nuova guerra. Precedentemente, i legati di T. avevano mutato assai favorevolmente la situazione orientale, battendo i Nabatei (105), e costituendo la nuova provincia di Arabia. T. compì vittoriosamente grandi operazioni militari, annettendo l'Armenia, giungendo in Mesopotamia, e scendendo con la flotta il Tigri, fino a Babilonia e al Golfo Persico. Ma una violenta sollevazione dei Giudei, il riapparire di forze nemiche qua e là nelle regioni conquistate, la ribellione di città occupate, e altri improvvisi rovesci, lo costrinsero a rinunciare al disegno della conquista totale e a incoronare egli stesso un nuovo re dei Parti (presto sostituito con un altro, eletto dai Parti stessi). Ammalatosi in Siria, T. affidò l'esercito al parente P. Elio Adriano (il futuro imperatore), e si avviò per tornare a Roma, ma a Selinunte di Cilicia improvvisamente morì. La sua fama rimase perpetua nella tradizione romana come quella di ottimo principe, e nel basso Impero l'acclamazione dei Cesari suonava Felicior Augusto, melior Traiano.
Monumenti di Traiano. - A Roma, sotto T. si costruirono, oltre a un nuovo teatro e a un odeon di incerta collocazione, oltre ai restauri del Circo Massimo e del tempio di Venere Genitrice, un nuovo acquedotto che dal Lago di Bracciano portava l'acqua nella XIV regione urbana (Trastevere), le grandiose terme di cui restano avanzi sul Colle Oppio e, più importante di tutti, il centro monumentale del Foro che da lui prese il nome (v. foro: Archeologia) con la colonna coclide istoriata, narrante le due guerre daciche, dedicata nel 113 d. C. Altri lavori pubblici compì in Italia e nelle province. Rimediò alle insufficienze del porto ostiense di Claudio scavando entro terra un vasto bacino esagonale comunicante col porto e col fiume; altri lavori portuali compì a Centumcellae (Civitavecchia), a Terracina e ad Ancona. Ad Ancona e a Benevento si conservano i suoi archi trionfali. Costruì e riparò strade in Italia e in tutte le province, a cominciare dall'Appia (v. Traiana, Via). Una sobria iscrizione (tabula Traiana) ricorda ancor oggi l'apertura (100 d. C.) della via parallela al Danubio a Ogradena (presso Orşova). In Africa fondò la colonia di Thamugadi, circondata di mura poderose, la cui porta occidentale, da cui usciva la via per Lambesi, era conformata a grande arco monumentale dedicato all'imperatore.
La leggenda di Traiano. - Presto nel Medioevo fiorì la leggenda attorno alla figura dell'ottimo imperatore. Già formata nel sec. 8° o al massimo nel 9°, si legge nelle biografie di Gregorio Magno, opera di Paolo Diacono e di Giovanni Diacono. Ebbe varî sviluppi e varianti; nelle linee generali, è la seguente: T., muovendo a cavallo alla testa del suo esercito, è fermato da una vedova che implora giustizia per il proprio figlio ucciso. Cedendo alle insistenze della donna, finalmente T. scende da cavallo e compie il suo dovere, condannando l'uccisore (che secondo una versione è figlio di T. stesso). Questo atto di giustizia avrebbe commosso papa Gregorio Magno, il quale, afflitto dal pensiero che un uomo così giusto dovesse essere dannato perché pagano, ottenne con le sue preghiere da Dio che l'anima dell'imperatore fosse salva; ma, a castigo del suo ardire (aver intercesso per l'anima di un pagano), dovette soffrire per tutta la vita dolorose malattie. Oscura è l'origine della leggenda, la prima parte (storia della vedova), che anticamente era attribuita ad Adriano, trovò sostegno nella falsa interpretazione di un bassorilievo romano (donna, indicante una provincia, inginocchiata davanti a T. a cavallo); la seconda parte (salvezza dell'anima di T.) ha riscontro in una leggenda orientale coeva o anteriore. La storia della salvezza di T., accolta da storici e teologi, creò per questi ultimi gravi problemi, come si può vedere in s. Tommaso e in Dante. Questi scelse l'episodio della vedova come esempio di umiltà, ponendolo nel canto X del Purgatorio, e collocò poi T. nel cielo di Giove, nell'occhio dell'aquila (Paradiso canto XX) tra gli spiriti "giusti e pii", accogliendo l'opinione di s. Tommaso secondo cui Dio, accondiscendendo alle preghiere di s. Gregorio, avrebbe richiamato in vita per breve tempo T., che in tal modo ebbe la possibilità di credere in Cristo e quindi salvarsi. La leggenda fu più volte narrata in latino e volgare (oltre che da Dante, anche dal Novellino, dal Fiore dei filosofi, ecc.); anche la scultura e la pittura se ne appropriarono come esempio di giustizia (nei secc. 15° e 16° si usò spesso raffigurarla nelle aule dei tribunali in Germania e nei Paesi Bassi). In età più recente, fu energicamente respinta da storici e teologi (C. Baronio, R. Bellarmino, ecc.).