Il principio di uguaglianza affonda le proprie radici nel costituzionalismo moderno e trova la sua affermazione sin nei primi documenti costituzionali del Settecento (Dichiarazione di Indipendenza U.S.A. 1776; artt. 1 e 6 Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino francese 1789; artt. 1 ss. Cost. Francia 1814; artt. 1 ss. Cost. Francia 1830; art. 6 Cost. Belgio 1831; art. 24 Statuto albertino; art. IV Premabolo e art. 10 Cost. Francia 1848; art. 137 Cost. Francoforte 1849; art. 109 Cost. Germania 1919; art. 3 Legge fondamentale Germania 1949; artt. 9 e 14 Cost. Spagna 1978; art. 8 Cost. Svizzera 1999), anche se le sue prime teorizzazioni risalgono già all’antica Grecia. Con il definitivo ripudio della società distinta in ceti si afferma, infatti, il principio fondamentale che la nascita non possa essere una fonte di privilegi: in virtù del principio di uguaglianza, dunque, tutti i cittadini sono soggetti alla stessa legge, generale e astratta, e non sono ammissibili discriminazioni fondate sulle loro condizioni personali.
Il principio di uguaglianza nell’esperienza repubblicana. - Per quanto riguarda la Costituzione italiana, il principio di uguaglianza è sancito e disciplinato all’art. 3 Cost., il cui co. 1, dopo aver proclamato il principio della pari dignità sociale dei cittadini – per cui, ad avviso della dottrina maggioritaria, sarebbero illegittime tutte le disposizioni che collegassero particolari distinzioni aventi rilievo sociale da circostanze indipendenti dalla capacità e dal merito – pone il principio di uguaglianza di tutti i cittadini davanti alla legge ed elenca una serie di divieti specifici di discriminazione (sesso, razza, lingua, religione, opinioni politiche, condizioni personali e sociali). In ogni caso, è opinione diffusa che tale elenco non sia esaustivo, nel senso che vi possono essere violazioni del principio di uguaglianza anche di fuori di quei casi. Un’applicazione diretta dell’art. 3, co. 1, Cost. è la XIV disp. trans. fin. Cost., che vieta esplicitamente il riconoscimento dei titoli nobiliari.
Se la disposizione contenuta nel co. 1 sancisce quella che viene definita l’uguaglianza in senso formale, il co. 2 stabilisce la c.d. uguaglianza in senso sostanziale, anche se non mancano voci critiche nei confronti di questa distinzione, che, nelle sue formulazioni più estreme, finirebbe con l’assegnare all’art. 3, co. 2, Cost. una sorta di superiorità assiologica. Secondo parte della dottrina, infatti, l’art. 3, co. 2, Cost. sarebbe una supernorma costituzionale, idonea a prefigurare una radicale trasformazione della società in senso egualitaristico, mentre secondo altri esso sarebbe il mero fondamento teorico delle c.d. azioni positive, cioè di misure a favore di minoranze precedentemente svantaggiate, pratica che la giurisprudenza costituzionale ha pacificamente ammesso. In ogni caso, l’art. 3, co. 2, Cost. costituisce una disposizione inconsueta nel panorama del costituzionalismo occidentale e particolarmente innovativa, che pone con nettezza l’obiettivo di sicura sostanza costituzionale della rimozione degli «ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l'eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l'effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all'organizzazione politica, economica e sociale del Paese».
Il principio di uguaglianza di fronte alla legge è sicuramente una delle clausole più invocate dalla giurisprudenza costituzionale, a partire dalle sue prime sentenze. Sin dal 1957, infatti, la Corte costituzionale ha affermato che il legislatore possa dettare delle disposizioni particolari, ma che queste debbano essere giustificate in base alle condizioni soggettive e oggettive alle quali le norme giuridiche si riferiscono, con la conseguenza che viola il principio di uguaglianza il fatto che il legislatore assoggetti a una disciplina indiscriminata situazioni che egli stesso considera e dichiara diverse. Secondo la stessa Corte costituzionale, il principio di uguaglianza non deve essere inteso in senso meccanico e livellatore, ma, anzi, è rispettato quando vengono configurate ipotesi legislative che, pur essendo apparentemente discriminatici nei confronti di determinati gruppi o categorie, ristabiliscono, in sostanza, la parità delle condizioni. Va detto, inoltre, che il principio di uguaglianza è il fondamento teorico dello scrutinio di ragionevolezza delle leggi, anche se poi, con il passare del tempo, la Corte costituzionale, in qualche decisione, ha reso autonomo tale giudizio dal principio di uguaglianza in senso stretto.
Per quanto riguarda le discriminazioni basate sul sesso, la giurisprudenza costituzionale ha ritenuto costituzionalmente illegittimo per violazione del principio di uguaglianza il divieto per le donne di accedere a una serie di uffici pubblici, il fatto che solo il genitore esercente la patria potestà potesse esperire una querela penale per sottrazione di minore e tutta una serie di disposizioni in materia di adulterio, che sancivano un’evidente disparità di trattamento tra uomo e donna, aprendo la strada alle successive riforme legislative del diritto di famiglia (l. n. 151/1975) e della parità di accesso nei luoghi di lavoro (l. n. 903/1977). Assai più controverso è, invece, il problema delle c.d. quote rosa, cioè delle quote riservate a candidate donne nell’ambito di una lista elettorale: a una prima affermazione in senso contrario del 1995, la Corte costituzionale ha fatto seguire un orientamento assai più possibilista.
Per quanto riguarda la lingua, non sono ammissibili discriminazioni o diversificazioni di trattamento sulla base dell’uso di una lingua piuttosto che di un’altra. Ciò non esclude, però, che la lingua ufficiale della Repubblica sia l’italiano, restando salva la tutela delle minoranze linguistiche (art. 6 Cost.), che ha trovato una specifica attuazione nella l. n. 482/1999 (cfr. anche la l. n. 38/2001, con riferimento alla minoranza slovena), che consente alle minoranze c.d. storiche (albanesi, catalane, germaniche, greche, slovene, croate, francesi, franco-provenzali, friulane, ladine, occitane e sarde) l’uso di esse negli enti locali, nell’insegnamento, nelle amministrazioni pubbliche e nella toponomastica. In alcune Regioni ad autonomia differenziata (Trentino-Alto Adige/Südtirol; Valle d’Aosta/Vallée d’Aoste) viene anche garantito il diritto al bilinguismo. La tutela delle minoranze linguistiche non legittima, però, la tutela di un’identità regionale, separata e distinta da quella nazionale.