In biologia per a. s’intende la correlazione fra le strutture e le funzioni degli organismi e le condizioni dell’ambiente in cui essi vivono e anche l’atto o il processo di adattarsi, cioè di raggiungere la correlazione suddetta. L’a. può rivestire due aspetti, a seconda che interessi il singolo individuo o una sua parte ( a. fisiologico) o una serie di individui, attraverso le generazioni ( a. genetico). L’a. fisiologico o funzionale è espressione di una facoltà, geneticamente determinata, di far variare entro certi limiti strutture e funzioni per adeguarsi al cambiamento di circostanze esterne. Così la pelliccia dei Mammiferi è più folta e lanosa nei mesi freddi; alcuni microrganismi elaborano determinate reazioni soltanto se vengono a trovarsi in un substrato in cui vi sia la sostanza attaccabile da tali enzimi ( a. enzimatico). Ogni specie di esseri viventi è notevolmente idonea all’ambiente in cui vive. Di solito colpiscono di più alcuni a. particolari, come quelli alla vita parassitaria, alle acque termali o sovrassalate, e via dicendo: in realtà ogni specie rappresenta un insieme di a. più o meno perfetti e complicati.
Il problema dell’origine degli a. è uno dei più importanti della biologia. L’obsoleta concezione finalistica riteneva che la congruenza degli organismi con l’ambiente fosse dovuta a un disegno prestabilito: ogni specie è stata creata per vivere in un determinato ambiente. La concezione evoluzionistica invece scorge nell’a. un processo attivo, per cui gli organismi si sono andati modificando a seconda delle esigenze determinate dalle variazioni dell’ambiente. Secondo l’interpretazione di Lamarck, non ammessa dalla biologia moderna perché gli esperimenti non l’hanno dimostrata, l’organismo sarebbe suscettibile di acquisire, per azione dell’ambiente, caratteri capaci di trasmettersi ereditariamente ai discendenti (ereditarietà dei caratteri acquisiti). Così l’ambiente, con le sue variazioni, determinerebbe l’a. direttamente. Secondo l’interpretazione attuale, l’a. è il risultato di una selezione costante che varie condizioni ambientali operano sugli organismi (selezione naturale) favorendo i più idonei, quelli cioè che, in un dato ambiente, sopravvivono e si riproducono di più (➔ fitness). La selezione naturale si esercita sulla variabilità genetica casuale determinata sia dalle mutazioni sia dalla ricombinazione genetica che si verifica alla meiosi per il riassortimento indipendente dei cromosomi e per il crossing over. In una popolazione vi sono pertanto, a opera del caso, individui preadattati a condizioni ambientali diverse che potranno essere favoriti rispetto ad altri al mutare delle situazioni (per es., animali con occhi ridotti adatti alla vita ipogea, mosche con ali atrofizzate adatte ad ambienti ventosi ecc.). Questa concezione dell’origine degli adattamenti per opera della selezione, derivante dalle teorie di Darwin, ha in suo favore molti dati sperimentali.
Nella specie umana, l’a. comporta modificazioni morfologiche e fisiologiche di lieve entità, poiché l’uomo è quasi del tutto svincolato dall’ambiente, essendo in grado di modificarlo. Comunque, esistono a. delle popolazioni umane a particolari condizioni ambientali estreme: l’a. alle altitudini comporta un aumento dell’emoglobina nel sangue e lo sviluppo di un torace più ampio e di una maggiore capacità polmonare nelle popolazioni montane; l’a. al freddo è soprattutto di tipo culturale (abiti e case delle popolazioni artiche) e comportamentale, ma comporta anche alcune modificazioni fisiologiche, quale la riduzione della circolazione a livello delle estremità, che hanno quindi una temperatura inferiore a quella del tronco, e morfologiche quali la statura ridotta, arti piuttosto corti, ecc.; l’a. al caldo comporta un aumento della sudorazione e una migliore ritenzione dei sali di sodio. Taluni a. genetici nell’uomo risultano svantaggiosi se l’uomo si trasferisce in ambienti diversi da quello di origine; per es., gli eterozigoti per la talassemia, avvantaggiati in ambiente malarico, possono andare incontro a crisi emolitiche in alta montagna.
Procedimento volto a introdurre nell’ordinamento giuridico di uno Stato le modifiche necessarie a conformarlo alle norme di diritto internazionale in vigore per lo Stato stesso.
Le più compiute formulazioni teoriche in argomento si devono a quei giuristi (Triepel, Anzilotti) che, agli inizi del 20° secolo, hanno configurato l’ordinamento internazionale e quello interno come separati e distinti (dualismo o, data la pluralità di ordinamenti statali, pluralismo); detta concezione è tradizionalmente seguita nella dottrina italiana, a preferenza di quella (Kelsen, Verdross) tendente a ridurre a unità tutti i sistemi giuridici (monismo).
Dalla separatezza e indipendenza degli ordinamenti giuridici discende che le norme prodotte in ciascuno di essi non hanno effetto negli altri e che uno stesso fatto può essere valutato, nei diversi ordinamenti, in modo non coincidente (relatività delle valutazioni giuridiche, per la quale è possibile, ad esempio, che una norma internazionale obblighi lo Stato a una data attività, che nel diritto interno non è dovuta o è addirittura illecita). Da qui, l’esigenza di a. del diritto nazionale, a evitare la violazione di obblighi internazionali dello Stato (Illecito internazionale). Poiché il diritto internazionale raramente impone l’adozione di un dato provvedimento interno, limitandosi, di regola, a prescrivere o a vietare agli Stati una certa condotta, l’a. non è, solitamente, adempimento di un obbligo internazionale, ma il mezzo per assicurarne o renderne possibile l’osservanza, mediante i provvedimenti legislativi, amministrativi o regolamentari occorrenti per dare attuazione interna ai trattati e alle consuetudini internazionali.
Mezzi e procedimenti di adattamento. - Essi non sono stabiliti dal diritto internazionale, ma da quello interno, generalmente costituzionale. Così, l’art. 10, par. 1, della Costituzione italiana stabilisce che “l’ordinamento giuridico italiano si conforma alle norme di diritto internazionale generalmente riconosciute”. Questa disposizione si riferisce esclusivamente alle norme internazionali consuetudinarie; in relazione a queste, opera dunque un procedimento di a. automatico e permanente, implicante che l’ordinamento, nella sua interezza, si conforma costantemente al diritto internazionale generale e alle sue modificazioni.
Quanto all’incorporazione dei trattati, la prassi italiana utilizza tanto il procedimento speciale dell’ordine d’esecuzione contenuto in un atto normativo ad hoc (che per i trattati la cui ratifica richiede – in base all’art. 80 Cost. – l’autorizzazione del Parlamento è spesso la stessa legge di autorizzazione), quanto il procedimento ordinario, consistente nell’emanazione di un atto normativo (legislativo o regolamentare, come richieda la materia disciplinata) di contenuto identico al trattato.
Rango delle norme internazionali introdotte nell’ordinamento interno. - Un problema postosi nella prassi e nella giurisprudenza riguarda il rango delle norme internazionali introdotte nell’ordinamento interno, in particolare la loro prevalenza o soccombenza rispetto a norme posteriori incompatibili. Per quelle consuetudinarie, si ritiene che l’incorporazione mediante l’art. 10, par. 1, Cost., le provveda di garanzia costituzionale. Per quelle pattizie il rango è invece, in linea generale, quello stesso del provvedimento di attuazione (legge costituzionale, legge ordinaria, decreto, etc.), salvo riconoscere ad esse una speciale “resistenza”, atta a farle prevalere su norme successive di pari rango (secondo un principio di specialità sui generis, accolto nell’art. 117, 1° comma, Cost., come riformato dalla l. cost. n. 3/2001).
È infine da ricordare che all’attuazione e all’esecuzione degli accordi internazionali concorrono, nell’esercizio delle rispettive competenze, tutti gli organi dello Stato (per la competenza delle Regioni, vedi art. 117, 5° comma, Cost.).
L’a. del diritto interno al diritto dell'Unione Europea riguarda anzitutto i trattati comunitari. L’a. a tutti i trattati che hanno segnato, nel tempo, le tappe successive del processo d’integrazione europea, dal Trattato istitutivo della Comunità Europea del Carbone e dell'Acciaio del 1951 fino al Trattato di Lisbona del 2007, è sempre intervenuto in Italia mediante ordine di esecuzione in forma di legge ordinaria (Adattamento del diritto interno al diritto internazionale). L’esigenza di una legge di revisione costituzionale è stata esclusa sulla base del fondamento costituzionale della partecipazione dell’Italia al processo di integrazione europea, ravvisato fin dal 1951 nell’art. 11 della Costituzione, che consente, in condizioni di parità con altri Stati, le limitazioni di sovranità necessarie a un ordinamento che assicuri la pace e la giustizia fra le nazioni. In conseguenza di ciò, l’Italia ha accettato le limitazioni della sovranità legislativa derivanti dall’art. 288 del Trattato sul funzionamento dell’Unione Europea (già art. 249 del Trattato sulla Comunità Europea), che stabilisce la diretta applicabilità nell’ordinamento interno, senza ulteriori procedimenti di a., dei regolamenti comunitari.
L’adattamento agli atti normativi comunitari. - La l. 183 del 16 aprile 1987, sul coordinamento delle politiche riguardanti l’appartenenza dell’Italia alle Comunità Europee e l’adeguamento dell’ordinamento interno agli atti normativi comunitari, ha costituito uno dei primi provvedimenti diretti a definire meccanismi, procedure e organi destinati a svolgere un ruolo chiave nell’attuazione del diritto comunitario. La successiva l. 86 del 9 marzo 1989, contenente norme generali sulla partecipazione dell’Italia al processo normativo comunitario e sulle procedure di esecuzione degli obblighi comunitari, ha affidato a uno strumento periodico di intervento, la cosiddetta “legge comunitaria” annuale, il compito di garantire la corretta e tempestiva attuazione degli obblighi comunitari derivanti da direttive e da sentenze di condanna in procedimenti d’infrazione (Corte di giustizia dell'Unione Europea). La l. 86/1989 è stata sostituita dalla l. 11 del 4 febbraio 2005, che ha confermato la legge comunitaria annuale come strumento nel quale sono contenute le disposizioni necessarie per adeguare l’ordinamento interno al diritto comunitario, previa verifica dello stato di conformità del medesimo. Resta infine la possibilità di provvedere all’attuazione degli obblighi comunitari mediante leggi ad hoc.
Il primato del diritto dell’UE sul diritto interno. - Il trasferimento di competenze dallo Stato all’Unione Europea comporta anche il primato del diritto dell’Unione sulle norme di diritto interno contrastanti, precedenti e successive, quale ne sia il rango, anche costituzionale. Il diritto dell’UE prevale in ragione della sua natura particolare e in conseguenza del carattere esclusivo della competenza comunitaria. La preminenza del diritto dell’UE non è tuttavia concepita come produttiva di effetti assoluti nell’ordinamento interno, nel senso che essa renderebbe nullo o abrogato il diritto interno in contrasto con il diritto comunitario. Tale conflitto deve essere risolto mediante la non applicazione del diritto interno incompatibile, senza doverne attendere la previa rimozione in via legislativa o mediante procedimenti costituzionali. L’obbligo di applicare una norma comunitaria a preferenza di una norma interna contrastante opera in presenza non soltanto di regolamenti comunitari, ma anche di altre norme comunitarie aventi effetti diretti. Quando la norma comunitaria non sia direttamente applicabile né produca effetti diretti, la norma interna contrastante deve essere interpretata in modo da renderla conforme a quella comunitaria. Allorché il contrasto fra norma interna e norma comunitaria non è superabile in via interpretativa, spetta a ciascuno Stato membro porre in essere una diversa normativa conforme agli obblighi comunitari. Fintanto che ciò non avviene, il diritto dell’UE rende esperibile il procedimento di infrazione davanti alla Corte di giustizia e l’azione davanti ai giudici nazionali per far valere la responsabilità dello Stato membro inadempiente.
Il rispetto del diritto dell’UE come principio costituzionale. - Il principio della conformità dell’attività legislativa statale e regionale agli obblighi comunitari è stato ribadito dall’art. 117, co. 1, Cost., come riformato dalla l. cost. 3/2001, mentre la Corte costituzionale ha definitivamente accolto tale impostazione dei rapporti tra diritto comunitario e diritto interno nella sentenza Granital del 1984, nella quale ha affermato che il diritto interno e il diritto comunitario devono coordinarsi secondo la ripartizione di competenza voluta dai Trattati comunitari, nel senso di assicurare la prevalenza degli atti comunitari direttamente applicabili. La successiva giurisprudenza costituzionale ha chiarito che tale principio si applica anche alle statuizioni risultanti dalle sentenze interpretative della Corte di giustizia dell’UE (sentenza 113/23 aprile 1985), dalle sentenze di inadempimento e dalle norme dei Trattati comunitari alle quali deve riconoscersi efficacia diretta (sentenza 389/11 luglio 1989) e, infine, dalle direttive aventi effetti diretti (sentenza 64/2 febbraio 1990). Se la norma non è direttamente applicabile e non produce effetti diretti, il contrasto della legge con la norma comunitaria non dà luogo alla disapplicazione del diritto interno contrastante: resta in questo caso la possibilità di trarre dall’art. 11 una ragione di illegittimità costituzionale della stessa legge.
Il modello dell’a., con la richiesta di una scuola imperniata sul fanciullo in grado di prepararlo alla vita, ha dominato la pedagogia progressiva, soprattutto angloamericana, dei primi anni del 20° sec., trovando il fondamento teorico negli studi psicologici di G. Stanley Hall e nelle proposte educative di W.H. Kilpatrick. Per realizzare l’obiettivo di una tale scuola l’insegnante deve adeguare metodi e materiali alle esigenze largamente differenziate degli studenti, sviluppando negli allievi la stima di sé e le capacità richieste per un facile inserimento nella società. Questo modello è stato criticato da una prospettiva sia sociologica sia pedagogica, che lo considera inefficace rispetto agli obiettivi di formazione e sviluppo intellettuale e di acquisizione di conoscenze e abilità, propri della scuola.
In psicologia si dice a. ogni variazione comportamentale che vada incontro alle domande dell’ambiente. Nello specifico, in psicofisiologia si parla di a. positivo, quando al variare delle stimolazioni corrispondono variazioni sensoriali compensatorie (a. all’oscurità) e di a. negativo, quando, a fronte di una stimolazione continuata, diminuisce la risposta dell’organismo per l’innalzamento del livello di soglia dei recettori (a. agli odori).
Si parla di livello di a. in corrispondenza al valore di stimolo indifferente o neutro di una serie ordinata di stimoli Secondo la teoria dello psicologo americano H. Helson (1959), tale livello rappresenta la media ponderata di tre classi di stimoli: lo stimolo cui si risponde (e che è al centro dell’attenzione); gli stimoli di sfondo o di contesto; i residui di precedenti esperienze di stimolazioni analoghe.