Categoria letteraria con cui la critica indica l’atteggiamento del gusto che si diffuse sullo scorcio del 19° sec., interessando innanzitutto la produzione letteraria ma anche il costume e gli orientamenti morali dei ceti borghese e piccolo borghese. Mentre non è stato difficile trovare un accordo tra gli studiosi sulla definizione di un d. ‘storico’, ravvisabile soprattutto, per quanto riguarda l’Italia, nel vistoso fenomeno dannunziano e riconducibile quindi ai diffusi atteggiamenti estetizzanti della fine del 19° sec., assai dibattuto è stato il problema della definizione di un d. inteso in senso più ampio, quale fenomeno, cioè, della storia della cultura da collegare a una profonda crisi dei valori tradizionali. Per non citare che qualche nome, al d. apparterrebbero, oltre a P. Verlaine e ai poeti maledetti, G. D’Annunzio e T. Mann, S. Corazzini e M. Proust, e poi ancora I. Svevo, J. Joyce, L. Pirandello, R. Musil, G. Ungaretti, E. Montale, A. Moravia, tutte le avanguardie (futurismo, dadaismo, surrealismo, espressionismo).
Usato polemicamente da B. Croce in antitesi al valore positivo rappresentato dal classicismo carducciano, il termine d. è stato poi adoperato dalla stessa critica di ispirazione crociana senza più alcuna connotazione negativa, mentre una sfumatura negativa venne riacquistando nella critica di orientamento marxista del secondo dopoguerra, la quale, fatti salvi i diritti della letteratura, ha visto nel fenomeno del d. una conseguenza della fuga nell’irrazionale con cui la borghesia nella sua fase declinante avrebbe cercato di reagire alla propria stessa crisi; e in questa prospettiva, alla letteratura del d. doveva contrapporsi quella del realismo. Fuori d’Italia la nozione di d. è stata impiegata quasi soltanto con riferimento al sodalizio di scrittori (o alla corrente) operante come tale nel decennio tra il 1880 e il 1890 in Francia. Le prime avvisaglie polemiche e formulazioni teoriche del d. si ebbero di fatto in Francia, fra il 1882 e il 1886, quando il termine ‘decadente’ usato dalla critica borghese e accademica per designare spregiativamente il nuovo indirizzo artistico, fu dai seguaci di questo adottato e ostentato, nelle loro riviste d’avanguardia (La nouvelle rive gauche, che poi assunse il titolo di Lutèce; La Revue indépendente; La Revue wagnérienne; Le Décadent), come insegna di nobiltà: al concetto di ‘decadenza’ essi davano infatti un valore opposto a quello dei loro avversari, cioè non di declino morale ed estetico, ma di estrema maturazione di una cultura, preziosa per la molteplicità e la raffinatezza dei suoi innesti.
Il d., che ha perciò inizialmente parecchi punti di contatto col parnassianesimo, se ne differenzia soprattutto nel considerare l’arte non già fine a sé stessa, impassibile di fronte alla realtà, bensì quale specchio di esperienze di vita spinte al di là da ogni distinzione del bene dal male. «Poeti maledetti» chiamò P. Verlaine i portatori di questa nuova visione della vita e dell’arte, annoverando tra essi, oltre sé medesimo, T. Corbière, A. Rimbaud, S. Mallarmé, M. Desbordes-Valmore e J. de Villiers de l’Isle-Adam. E più tardi saranno anche considerati tra i precursori G. de Nerval e Lautréamont. Ma il loro vero padre spirituale i decadenti lo riconobbero in C. Baudelaire. E con lui si possono indicare come antesignani del d. (oltre a R. Wagner e F. Nietzsche) E.A. Poe e quei poeti inglesi come J. Keats, P.B. Shelley, A.C. Swinburne e D.G. Rossetti, nei quali il titanismo romantico, perduta l’originaria impetuosità, aveva fatto posto a un morbido, estenuato godimento della bellezza. Il d. è pervaso da un’ansia metafisica, e il poeta decadente non è, né vuole più essere, il poeta-vate caro al romanticismo, ma il poeta-veggente, che giunge all’ignoto attraverso un immenso «sregolamento di tutti i sensi» (A. Rimbaud). Per lui non c’è più da una parte la realtà e dall’altra il sogno, ma tutta la vita si presenta sotto specie simbolica. Ciò spiega come il simbolismo, a un certo punto, tenda a distinguersi dal d., quale movimento o scuola a sé, spingendo all’estremo il culto dell’analogia.
Ma, se decadenti in senso stretto furono solo alcuni poeti, in senso lato, cioè partecipi di una sensibilità e di un gusto che dalla poesia si andarono rapidamente estendendo alle altre forme letterarie, e dalla letteratura passarono alle arti e al costume, si possono considerare decadenti gran parte degli scrittori e artisti affermatisi tra la fine dell’Ottocento e il principio del Novecento, a cominciare da J.-K. Huysmans che, con il romanzo À rebours (1884), diede al d. uno dei testi più esemplari e più imitati (in Italia da G. D’Annunzio, con Il piacere, 1889; in Inghilterra da O. Wilde, con The picture of Dorian Gray, 1891); con Huysmans si possono citare J. Péladan con il suo ciclo di romanzi Décadence latine (1886-91), J. Moréas, H.-F.-J. de Regnier, il pittore G. Moreau. E, per l’accennata comunanza delle origini e complementarità degli influssi, può essere considerato d. anche quello che dalla Francia si diffuse in Inghilterra (O. Wilde), nei paesi di lingua tedesca (S. George, R. M. Rilke, H. von Hoffmansthal), in Belgio (M. Maeterlinck), in Spagna e nei paesi di lingua spagnola (R. Darío), in Portogallo (E. de Castro), anche se le diverse varietà nazionali del d. andarono ben oltre le suggestioni dei décadents francesi e furono più opportunamente etichettate come estetismo, modernismo, simbolismo.
Quanto all’Italia, se sicure tracce di d. sono rilevabili già nella letteratura degli Scapigliati, soltanto con D’Annunzio si può cominciare a parlare di un’adesione esplicita al d., soprattutto nella sua accezione estetizzante, mentre più sfumata rimane la posizione di G. Pascoli e di A. Fogazzaro, nei quali sono più accentuate rispettivamente la componente simbolica e quella religioso-voluttuosa.