Trattato (1° sec. a.C.) del trattatista latino Vitruvio, in dieci libri.
Approfondimento di Francesco Pellati, s.v. Vitruvio (Enciclopedia Italiana)
§ Il "De Architectura". - Raccogliendo e riassumendo le norme e le notizie che i suoi predecessori avevano tramandate, V. costituì quasi un corpus dell'architettura, per giovare non solo ai professionisti ma anche ai cittadini che volessero curare da loro stessi le proprie costruzioni. Egli dunque fece per l'architettura ciò che più tardi faranno per altri campi Plinio, Frontino, Columella, Balbo, ecc. come i trattati di Frontino, di Columella, di Quintiliano, quello di V. appartiene al genere cosiddetto isagogico, che mira a divulgare i risultati acquisiti alla scienza per mezzo di un'esposizione facile, accessibile ai più e non di rado per domanda e risposta: ed è propria del genere la solenne dedicazione dell'opera. Occorre qui subito precisare che V. dava alla parola architectura un senso più ristretto di quanto oggi essa non abbia, e cioè, al pari di Quintiliano, egli la intese come aedificatio, avente per oggetto la costruzione degli edifici pubblici e privati, escludendo quindi tutte quelle altre opere d'arte (strade, ponti, viadotti, ecc.) che rientrano piuttosto nel campo dell'ingegneria. Nel libro I, dopo la solenne dedicazione ad Augusto, unita a una dichiarazione di riconoscenza per i compensi ricevuti prima da Cesare, poi da Augusto stesso per intercessione di Ottavia, V. tratta dell'architettura in generale, segnando il cammino dell'arte, delineando le qualità necessarie all'architetto e i compiti che deve assolvere, e definendo la natura i limiti e il fondamento dell'architettura, intesa come arte e come scienza; tratta poi delle sue origini dalla fabrica e dalla ratiocinatio, delle parti di cui essa si compone, delle norme che la reggono. L'esame dell'estetica vitruviana ha dato luogo a molti studî (cfr. J. A. Iolles, Vitruvs Ästhetik, Friburgo 1906): importa qui notare che in questa estetica domina il concetto della triade e della decade, razionalismo aritmetico che, nato o perfezionato dalla scuola pitagorica, penetrò poi largamente nelle arti figurative con Policleto e nell'ingegneria militare con Filone. È infine da aggiungere che V., nelle sue divisioni e suddivisioni dell'architettura, ha derivato da Posidonio, per il tramite di Varrone, un sistema che porta chiaro in sé l'impronta della Stoà, e che teneva il campo nell'età alessandrina. E del resto, anche nella pratica costruttiva, il trattato di V., anziché riflettere la nuova architettura di Augusto e di Agrippa, offre il ricordo dei procedimenti che erano in uso e che l'autore stesso aveva applicati nell'ultimo secolo della repubblica.
Nel capitolo terzo del libro I, V. divide l'architettura in tre parti: aedificatio, gnomonica e machinatio, e a queste sole parti, come si disse, egli limita la sua opera. Dopo avere distinto nella aedificatio gli edifici privati da quelli pubblici e avere tripartito questi ultimi secondo che servono alla defensio, alla religio e alla opportunitas, V. tratta, sempre nel libro primo, della scelta dei luoghi dove far sorgere le città, della costruzione delle mura e delle torri e della distribuzione delle fabbriche dentro le mura.
Nel libro II, dopo avere discorso della prima origine e dello sviluppo delle fabbriche dagli albori dell'umanità (e questo capitolo primo potrebbe considerarsi come il primo rudimentale trattato di paletnologia), egli espone i vari materiali di cui si formano gli edifici, la loro natura e i caratteri delle diverse strutture.
Col libro III, cominciando a trattare delle singole fabbriche et de earum symmetriis et proportionibus, prende le mosse dai templi, descrivendone le varie forme, specie ed ordini e le loro strutture, e soffermandosi poi su quelli di ordine ionico.
Nel libro IV tratta invece di quelli dorici e corinzî, nonché dei templi rotondi e degli altari degli dei.
Col libro V comincia a trattare dei luoghi pubblici e particolarmente del foro, delle basiliche, dell'erario, del carcere, della curia, dei teatri, dei portici, dei bagni, delle palestre e dei porti. Particolarmente importanti sono i capitoli che trattano dei teatri, delle costruzioni marittime e soprattutto delle basiliche, perché queste costruzioni sono state per la prima volta codificate da V., il quale poi avrebbe eretto una basilica in Fano, che egli stesso descrive come un tipo a sé, con sostanziali varianti sul tipo da lui considerato come normale. I capitoli relativi al teatro sono di grandissima importanza, perché su essi si è negli ultimi decennî impostata la grave questione dell'evoluzione del teatro antico rispetto alla scena e al pulpito. (Per quanto riguarda il capitolo dedicato alle fondazioni marittime, cfr. lo studio di Ch. Dubois in Mélanges d'archéol. et d'histoire 1902, fasc. 4-5).
Col libro VI, V. prende a trattare degli edifici privati, della loro situazione secondo la natura dei luoghi, delle loro parti e delle loro proporzioni, delle case di città e di campagna.
Nel libro VII si occupa delle rifiniture atte a dare agli edifici venustatem et firmitatem: intonachi, pavimenti, stucchi, marmi, musaici, pitture, a proposito delle quali ci dà un piccolo trattato sull'uso e la preparazione dei colori. Con questo libro VII, il trattato di architettura potrebbe dirsi compiuto.
Nel libro VIII si ha una trattazione alquanto incompleta di idraulica, a proposito delle acque, della loro natura, del modo di ritrovarle, di provarle, di condurle e di conservarle.
Il IX e il X sono due brevi trattati a sé, l'uno di gnomonica e l'altro di machinatio: a proposito della gnomonica e delle varie specie e cimposizioni degli orologi, V. divaga a sommarie osservazioni di geometria e di astronomia; nel libro X egli si occupa così delle macchine di pace come, soprattutto, di quelle di guerra.
Del trattato disgraziatamente mancano per intero le illustrazioni che lo corredavano, e che già nei più antichi manoscritti erano andate perdute: gravissima lacuna che tanto ha contribuito ad aumentare l'oscurità e le difficoltà d'interpretazione del testo.
L'edizione principe del De Architectura è quella apparsa in Roma nel 1486, probabilmente per i tipi dell'Herolt (ma senza indicazioni di data e di luogo), a cura di Giovanni Sulpicio da Veroli e di Pomponio Leto. Contrariamente a quanto fin quasi ad oggi si è creduto, è questa, fra le antiche edizioni, la più attendibile e la più fedele. Seguono l'edizione fiorentina del 1496 e quella veneta del 1497, e, nel 1511, quella veneta di Fra Giocondo, grandemente superiore alle precedenti per bellezza tipografica e accompagnata da ben 140 gustose figure, con le quali l'umanista veronese ha tentato di ricostituire le perdute illustrazioni originarie, ma assai inferiore a quella sulpiciana per fedeltà al testo originario, avendo Fra Giocondo corretto e completato ad arbitrio i passi tiscuri e lacunosi. Tra le edizioni più vicine a noi ricordiamo quelle del Rode (Berlino 1800), della Società Bipontina (Strasburgo 1807), dello Schneider (Lipsia 1807-1808; questa può considerarsi come la prima edizione critica del trattato, riprodotta poi nella collezione Antonelli di Venezia, 1854), dello Stratico (Udine 1825-30), del Marini (Roma 1830), del Lorentzen (Lipsia 1857), di Rose e Müller-Strubing (Lipsia 1867; ripubblicata dal solo Rose nel 1899), del Krohn (Lipsia 1912), dello Choisy (Parigi 1909) e del Granger (Londra 1931).
Fra le traduzioni italiane tiene un posto cospicuo la prima, uscita in Como nel 1521 ad opera di Cesare Cesariano, allievo di Bramante, completata da Benedetto Giovio e Bono Mauro, magnifica per abbondanza di documentazione critica ed esegetica, per correttezza e ricchezza tipografica e per bellezza di figure: la prima edita, ma non la prima eseguita, poiché prima che dal Cesariano Vitruvio fu tradotto da Fabio Calvo (il manoscritto é nella Biblioteca di Monaco) e da Silvano Morosini (il manoscritto è nel codice Ottoboniano 1653 della Vaticana). Tra le altre versioni, oltre quella del 1524, detta del Durantino ma che è una replica di quella del Cesariano, basterà ricordare quelle di G. B. Caporali (incompleta; Perugia 1536), del Barbaro (Venezia 1556, 1567, 1584, 1629, 1854) del Rusconi (Veneiia 1590, 1660, con 160 nuove interessanti figure), del Galiani (Napoli 1758, Siena 1790 e ancora 1832, 1844, 1854), di B. Orsini (Perugia 1802), di L. Amati (Milano 1829-1832), tli Q. Viviani) (Udine 1830-32), di L. Marini (Roma 1836), di Ugo Fleres (Milano 1933)
Delle tante versioni straniere ci limiteremo a ricordare quelle francesi di J. Martin (1547), di L. Perrault (1673), di M. de Bioul (1861), di C. Maufras (1847), di A. Choisy (1909); quelle tedesche di W. Ryff o Rivius (1548), di A. Rode (1796), di F. Reber (1865), di J. Prestel (1912); quelle inglesi di R. Castcll (1730), di. W. Newton (1771), di W. Wilkins (1812), di J. Gwilt (1825), di M. Morgan (1914), di F. Granger (1931); quelle spagnole di M. Urrea (1587), di J. Ortiz y Sanz (1787); quella polacca di E. Raczynskiego (1840); quella danese di J. L. Ussing (1914).