Scultore ateniese (sec. 4º a. C.). Tra i massimi artisti della classicità, le sue opere vennero replicate in numerosissime copie e lodate dagli autori antichi. Enorme è stata la sua influenza in tutte le epoche (in partic. nell'età ellenistica), fino al mondo contemporaneo. Il capolavoro di P. è l'Afrodite cnidia: il corpo della dea è scolpito in maniera armoniosa, con la consueta posa sinuosa cara a P.; inoltre lo sguardo dolce e sentimentale e la bellezza del nudo ne hanno fatto un capolavoro di eleganza e hanno permesso a P. di fregiarsi dell'appellativo di «scultore della grazia».
Figlio di Cefisodoto, e padre di un secondo Cefisodoto e di Timarco. Plinio ne pone il massimo fiore nell'olimpiade 104a (364-361), e Pausania lo dice attivo intorno al 340. Intorno alla metà del secolo devono cadere i suoi rapporti con l'etera Frine, che fu sua modella. Ritenuta dubbia la sua partecipazione al progetto del Mausoleo di Alicarnasso, fra le sue prime opere certe vi è il Satiro versante, noto in più copie marmoree (di cui le migliori sono quelle di Anzio e di Torre del Greco), mentre l'originale era bronzeo (370 a. C. circa); nella mano destra alzata il satiro tiene l'oinochòe da cui versa il liquido nella patera protesa con la mano sinistra; solo le piccole orecchie ferine distinguono questo giovanile satiro da un delicato efebo; l'originale era, a quanto pare, sulla via dei Tripodi ad Atene. In marmo era invece l'Eros di Tespie, dedicato da Frine (365 circa), portato a Roma ed esposto nel Portico di Ottavia, sostituito a Tespie da una copia di Menodoro ateniese (una buona copia è il torso del Palatino, al Louvre). L'opera di P. più celebrata nell'antichità era l'Afrodite di Cnido (circa 360 o 340), che rese famosa l'isola che ospitò questa immagine nuda della dea, mentre Coo ne preferì un'altra vestita «più seria e pudica». La statua, che Nicomede di Bitinia non riuscì a comprare a nessun prezzo dagli abitanti di Cnido, finì a Costantinopoli e fu distrutta in un incendio. Ne rimangono moltissime copie, raggruppate in due sottotipi (Colonia e Belvedere), dei quali è problematico stabilire quale sia più vicino all'originale; il tipo è riprodotto in monete di Cnido e rappresenta per la prima volta la dea nella completa nudità, in atto di deporre il chitone per il bagno. P. trattò più volte questo tema di Afrodite, e di gusto prassitelico ci appare l'Afrodite nota da una copia di Arles, opera certo di un periodo antecedente alla Cnidia (360 circa e formante una triade insieme al già citato Eros e a una statua di Frine, nativa appunto di Tespie). L'Artemide brauronia (350 circa) che Pausania vide nel santuario sull'Acropoli, è stata riconosciuta in una copia del Louvre, detta Diana di Gabî, che mostra la dea in atto di agganciarsi il mantello; va attribuita a P. anche l'Artemide in atto di togliere una freccia dal turcasso, opera (nota in più copie; quella di Dresda conserva anche la testa) che possiamo attribuire al periodo giovanile. Nella maturità sembra sfruttare più accentuatamente ritmi sinuosi e curveggianti, spostando la figura fuori del proprio asse per mezzo di un appoggio laterale. Questo ritmo è evidente nell'Apollo sauroctono (360), in atto cioè di uccidere con la freccia una lucertola che striscia sul tronco d'albero a cui il giovane dio si appoggia con il braccio sinistro alzato (l'originale, probab. una statua di culto elevata ad Apollonia al Rindaco e portata a Roma da Lucullo nel 73 a. C., era forse in bronzo; se ne conoscono più di settanta copie marmoree e una bronzea ridotta a Villa Albani; fu celebrato in epigrammi ed ebbe una larga diffusione). Un ritmo analogo, ma invertito, mostra il Satiro anapauòmeno (340), cioè in riposo, che si appoggia a un tronco d'albero con il braccio destro e tiene la mano sinistra sul fianco (notevole una copia dal Palatino). Originale è ritenuto dalla maggior parte dei critici l'Ermete del museo di Olimpia, proveniente dal tempio di Era, dove lo aveva visto Pausania, che lo attribuisce a un P.: è incerto se si tratti del nostro P. o, come altri pensano, di un omonimo del sec. 2º a. C. Il dio, che è nudo, mostra il corpo giovanile mollemente sinuoso, regge con la mano sinistra appoggiata a un pilastro il piccolo Dioniso, e con la mano destra alzata cerca di distrarlo mostrandogli un grappolo d'uva. Le divinità di Eleusi furono anche uno dei temi prassitelici: la Core si riconosce nel tipo della Piccola Ercolanese, e la Demetra in quello della Grande Ercolanese. I rilievi votivi ci fanno conoscere anche un tipo del Trittolemo prassitelico, seduto sul trono con i serpenti e con il volto ombrato di riccioli spioventi. Questo volto trova analogie con quello noto in due busti ateniesi, nei quali si riconosce con molta verosimiglianza un'altra creazione prassitelica, il cosiddetto Eubuleo (detto anche Trittolemo Theos o Alessandro Magno), divinità eleusina che le fonti ricordano fra i soggetti più celebrati trattati da Prassitele. Originali devono ritenersi sia una base con un Dioniso e due Nìkai che era sulla via dei Tripodi (prassitelica per ritmo e per panneggio), sia le lastre con Apollo e Marsia e le muse provenienti da Mantinea (355-330), dove probabilmente adornavano la base dei simulacri di Latona e dei figli, opera di Prassitele. Viene invece rifiutata l'attribuzione a P. del tipo dell'Apollo nudo con ricca acconciatura, in atto di tenere la cetra poggiando la mano destra sul capo (forse l'Apollo Liceo, del 350, descritto da Luciano). Varie altre opere ci sono inoltre ricordate dalle fonti letterarie (così un Dioniso bronzeo e un Dioniso a Elide, l'Artemide Pseliumène, la Tyche di Megara, una Rhea con Chronos a Platea, un Eros a Parion e uno dormiente, la Frine dedicata a Delfi). Un'ara neoattica scoperta a Ostia ci fa conoscere con probabilità i Dodici Dei che P. aveva scolpito a Megara. P. è sommo artista del marmo, di cui conosce tutti i segreti; il suo ideale estetico è di una bellezza giovanile e fiorente, lontano da ogni pathos violento, tutto concentrato in problemi di singole figure piuttosto che di grandi composizioni. Ama un ritmo molle e gravitante, tranquillo e sinuoso; è contenuto e delicato nel nudo dai trapassi leggeri, di un tenue chiaroscuro; i suoi panneggi sono plastici, armonicamente suddivisi in partiti di pieghe, morbidamente consistenti. Umanizzò i tipi divini preferendo quelli in cui potesse esprimere l'amore, la giovinezza, la bellezza fiorente. soggetti delle sue creazioni sono generalmente divinità giovanili, di una fiorente bellezza, come Eros, Apollo, Artemide, Afrodite, Hermes, Dioniso, e anche gli esseri della natura selvaggia, come i satiri, sono trasformati dalla sua visione in bellissimi efebi. Il suo ideale è quindi la chàris, cioè la bellezza unita alla grazia. Egli non si muove nella sfera delle solenni divinità dell'Olimpo come Fidia e gli artisti del V sec., ma sceglie solo alcuni dèi o esseri semidivini e li riveste di una bellezza tutta umana con una intonazione già delicatamente sensuale e romantica. Per questo suo particolare contenuto poetico crea anzitutto ritmi che sciolgono la figura da quell'equilibrio gravitante sul proprio asse che era stato il problema centrale dell'arte del V sec. e che aveva trovato la formulazione più complessa e organica in Policleto. I ritmi prassitelici sono o di appoggio a un sostegno laterale, dando una curvatura nuova, sinuosa, alla figura, o anche, quando il sostegno manca, il corpo si flette in una molle gravitazione, si rilascia in un inerte abbandono, o si curva in una posa raccolta, spesso con la testa reclinata, rifuggendo sempre dalla linea statica e verticale. La scala ritmica si adegua cioè all intonazione e al soggetto dell'opera, come anche il nudo, che si allontana da quella salda costruzione organica del V sec., esprimente quasi sempre energia e dinamicità, per assumere una carnosità più spessa che copre maggiormente la costruzione ossea e assume morbidezze nuove e più delicati trapassi, raffinando ancor più quel sottile senso coloristico che era stato sempre il carattere distintivo della scultura attica, alla cui tradizione è intimamente connaturato il temperamento atticissimo di Prassitele. Egli giunge cosi ad effetti di sfumato, specialmente nel modellato del volto e degli occhi, le cui palpebre si assottigliano dando allo sguardo un carattere un po' trasognato, che gli antichi critici definivano ὑγρός. Anche il panneggio si intona a questa visione con più molli consistenze, con un fluire più mosso e ondeggiante di pieghe che si dispongono in varî ritmi obliqui, e non più rigidamente gravitanti, sottolineando così il senso ritmico della creazione e avvolgendo le figure femminili in eleganti drappeggiature che fasciano il corpo e mettono in rilievo il vario atteggiarsi delle membra con una grazia tutta nuova. Se il severo e semplice peplo nel suo simmetrico cadere di pieghe architettoniche verticali era stato l'ideale panneggio delle solenni figure gravitanti del V sec., il chitone più sottile e lo himàtion che permettevano tante possibilità di vari avvolgimenti, di risalti e di cadenze, saranno preferite da P., che ne darà varie formulazioni, le quali diverranno tipiche, e che saprà farne uno degli elementi caratteristici del suo linguaggio formale