(lat. Hercŭles)
Presso i Romani, nome dell’eroe greco Eracle, famoso per la sua forza. La figura di E. ha posto vari problemi all’indagine: in primo luogo se debba essere annoverato tra gli dei o tra gli eroi. Su questo punto le testimonianze antiche relative al suo culto appaiono contraddittorie. Le tradizioni greche ci parlano dell’eroe figlio di Zeus e della mortale Alcmena, ma anche di un Eracle concepito come Dattilo Ideo, primo di un gruppo di cinque Dattili, nati direttamente dalla grande Dea Madre di Creta, e quindi un dio; questo suo aspetto divino, quale Dattilo, è riconoscibile anche nella maggior parte delle imprese da lui compiute e raccolte nella tradizione ‘vulgata’ relativa alle ‘dodici fatiche’ sostenute da E. per volere di Era. La dea in questa tradizione è presentata come nemica dell’eroe-dio, ma comunque resta, anche in questa prospettiva, una grande divinità femminile al servizio (o per ordine) della quale una figura maschile sovrumana compie una serie di imprese; e nello stesso quadro rientra anche la tradizione dello stato di servitù al quale era assoggettato E. presso Onfale (➔).
Nella versione vulgata del mito (che si riassume nelle tradizioni tebane) Zeus possedette la mortale Alcmena avendo assunto l’aspetto del marito Anfitrione. Era, gelosa di Alcmena, anticipò la nascita di Euristeo rispetto a quella del cugino E., perché potesse sottometterlo. Quando E. aveva otto mesi (o appena nato), mentre era in culla con il gemello Ificle, strozzò i due serpenti mandatigli contro da Era mostrando da allora la sua forza sovrumana. E. crebbe a Tebe educato in ogni disciplina da uno specialista mitico: da Eurito nell’arco, da Autolico nella lotta, da Castore nelle armi. L’uccisione di Lino, che gli insegnava la scrittura e la musica, lascia intravedere l’aspetto selvaggio della sua natura. Mandato per punizione dal padre sul Citerone a custodire il gregge, diede a 18 anni la prova della sua forza uccidendo un leone. Tornando a Tebe, mutilò del naso e delle orecchie i messi di Ergino, re dei Mini in Orcomeno, che pretendevano un tributo da Tebe e li rimandò incatenati. Ne sorse una guerra in cui E. vinse. In ricompensa ottenne per moglie la figlia di Creonte, re di Tebe, Megara, dalla quale ebbe tre figli (o più). Quando Euristeo, re di Tirinto (o Micene), lo chiamò al suo servizio, E. uccise i propri figli e due di quelli di Ificle in un accesso di follia mandatagli da Era per costringerlo al servizio di Euristeo con una colpa tale che rendesse necessaria l’espiazione, o perché, malgrado l’oracolo di Zeus, E. esitava a riconoscere Euristeo come padrone. Sceso nell’Ade per ordine di Euristeo, al suo ritorno sposò Deianira, sorella di Meleagro, che fu causa della sua morte.
Al servizio di Euristeo E. compì le dodici fatiche, impostegli dall’oracolo di Delfi per la durata di dodici anni come prezzo per la sua immortalità o come espiazione per l’uccisione dei figli. Esse, pur con varianti nella successione, in età ellenistica, sono: a) il leone di Nemea in Argolide, nato da Tifone e da Echidna (o dalla Chimera e dal cane Ortro): E. lo strozzò con le mani e ne rivestì la pelle; la testa del leone gli servì da elmo; b) l’idra di Lerna, un drago mostruoso, nato da Tifone ed Echidna, con 5 o 7 (o più, fino a 100) teste esalanti alito mortale: E. colpì le teste con le frecce infiammate o le tagliò con la spada, aiutato dal nipote Iolao; schiacciò con un masso la testa centrale, che era immortale, e avvelenò le sue frecce con il sangue del mostro; c) il cinghiale di Erimanto, in Arcadia, che infestava i campi di Psofide: E. lo catturò vivo; d) la cerva di Cerinea, monte fra l’Arcadia e l’Acaia; aveva le corna d’oro e i piedi di rame ed era sacra ad Artemide: E., che non doveva perciò ucciderla, la inseguì per un anno intero finché la colpì con una freccia e la prese; e) gli uccelli di Stinfalo, lago in Arcadia, dotati di artigli, rostri e ali di bronzo e anche di penne di bronzo che scagliavano come dardi: E. ne uccise alcuni con le sue frecce, gli altri li cacciò spaventandoli con un sonaglio di bronzo datogli da Atena; f) la cintura di Ippolita, regina delle Amazzoni, dono fattole da Ares, ma desiderata da Admeta figlia di Euristeo: E. uccise Ippolita e le prese la cintura; g) le stalle di Augia, re degli Epei nell’Elide, piene del letame accumulato dagli immensi armenti: in un giorno solo E. riuscì a ripulirle immettendovi la corrente del fiume Alfeo (o del Peneo o di ambedue i fiumi); h) il toro di Creta, mandato al re Minosse da Posidone e poi reso furioso dal dio perché Minosse non lo aveva sacrificato: E. portò vivo il toro a Micene; Euristeo volle dedicarlo a Era, ma la dea lo rifiutò; perciò fu rimesso in libertà (e figura poi come toro di Maratona nella leggenda di Teseo); i) le cavalle di Diomede, re dei Bistoni in Tracia, che si chiamavano Podargo, Lampon, Xanto, Deino e si nutrivano di carne umana:. E. vinse Diomede e lo diede in pasto alle sue cavalle, che si lasciarono domare dall’eroe e portare a Euristeo, il quale poi le rimise in libertà; l) i buoi di Gerione, mostro figlio di Crisaore, custoditi in grandi armenti nell’isola di Eritea dal gigantesco pastore Eurizione e dal cane bicipite Ortro: per prenderli E. dovette attraversare l’Oceano ottenendo da Elio la ‘coppa’ che serviva al dio per il viaggio di ritorno dall’occidente all’oriente; ammazzati Ortro ed Eurizione, E. portò via i buoi; Gerione raggiunse E. sulle rive del fiume Antemo; là però l’eroe lo uccise e imbarcati i buoi sulla coppa giunse sull’altra riva dell’Oceano a Tartesso. m) i pomi d’oro delle Esperidi, che erano stati regalati da Gea a Era come dono di nozze; erano custoditi in un giardino dell’estremo occidente, presso il Monte Atlante, dalle Esperidi e guardati da un drago, Ladone: E. uccise Ladone, prese tre pomi e li portò a Euristeo; n) il cane Cerbero, che stava a guardia dell’Ade: l’eroe discese dal capo Tenaro in Laconia nell’Ade dove ebbe molte avventure e incontri; avendo ottenuto da Ade il permesso di catturare la bestia a condizione di non usare armi, E. afferrò Cerbero per il collo e dopo fiera lotta riuscì a trascinarlo fuori fino a Micene in presenza di Euristeo, che per lo spavento si rifugiò in una botte; poi lo ricondusse nell’Ade. Con quest’ultima fatica, E. si liberò dalla servitù di Euristeo. Secondo altre versioni l’ultima fatica sarebbe la ricerca dei pomi delle Esperidi, con cui l’eroe conquistò l’immortalità.
Delle leggende romane che lo riguardano, la più nota è quella della lotta di E. e Caco , formatasi su tratti autentici della mitologia italico-romana, ma secondo modelli ellenistici in tempo piuttosto tardo. La prima forma della leggenda doveva mostrare l’eroe accolto, al ritorno da Gerione, dal re Fauno, che usava sacrificare agli dei gli stranieri, ma che fu ucciso da E.; questi poi continuò il suo cammino per la Magna Grecia. Nella tradizione ordinaria Evandro, conosciuta dalla madre Carmenta la vera natura di E., gli consacra un altare fra il Palatino e l’Aventino, la cosiddetta Ara massima. La leggenda di E. è collegata anche con il mito della Bona Dea.
Il culto di E. si diffuse nelle province d’Italia e nelle regioni dell’Impero, e fu dato spesso il suo nome a divinità indigene analoghe. Gli imperatori Caligola e Commodo si fregiarono dei suoi attributi (pelle leonina e clava). Massimiano si chiamò Erculeo. Il culto dell’Ara massima fu in vigore fino al tempo di Costantino.
L’iconografia greca e romana del dio insiste sugli attributi della clava e della pelle leonina e talvolta compaiono anche l’arco e la faretra; in alcuni tipi arcaici e italici E. indossa la corazza. I due tipi barbato e imberbe coesistono fino dall’arcaismo; la muscolatura del corpo è sempre vigorosa, resa con grandiosa efficacia soprattutto nel tipo attribuito a Lisippo, noto specialmente dalla copia Farnese (Museo archeologico nazionale di Napoli). Numerose sono anche le figurazioni del dio in azione nelle 12 fatiche e negli altri episodi del mito. Particolari figurazioni sono l’E. banchettante, quello che suona la cetra, quello ebbro, quello in abiti di Onfale.
E. è protagonista di varie tragedie greche, dalle Trachinie di Sofocle all’Alcmeone a Psofide, al Telefo (queste due perdute), all’Alcesti e all’Eracle di Euripide. Nella letteratura latina il mito di E. è trattato soprattutto nelle Metamorfosi di Ovidio, nell’Eneide di Virgilio, nell’Ercole furente (lat. Hercules furens) e nell’Ercole Eteo (lat. Hercules Oetaeus) di Seneca. La leggenda della sua nascita è trattata con vena comica nell’Anfitrione di Plauto, da cui deriva la commedia elegiaca Geta di Vitale di Blois (12° sec.). Particolare fortuna ebbe nel Medioevo specialmente il mito di Ercole al bivio, narrato da Prodico, che fu assunto a simbolo del destino di ogni uomo. Nel primo Umanesimo e poi nel Rinascimento, la figura di E. divenne il simbolo dell’uomo che vince la fortuna e conquista l’eternità grazie alle proprie virtù. Sono da ricordare il De laboribus Herculis di C. Salutati; il trattato Los trabajos de Hércules di E. de Villena (1417); il poema Ercole di G.B. Giraldi Cinzio (1557); l’Hercule mourant di J. de Rotrou (1634). Nel campo musicale si ricorda l’oratorio Hercules di G.F. Händel (1745).
Accanto all’interpretazione drammatica o lirica della figura di E., non è mancata fin dall’antichità quella comica (vedi Gli Uccelli e Le Rane di Aristofane), che è poi venuta sempre più accentuandone i tratti buffoneschi.
Colonne d’E. Le due rupi di Calpe e di Abila che formano lo Stretto di Gibilterra, così chiamate per la leggenda d’origine fenicia secondo cui il dio Melqart (identificato poi con E., Hercules Gaditanus, per il culto e il famoso tempio di Gades) avrebbe posto ai lati dello stretto due colonne. Furono considerate l’estremo limite raggiunto da E. nelle sue peregrinazioni e, specie nel Medioevo, come un limite posto perché gli uomini non si spingessero nell’Oceano Atlantico.
Grande costellazione del cielo boreale tra la Lira e la Corona boreale, in cui gli antichi Greci riconoscevano la figura di E., coperto della pelle del leone Nemeo e armato di clava.