L’insieme delle tecniche di misurazione delle grandezze (grandezze fotometriche) che caratterizzano la luce: quantità di luce, illuminamento, luminanza ecc., che si introducono in ottica per individuare le caratteristiche e gli effetti sull’occhio umano di un fascio di radiazioni luminose. L’occhio è un ricevitore selettivo, la cui sensibilità spettrale, fissata convenzionalmente per l’occhio normale dalla cosiddetta curva di visibilità (➔ visibilità), ha un massimo in corrispondenza alla lunghezza d’onda di circa 5500 Å (colore giallo) e decresce regolarmente da una parte e dall’altra di tale massimo, riducendosi a zero per lunghezze d’onda minori di 3800 Å (estremo violetto) e maggiori di 7600 Å (estremo rosso). Così, gli effetti visivi di luci di uguale intensità energetica ma di diverso colore, o di diversa composizione spettrale, sono in genere diversi: la quantità di luce, giudicata dall’occhio e, come tale, grandezza fotometrica, può risultare tutt’altra cosa della quantità di energia raggiante. Da qui la difficoltà di fondo della f.: la misurazione fotometrica, vale a dire il confronto tra due luci è possibile, a rigore, soltanto se le luci in questione sono omocromatiche, cioè hanno la stessa composizione spettrale. Ora, in molti casi si tratta invece di confrontare luci di non uguale composizione spettrale, cioè eterocromatiche.
Nel caso della cosiddetta f. di base, o f. in luce bianca, come tale intendendo quella in cui si assume che le luci siano bianche (per la precisione, come sorgente-tipo si considera il cosiddetto corpo nero di Burgess, vale a dire un foro praticato nella parete di un forno tenuto alla temperatura del platino fondente, 2043 K), le grandezze fotometriche sono: a) intensità luminosa o visibile, di una sorgente puntiforme in una certa direzione x (➔ intensità); b) flusso luminoso o visibile Φ, di tale sorgente in un piccolo angolo solido ω, di asse x; è la quantità
c) quantità di luce, Q, cioè la quantità di energia raggiante nel campo visibile emessa da tale sorgente in tale angolo solido nell’intervallo di tempo t:
d) radianza luminosa, R, in un punto P di una sorgente estesa S in una certa direzione x; è il rapporto
tra il flusso luminoso Φ emesso o diffuso, nella direzione x, da un elemento di S intorno a P e l’area σ di tale elemento; e) luminanza, L, dell’elemento anzidetto nella direzione x è l’intensità luminosa di esso in tale direzione; se ω è l’angolo solido cui Φ si riferisce, si ha:
f) illuminamento, E, di un elemento di una superficie illuminata da un flusso luminoso Φ: è la quantità
ove σ è l’area dell’elemento. Le [1]-[5] sono le equazioni fondamentali della f.; in esse, oltre al tempo e a grandezze geometriche, compaiono sei grandezze fotometriche; scelta una di queste come fondamentale, le altre si possono dunque definire come grandezze derivate. Precisamente, come grandezza fondamentale si è assunta l’intensità luminosa, e come sua unità di misura la candela; conseguono allora per le altre grandezze fotometriche le unità di misura indicate nella tab., in cui sono riportate anche le grandezze energetiche e le unità di misura energetiche, usate genericamente per le radiazioni elettromagnetiche, corrispondenti alle grandezze e alle unità fotometriche.
Non presenta gravi difficoltà l’estensione di quanto ora detto al caso della f. in luce colorata, purché tra luci omocromatiche.
F. stellare Branca dell’astronomia che si occupa della misura del flusso luminoso proveniente dalle stelle e da altre sorgenti celesti. Oggetto delle misure fotometriche è l’illuminamento (I) prodotto da una stella; questo è definito come la quantità di energia raccolta nell’unità di tempo dall’unità di superficie di un rivelatore (misurato in W/m2), disposto perpendicolarmente alla direzione della radiazione incidente, al di fuori dell’atmosfera terrestre. Dall’illuminamento I si ricava la magnitudine apparente m (o grandezza apparente) della stella con la formula:
dove I0 è un illuminamento di riferimento a cui si fa corrispondere la magnitudine apparente 0. Pertanto, se consideriamo due stelle, che producono rispettivamente gli illuminamenti I1 e I2, le loro magnitudini apparenti m1 ed m2 sono legate dalla relazione:
In conseguenza del segno negativo al secondo membro della [2], il verso in cui crescono le magnitudini è opposto a quello in cui crescono gli illuminamenti: ciò significa che quanto più brillante è una stella, tanto più piccola è, algebricamente, la sua magnitudine apparente. Si trova anche che una differenza di 5 unità di magnitudine fra due stelle corrisponde a un rapporto 100 fra i loro illuminamenti.
Il valore della magnitudine dipende dalla sensibilità che il rivelatore usato ha alle varie lunghezze d’onda. Se la sensibilità del rivelatore è uguale a quella dell’occhio umano, si ottiene la magnitudine visuale (apparente), indicata con mv. Nella scala di magnitudini tradizionale, si poneva mv=2 per la Stella Polare. Oggi, si adottano come riferimento stelle diverse (le cosiddette stelle standard), sicché la Stella Polare ha magnitudine 2,12. L’oggetto più luminoso del cielo, il Sole, ha magnitudine visuale −26,8; la Luna −12,5; Venere −4; Sirio, la stella che ci appare più luminosa dopo il Sole, −1,5. A occhio nudo, si riescono a osservare le stelle fino alla sesta magnitudine; con i più potenti telescopi, quelle fino alla 26-esima. La magnitudine apparente di una stella dipende non solo dal suo splendore intrinseco, ma anche dalla sua distanza; tanto maggiore è la distanza, tanto minore è l’illuminamento prodotto e, quindi, maggiore la magnitudine. Per svincolarsi dall’effetto della distanza, si introduce allora la magnitudine assoluta (M), che è funzione soltanto della luminosità intrinseca della stella. La magnitudine assoluta di una stella è definita come la magnitudine relativa che essa avrebbe se si trovasse a una distanza di 10 parsec (pc). Poiché l’illuminamento è inversamente proporzionale al quadrato della distanza, dalla [2] segue che la magnitudine relativa e quella assoluta di una stella sono legate dalla relazione:
dove d è la distanza della stella misurata in parsec, I(d) il suo illuminamento e I(10) l’illuminamento che la stella produrrebbe se si trovasse alla distanza di 10 pc.
Analisi fotometrica L’insieme dei metodi di analisi chimica basati sulla misura di un’intensità luminosa. Le regioni spettrali di particolare interesse sono il vicino ultravioletto (2000-4000 Å), il visibile (4000-7500 Å) e la regione dell’infrarosso compreso fra 1 e 25 μm. L’assorbimento e l’emissione di radiazioni sono associati nel campo del visibile e dell’ultravioletto a fenomeni di transizione a carico degli elettroni più esterni, nel campo dell’infrarosso a variazioni di energia cinetica di rotazione e di traslazione delle molecole.
Le apparecchiature sperimentali sono costituite da una sorgente luminosa, da un sistema di lenti, da un mezzo disperdente che consente di isolare l’intervallo di lunghezza d’onda desiderata, da un rivelatore. Per la spettroscopia di emissione nell’ultravioletto e nel visibile le sorgenti luminose generalmente impiegate sono la fiamma, l’arco e la scintilla. Per la spettrofotometria di assorbimento nell’ultravioletto la sorgente più comune è la lampada a scarica in atmosfera di idrogeno, nell’infrarosso i filamenti di Nernst e le bacchette al carburo di silicio, nel visibile la lampada a filamento di tungsteno incandescente e quella a vapori di mercurio.
Il materiale con il quale sono costruiti sia le lenti sia i prismi deve essere scelto in funzione della regione spettrale nella quale si opera. Nell’ultravioletto è generalmente impiegato il quarzo, nell’infrarosso il cloruro di sodio, il bromuro di potassio, il fluoruro di litio o la fluorite, nel visibile più semplicemente il vetro.
Per ciò che riguarda i rivelatori, i più impiegati sono le cellule fotoelettriche e i fotomoltiplicatori (nel caso di bassa intensità). Nell’infrarosso i rivelatori comunemente impiegati sono invece i bolometri, le termopile, i termistori.
Le tecniche fotometriche sono impiegate in spettrofotometria e colorimetria per quanto riguarda l’analisi spettrale in assorbimento, in spettrografia, f. di fiamma per l’analisi in emissione, e inoltre nella tecnica in assorbimento atomico, in turbidimetria, nefelometria, fluorimetria, polarimetria, rifrattometria e interferometria.