I movimenti migratori possono assumere una connotazione individuale o collettiva; volontaria o forzata; interna o internazionale. Si configura una dimensione collettiva laddove sono intere popolazioni costrette ad abbandonare la loro terra in seguito a guerre o per sfuggire a regimi politici oppressivi – i “profughi”; ovvero allorquando, ad esempio, a seguito di stravolgimenti territoriali causati da trattati di pace che modificano i confini di un Paese, sono gruppi di persone che condividono la stessa origine nazionale o etnica che si vedono obbligati a spostarsi realizzando la cosiddetta «diaspora». Al contrario, la dimensione individuale della migrazione, accanto a ipotesi di movimento forzato (indotto, ad es., da catastrofi naturali, da conflitti armati interni o internazionali, da minacce o persecuzioni per motivi etnici, religiosi, politici, di appartenenza a un particolare gruppo sociale, di orientamento sessuale ovvero dal rischio di morte o minaccia grave alla vita e alla libertà personale), si compone altresì di ipotesi di movimento volontario, fondato cioè su ragioni economiche ovvero familiari. Dall’esame del 2009 Global Trends Report dell’Alto commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati (ACNUR) il Sudafrica si conferma la destinazione favorita dei richiedenti asilo, avendo registrato più di 222.000 domande di asilo nel 2009 (pari a quelle registrate nello stesso anno in tutto il territorio dell’Unione Europea); seguono gli Stati Uniti e la Francia, che ha registrato un incremento negli arrivi pari al 19% rispetto al 2008. Al contrario, nelle migrazioni di natura prettamente economica, il Rapporto del Segretariato generale delle Nazioni Unite del maggio 2006 sul tema “Migrazioni internazionali e sviluppo” stima in 191 milioni il numero dei migranti internazionali, pari al 3% della popolazione globale. Di questi 191 milioni, un terzo circa lascia il proprio paese in via di sviluppo per migrare in un diverso paese sempre in via di sviluppo; un altro terzo lo lascia invece per emigrare in un paese già pienamente sviluppato e l’ultimo terzo è costituito da migrazioni Nord-Nord e Nord-Sud. Il diritto internazionale riconosce e tutela le migrazioni pur facendo registrare una certa tensione tra il diritto a emigrare e quello a immigrare, sebbene entrambi esprimano, in un certo qual modo, due prospettive di una stessa realtà. In particolare, è con riferimento al diritto all’ingresso e alla libertà di circolazione nel proprio paese, come pure alla libertà di lasciare il proprio paese e scegliere di fissare la propria residenza in uno Stato (anche diverso) quale componente fondamentale dello sviluppo personale, che si registra un atteggiamento di piena tutela nei diversi strumenti pattizi: l’art. 12(1), (2) e (4) del Patto sui diritti civili e politici; l’art. 22 della Convenzione Interamericana sui diritti umani; l’art. 12 della Carta africana dei diritti dell’uomo e dei popoli; l’art. 26 della Carta araba dei diritti fondamentali; l’art. 2 del Protocollo 4 della Convenzione europea per la salvaguardia di diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali e l’art. 5 (ii) della Convenzione per l’eliminazione di tutte le forme di discriminazione razziale. Il riconoscimento del diritto a circolare nel proprio paese e a potervi fare ingresso e uscita implica poi un diritto a ottenere il passaparto – anche per chi si sia stabilito all’estero (Comitato per i diritti umani, Vidal Martins v. Uruguay, 1982; El Ghar v. the Libyan Arab Jamahiriya, 2004 e El Dernawi v. the Libyan Arab Jamahiriya, 2007) cui si correla un diritto a rimanere nel territorio con conseguente divieto di espulsioni e diritto a fare rientro nel proprio paese. Nonostante gli accordi internazionali approntino un siffatto livello di garanzia per un diritto latu sensu all’emigrazione, non ogni restrizione o sua compressione da parte degli ordinamenti nazionali è da ritenersi illegittima. Segnatamente, l’ordinamento internazionale ammette forme di restrizioni collettive dei diritti summenzionati qualora esse si configurino come proporzionate allo scopo da perseguire, e risultino motivate dalla necessità di proteggere la sicurezza nazionale, l’ordine pubblico, la salute pubblica o diritti e libertà altrui (cfr., in particolare, art. 12 (3) del Patto sui diritti civili e politici); ovvero dalla necessità di assicurare diritti e libertà di altri e nell’interesse della moralità, ordine pubblico e il benessere generale in una società democratica (art. 29 della Dichiarazione universale). Di converso, spostando il piano di indagine alla dimensione dell’immigrazione oltre frontiera, il principio generale della sovranità dello Stato sul proprio territorio e sulla propria popolazione consente alle autorità nazionali di determinare le condizioni che regolamentano gli ingressi e, dunque, l’accesso al territorio nazionale, come pure le condizioni di allontanamento degli stranieri. La discrezionalità di cui godono gli ordinamenti nazionali al riguardo è unicamente condizionata dal divieto di espulsioni collettive (art. 12 [5] Convenzione Interamericana dei diritti umani; art. 26 [2] Carta araba; art. 4 Protocollo 4 Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali; Raccomandazione n. XXX del 2004 del Comitato per l’eliminazione di tutte le forme di discriminazione razziale e Osservazione generale n. 15 del 1986 del Comitato per i diritti umani) e dall’onere dell’applicazione di una serie di garanzie procedurali allorquando decidano di procedere all’espulsione dello straniero legalmente soggiornante sul proprio territorio. La decisione di espellere deve, infatti, essere prevista «in accordo con la legge» (art. 13 Patto sui diritti civili e politici; art. 22 Convenzione sui lavoratori migranti; art. 26 Carta araba; art. 1 Protocollo 7 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali) e, secondariamente, essere passibile di impugnazione da parte del suo destinatario davanti a un tribunale o a un’autorità amministrativa. Alle ora ricordate restrizioni procedurali della discrezionalità statale si aggiungono delle restrizioni per così dire sostanziali, che derivano: a) dall’esigenza di tutela del rispetto del diritto all’unità familiare qualora essa possa dirsi preponderante (in un’opera di bilanciamento) sulle sia pure legittime esigenze di tutela dell’interesse pubblico all’allontanamento; e b) dal divieto di allontanamento in paesi in cui lo straniero possa essere oggetto di trattamenti inumani o degradanti, ovvero di persecuzioni e minacce alla vita e alla libertà personale (il divieto di refoulement è sancito all’art. 14 Dichiarazione universale; agli artt. 31-33 della Convenzione di Ginevra del 1951 relativa allo status di rifugiato e a oggi, è da ritenersi, una norma di diritto consuetudinario). A fronte di un siffatto ruolo e potere degli Stati nella gestione del fenomeno delle migrazioni diverse istanze internazionali hanno approcciato al tema nella diversa prospettiva di una considerazione dei diritti dei migranti e rifugiati e, dunque, di un’integrazione di principi umanitari nella gestione delle migrazioni internazionali (si vedano in tal senso: le Sommet mondial pour le développement social, Copenhagen 1995; la Quatrième conférence mondiale sur les femmes, Pechino 1996; la Deuxième conférence des Nations Unies sur les établissements humains, Istanbul 1996; la Conférence mondiale contre le racisme, la xénophobie et l’intolérance, Durban 2001). Anche diversi trattati/accordi bilaterali sull’immigrazione, accordi di integrazione regionali si sono occupati della fattispecie sebbene varino di molto: negli elementi presi in considerazione, quanto al livello di integrazione dei migranti da promuovere ed attuare, nonché relativamente alla liberalizzazione della libertà di circolazione di tali soggetti all’interno dei territori degli Stati appartenenti all’integrazione regionale di cui l’accordo in parola è alla base, e che può rappresentare alternativamente un elemento primario o secondario dell’accordo stesso. Dal canto suo la Dichiarazione sui diritti umani degli individui che non hanno la nazionalità del paese dove dimorano va nella direzione di un riconoscimento ai migranti di: un diritto alla vita e alla sicurezza della persona; del riconoscimento dell’abilità a fondare una famiglia; del diritto a comunicare con il consolato, a mantenere la propria cultura, lingua e tradizioni, nonché a trasferire i proventi dell’attività lavorativa svolta all’estero. Benché si tratti di un tipico atto di soft law che non produce effetti vincolanti sui suoi destinatari, il merito dello strumento è stato indubbiamente quello di aver iniziato l’espansione delle Nazioni Unite nell’affermazione dei diritti umani dei migranti all’interno di atti convenzionali elaborati in seno a sue agenzie, quale l’Organizzazione internazionale del lavoro, in particolare, attraverso le Convenzioni n. 97 del 1949 e la n. 143 del 1975 ; ovvero attraverso l’istituzione della figura dello special rapporteur per i diritti umani dei migranti che, attraverso le visite nei diversi Stati e l’elaborazione dei rapporti annuali svolge un’attività di importante e costante monitoraggio delle garanzie offerte (best practices e situazioni abbisognevoli di cambiamenti) ai migranti nel mondo. Da ultimo, l’elaborazione in seno all’Assemblea generale delle Nazioni Unite della Convenzione relativa alla protezione dei diritti dei lavoratori migranti e dei loro familiari (entrata in vigore nel 2003 e purtroppo non ratificata, a oggi, se non per lo più dai cosiddetti sending countries), che prende segnatamente in considerazione anche la delicata posizione di quei migranti che si trovino in condizione irregolare sul territorio dello Stato di destinazione, ha avuto il merito di riconoscere ai migranti per ragioni economiche: il diritto al ritorno nello Stato di origine; i diritti all’accesso al lavoro e all’assistenza sociale e sanitaria (sia pure entro certi limiti) e il diritto all’educazione. Essa proibisce inoltre il lavoro forzato e la schiavitù, l’arbitraria privazione della proprietà; assicura il diritto ai migranti e loro familiari di pretendere dallo Stato ospite una protezione effettiva contro violenze, intimidazioni, minacce e offese fisiche perpetrate da soggetti pubblici o privati, gruppi o istituzioni. Egualmente, insiste nelle garanzie di non discriminazione, di tutela della donna (sia pure trascurando di considerare le forme multiple di discriminazione cui essa sola è soggetta), del riconoscimento della libertà di espressione, religione e inoltre, quanto al profilo dell’allontanamento, prevede di assicurare la considerazione di motivi umanitari, e valutare l’estensione del soggiorno nello Stato dello straniero prima di procedere.