Complesso di politiche pubbliche messe in atto da uno Stato che interviene, in un’economia di mercato, per garantire l’assistenza e il benessere dei cittadini, modificando in modo deliberato e regolamentato la distribuzione dei redditi generata dalle forze del mercato stesso. Il welfare comprende pertanto il complesso di politiche pubbliche dirette a migliorare le condizioni di vita dei cittadini. L’espressione («Stato del benessere»), entrata nell’uso in Gran Bretagna negli anni della Seconda guerra mondiale, è tradotta di solito in italiano come Stato assistenziale (che ha però sfumatura negativa) o Stato sociale. Secondo A. Briggs, gli obiettivi perseguiti dal welfare sono fondamentalmente tre: assicurare un tenore di vita minimo a tutti i cittadini; dare sicurezza agli individui e alle famiglie in presenza di eventi naturali ed economici sfavorevoli di vario genere; consentire a tutti i cittadini di usufruire di alcuni servizi fondamentali, quali l’istruzione e la sanità. Definizione di carattere più generale è quella formulata da I. Gough, il quale indica il welfare come «l’uso del potere dello Stato volto a favorire l’adattamento della forza lavoro ai continui cambiamenti del mercato e a mantenere la popolazione non lavorativa in una società capitalistica». Gli strumenti tipici per perseguire gli obiettivi del welfare sono: a) corresponsioni in denaro, specie nelle fasi non occupazionali del ciclo vitale (vecchiaia, maternità ecc.) e nelle situazioni di incapacità lavorativa (malattia, invalidità, disoccupazione ecc.); b) erogazione di servizi in natura (in particolare istruzione, assistenza sanitaria, abitazione ecc.); c) concessione di benefici fiscali (per carichi familiari, l’acquisto di un’abitazione ecc.); d) regolamentazione di alcuni aspetti dell’attività economica (quali la locazione di abitazioni a famiglie a basso reddito e l’assunzione di persone invalide). Nel corso del tempo, gli interventi di questo tipo si sono via via sviluppati in connessione sia con l’evoluzione dei rapporti di solidarietà tra gli appartenenti al gruppo sociale, sia con l’andamento dello sviluppo economico (e, quindi, con la crescente disponibilità di risorse da destinare a tale scopo). Il momento di maggiore sviluppo del welfare, che coincide con la visione dello ‘Stato del benessere’ come insieme di interventi di protezione sociale a carattere tendenzialmente universale in favore dei cittadini, ha avuto la sua attuazione dopo la Seconda guerra mondiale. Il sistema della ‘sicurezza sociale’, introdotto in Gran Bretagna attraverso un’apposita legislazione del 1946 e del 1948, si impose come modello per gli altri paesi industriali. Esso copriva: disoccupazione, invalidità, perdita dei mezzi di sussistenza, collocamento a riposo per limiti di età, bisogni della vita coniugale (per le donne: matrimonio, maternità, interruzione dei guadagni del marito, vedovanza, separazione), spese funerarie, sussidi all’infanzia, malattia fisica o incapacità. L’universalizzazione del welfare (l’estensione, cioè, dei suoi servizi all’intera collettività, indipendentemente dallo stato di bisogno) ha avuto due effetti non previsti ma in netto contrasto con i suoi obiettivi equitativi: ha ridotto considerevolmente la capacità redistributiva dello ‘Stato del benessere di massa’, prevalentemente affidata alla progressività del sistema tributario, e ha provocato una massiccia espansione della spesa pubblica che ha messo in pericolo gli equilibri finanziari del sistema, creando problemi al contenimento dell’inflazione e della disoccupazione. Secondo l’economista R. Misha, tale aumento della spesa pubblica tende ad assumere carattere permanente a causa prevalentemente della competizione politica e della pressione dei gruppi di interesse, dando origine a una situazione di rigidità e di ridotta capacità di intervento della politica economica. Si è rilevato che l’espansione della spesa può determinare un eccessivo incremento della pressione fiscale e disavanzi del bilancio pubblico; che le prestazioni assistenziali possono ridurre l’incentivo a lavorare; che le burocrazie chiamate a fornire i servizi sociali sono sovente inefficienti e possono anteporre i propri interessi a quelli dei cittadini; che la gratuità di alcuni servizi può accrescerne eccessivamente la domanda e determinare sprechi; che la povertà, per quanto ridotta, non è stata eliminata. Per questi motivi, e anche perché è emerso in modo evidente che gli oneri che il welfare implica non sono compatibili con il tasso di crescita dell’economia e con il tasso di natalità molto basso dei paesi industrialmente avanzati, a partire dagli anni 1980 si è assistito a un considerevole ridimensionamento del ruolo dello Stato nei processi economici. Il sociologo danese G. Esping-Andersen (Three worlds of welfare capitalism, 1990) ha introdotto una classificazione dei diversi sistemi di welfare strutturata in tre tipologie; questa tripartizione è fondata sulle differenti origini dei diritti sociali che ogni Stato concede ai propri cittadini. Nel regime liberale i diritti sociali derivano dalla dimostrazione dello stato di bisogno. Il sistema è fondato sulla precedenza ai poveri meritevoli (teoria della less eligibility) e sulla logica del ‘cavarsela da soli’. Pertanto i servizi pubblici non vengono forniti indistintamente a tutti, ma solamente a chi è povero di risorse, previo accertamento dello status di bisogno; in virtù di questo, tale meccanismo viene spesso definito residuale, in quanto concernente una fascia di destinatari molto ristretta. Per gli altri individui, che costituiscono la maggior parte della società, tali servizi sono acquistabili sul mercato privato dei servizi. Quando l’incontro tra domanda e offerta non ha luogo, per l’eccessivo costo dei servizi e/o per l’insufficienza del reddito, si assiste al fallimento del mercato, cui pongono rimedio programmi destinati alle fasce di maggior rischio. Tale regime riflette una teoria politica secondo cui è utile ridurre al minimo l’impegno dello Stato, individualizzando i rischi sociali. Il risultato è un forte dualismo tra cittadini non bisognosi e cittadini assistiti. Tale modello è tipico dei paesi anglosassoni: Australia, Nuova Zelanda, Canada, Gran Bretagna e Stati Uniti. Nel regime conservatore i diritti derivano dalla professione esercitata: le prestazioni del welfare sono legate al possesso di determinati requisiti, in primo luogo l’esercitare un lavoro. In base al lavoro svolto si stipulano assicurazioni sociali obbligatorie che sono all’origine della copertura per i cittadini. I diritti sociali sono quindi collegati alla condizione del lavoratore. Questo è il modello tipico degli Stati dell’Europa continentale e meridionale, tra cui l’Italia. Nel regime socialdemocratico i diritti derivano dalla cittadinanza: vi sono quindi dei servizi che vengono offerti a tutti i cittadini dello Stato senza nessuna differenza. Tale modello promuove l’uguaglianza di status ed è tipico degli Stati dell’Europa del Nord.
Provvedimenti a sostegno dell’occupazione